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IL RACCONTO E' ADATTO AD UN PUBBLICO
ADULTO

AMORE IN CHAT Il nome che diamo
all’amore
"Sorrido mio caro, illusa di
dare un nome all’amore, l’ardore che brucia quest’insoddisfazione
perenne che mi travolge ogni volta che rimango da sola e mi porta in
fondo ad ogni vicolo stretto dove non posso fuggire, dove
all’imbrunire un fascio di luna punta la luce dalle parti della mia
incoscienza."

Mia cara
signora, spero che ora sia collegata. Ho da farle una
confessione importante, ho bisogno di dirle che le
voglio un infinito di bene, anzi che l’amo se m’è
permesso. Giuro e stragiuro che mai m’è successo di
toccare un’anima con le sole parole, di sentirla viva,
come un cuore che continua a battere fuori da un corpo.
La prego mi risponda! Ho pensato di non collegarmi più,
addirittura di cambiare nick, per costringerla a
concedermi un incontro, ma è troppo stretto questo
laccio. Non ci sono ragioni in questo silenzio. Per
placare la brama che sento, durante il giorno mi faccio
forza e continuo a pensare, la notte, il momento che nei
miei occhi appaia la luce e nelle mie vene scorra altro
sangue. Signora la prego, mi dica esattamente il
giorno, l’ora, dove posso incontrarla, anzi dove posso
solo vederla, perché non la disturberò. Non occorre che
mi dica se porta una rosa o un giornale nella mano
sinistra, la riconoscerei tra milioni di donne che
sciamano lungo le strade all’ora di punta. La prego non
è il sesso che feconda i miei sogni, il diritto
d’entrare tra le sue gambe come mi spetta, ma il bisogno
di sapere in quale posto ogni sera si bruciano i miei
pensieri, quale anima rivestita di carne li accoglie, li
arde al tepore nella speranza che sia arrivato il mio
turno. Stanotte domani, lo dica la prego! Mi giuri che
nulla sarà impedimento del nostro toccarci, scambiarci
saliva, succhiarci le dita come ciucci di bimbi, come
stare in un limbo nell’attesa che esploda l’ardore.
Oddio! Ma che dico? Davvero vorrei solo guardarla magari
mentre cammina sottobraccio al suo uomo. Mi perdoni
l’ardore. Lei capirà il trasporto, l’insolenza che
stasera m’ha portato ad uscir dalle righe. La prego
risponda.
Sorrido mio caro, lei non mi vede ma
sto sorridendo, se penso che cerco soltanto la passione
che scambio per amore, l’ardore che spegne e
contemporaneamente brucia quest’insoddisfazione perenne
che mi travolge ogni volta che rimango da sola e mi
porta in fondo ad ogni vicolo stretto dove non posso
fuggire, dove all’imbrunire un fascio di luna punta la
luce dalle parti della mia incoscienza. Alle volte mi
domando quanto possa ancora andare avanti, quanto mio
marito tenga ancora lento questo guinzaglio, quanto lei
quello mentale. Chissà se mio marito immagina quanto di
giorno mi sfogo, su quale ghiaia genufletto le gambe,
sotto quale pioggia mi metto a carponi infangando il
cognome che porta, questa casa e sua madre che ogni sera
mi chiama. Mi parla del tempo che fa male alle ossa,
che cosa faccio per cena, senza sapere che sua nuora
passa i giorni in chat carpendo ogni minimo istinto per
tradire suo figlio, per provare piacere nel sentirlo
pieno di corna nella bocca di altri, nelle parole avide
che ripetono il gusto di farsi una moglie.
Loro
parlano ed io l’ascolto, ma mi verrebbe da dire che i
miei vestiti sono sempre di seta, che comunque anche
puttana mi sento signora, che il più delle volte porto
un cappello che mi copre la fronte e due labbra che ad
ogni sguardo socchiudo perché sia chiaro che l’amore che
chiedo ha già in cambio una culla, il posto più caldo
dove accovacciarmi e per fare le fusa.
Mio caro,
anche questa giornata non è passata per nulla, questi
seni che lei non conosce hanno dato il meglio che
l’anima chiede. Erano belli quanto un ramo di pesco in
germoglio, quanto un’adolescente illibata che s’atteggia
a signora. Nudi sotto una nuvola sparsa aspettavano il
vapore di una bocca qualunque, il fremito d’una mano che
tocca per il tempo che non è mai abbastanza.
