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RACCONTO

Adamo Bencivenga
LA
ZOCCOLETTA
Roma, 1957. Anna,
diciassette anni, scappa dal collegio delle suore in
cerca di libertà, ma trova solo le strade sporche
della sopravvivenza. Soprannominata "la zoccoletta",
inizia a vendere se stessa in un albergo diurno,
vicino alla Stazione Termini, finché un incontro
cambierà per sempre il suo destino...

Una sera, finalmente,
l’occasione arrivò. I genitori erano fuori per un
concerto di musica classica e Davide era rimasto in casa
a studiare. Dopo aver sbrigato tutte le faccende di
casa, ripensai alle parole di Clara e allora andai in
bagno e mi preparai con cura: la gonna rossa, il
rossetto, le calze di seta nera. Mi guardai più volte
allo specchio e per la prima volta mi sentii quasi
bella. Dopo tornai nel soggiorno e mi sedetti sul
divano