Sapesse mio caro! Quanto al solo ricordo la voglia mi fa
scoppiare le gambe, confusa nel desiderio scomposto che
s'aggira dalle parti del cuore. Ma poi m’accorgo che non
è cuore, non è anima, non è spirito e né religione, ma
solo banale sesso di donna, che pulsa e che freme dentro
ordinarie mutande di stoffa. Ho quarant’anni e
m’illudo di non dimostrarli, ma poi sfacciata mostro
questo seno che balla, che pende, che mi spoglia di
quella finta malizia costruita a fatica davanti allo
specchio. Mostro i miei seni sì, attratti da
quest’infinito bisogno d’essere oggetto, desiderio
evidente nelle patte rigonfie. Le giuro, non conosco
altro modo per essere femmina, altro genere per essere
donna, quando m’accorgo che non stanno nella pelle,
quando mi seguono discreti e gentili per poi diventare
cafoni e volgari tra le mie mani che si fingono esperte,
tra le mie gambe che s’aprono appena.
Scopro il
mio seno quel poco per svuotare l’attesa, lo scopro quel
tanto per riempire il mio giorno, per aprire due occhi
ancora indecisi, se chiedere quanto sia consentito
volare e quanto poi dura il palio e la giostra, e quanto
poi costa la tariffa e il biglietto, nella voglia
d’avermi e di fermare la danza, di mettere in gabbia le
mie tette leziose, che danzerebbero al vento mentre
cammino, che chiedono mute di farsi toccare, d’essere
linfa e sorgente di luce, lampi accecanti di un
temporale vicino, perché sono stelle che orientano al
buio, sono tette sfacciate che sorridono a tutti, come
orfani bimbi per farsi adottare, obbedienti e infedeli
che si danno per poco, ribelli e sfrontate che si danno
per tanto.
Sono campi di grano, rigogliosi e
fecondi, distese di mare che nutrono pesci, ma anche
siepi d’alloro che sanno di piscio, lische marcite per i
gatti di notte. Sono palle bagnate di saliva e di
voglia, spugne sgualcite di piacere imbevuto, poi il
vento le asciuga e riprendono forma, pronte e stirate
per la prossima bocca, che esperta le tratta come un
bene prezioso, che inesperta le graffia, che infantile
le gusta, come un cono gelato di panna e pistacchio,
zucchero filato la domenica in piazza nella bella
stagione. Sono gatte in calore sotto le finestre di
notte, che s’accoppiano al primo dopo ore di corte, ma
poi ammiccano al branco che muto le aspetta, quando i
fiati del primo si fanno insicuri.
Vorrei
ostentarle oltre questa chat, gonfiarle al vento ogni
sera, perché siano ombrelli per ripararli se piove,
perché siano stufe per scaldarci le mani, e siano
chiocce, ricordi materni, per chiunque s’illuda d’averle
già viste, attaccate alle madri che sgorgavano latte. E
vorrei che ne uscisse abbondante, per ogni bocca che
succhia e ogni lingua che lecca, come nettare d’anima
che nutre la mente, e farla ingozzare fino all’ultima
goccia, quando scade la voglia e s’affloscia il respiro,
e non rimane che sonno e non rimane che niente, forse
solo la luna che si spegne nel mare, e lascia un alone
che scambio con l’alba.
Non cerco un amante, un
rozzo signore che mi punti dritto nel sesso, che mi
puntelli in un angolo per il gusto di farmi piacere. Nei
miei deliri cerco un uomo che abbia il coraggio di
soffiarmi in bocca senza permesso, che mi chiami con un
nome diverso, che imbrogli le mie labbra d’essere parte
del mondo e le illuda che un sesso alla volta è solo un
timore borghese, un anoressico sogno d’una mogliettina
in attesa nel letto. Cerco un uomo che abbondi saliva
nei baci che offre, al punto di non credere che siano
atti d’amore e mi faccia fino in fondo pensare che se
fossero sputi sarebbero graditi lo stesso. Non ho
bisogno d’essere riempita di carne, d’essere gonfiata
d’aria addosso ad un muro, mentre l’uomo di turno mi
chiude e mi schiude questa conchiglia che ha bisogno
d’ossigeno.
Cerco un uomo che mi riduca
obbediente, che sappia farmi sentire il potere arrivando
qui dentro, nel punto preciso dove ogni sesso diventa
un’essenza, dove ogni donna sia certa d’avere l’anima in
mezzo alle gambe. Le giuro! Non sono questi buchi in
superficie che addobbo e coloro di pizzi e merletti
perché un uomo ne trovi più facilmente la strada! Non
sono questi vestiti che eccentrici danno l’idea che me
ne intenda di maschi, come se conoscessi a memoria ogni
dettaglio che vibra, che invece senza sapere mi procura
soltanto un vuoto mai sazio. E’ qualcosa che vive
dentro il mio ventre, tra queste carni che si comprimono
ogni volta, quando un uomo riesce ad arrivare dalle
parti del mio concetto, a sfiorare l’idea perché faccio
l’amore. Perché in amore c’è differenza ed io ne voglio
sentire più di quanto il mio corpo non dica, più di
quanto il suo corpo s’affanna, perché l’amore non è
altro che un grido, una banale illusione che chiamano
orgasmo, un sapore d’incompiuto che lascia roca la voce
e placa ogni desiderio.
Lascio alle altre l’odore
polveroso di una stanza d’albergo, il piacere di
sentirsi graffiare da una fratta di spine. Nel mio sogno
c’è posto soltanto per una donna che sente a distanza
l’odore del sesso, l’odore di maschio che gonfia i
polmoni e fa colare una femmina. Mi vedo immobile,
aperta e bagnata come acquasantiera, dove chiunque possa
intingere dita e sentire la consistenza del mio umore
più denso. Appropriarsi dell’odore della grande madre
terra che chiede in cambio d’essere il mondo o qualcosa
di simile che valga la pena di vivere, come grondaia che
scola e raccoglie, come tombino che succhia e rigurgita
dopo una giornata ininterrotta di pioggia.
Mio
caro, mi rendo conto quanto le mie parole possano essere
vane, possano risultare insipide al cospetto di chi non
ha mai creduto che l’amore fosse altro. Ma io sono
ancora lì in attesa, dentro un vicolo cieco e cammino,
lungo il bordo di una pallida luna, sotto una pioggia
fitta di foglie che si posa leggera sul mio cappello,
che all’imbrunire mi fa più bionda di qualsiasi tinta
appena rifatta. Mi chiedo quanta femmina c’è sotto
questi capelli e quanta ancora ne potrei ostentare al
mondo, a questi uccelli notturni che mi girano attorno e
mi fanno sentire più preda di qualsiasi insetto che li
possa sfamare.
Tolgo il reggiseno e intravedo
dentro una specchietto d’una macchina parcheggiata il
mio profilo abbondante. Mi ricorda quello di mia sorella
più grande, rigoglioso ed in attesa, seno di donna
matura, seno di zitella. Davanti allo specchio aspettava
due mani, le sole che mai vennero a toccarlo, mai a
sentirne defluire il pulsare di una donna promessa, il
calore intenso che a stento freddava, al cospetto del
suo riflesso ubriaco d’amore, ubriaco di voglie rimasto
a stagnare nel punto preciso dove erano nate, nella
parte di femmina dove non arrivano mani, dove non
arrivano sessi.
La spiavo nella sua stanza tra
la luce del buio mentre testarda si procurava piacere,
rubava minuti alla cena mentre la sua tetta schiacciata
diventava doppia e più grande contro lo specchio. Ed era
un fibrillar di dita, di respiri, di vetri appannati
mentre io curiosa trattenevo in gola i miei fiati
acerbi. La guardavo e rimanevo in attesa, come se da un
momento all’altro dovesse scoppiare, urlare al mondo la
gioia cercata solo dentro sé stessa. Mi pareva un rito,
una liturgia per chieder perdono ad un cielo che io
pregavo soltanto. Per anni l’ho pensata devota, ho
creduto davvero che il suo seno fosse un mezzo per
arrivare ad un Dio, la parte più tenera da sacrificare
alla supplica. La vedevo invasata, in balia d’un
movimento che non chiamavo piacere, d’un fascio di luna
che si posava come maschio tra la schiena e le gambe.
Posseduta si lasciava andare come se davvero il suo uomo
fosse tornato a riempire il suo ventre, a spalancare
quel mondo arido sino alle viscere.
Chiedeva
amore scoprendo il suo seno, stringendolo a forza fino a
procurarsi dolore. Lo stesso che ora sento, lo stesso
che riesco a capire mentre in attesa mi faccio del male,
violenza e perdono dentro un vicolo cieco a mostrare le
mie parti di femmina, una qualunque che mi faccia
sentire regina ed attiri uno sguardo che incredulo
ringrazi il destino, per essere passato per caso proprio
ora dove una donna sta cercando invano di dare un nome
all’amore.
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CONTINUA...
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
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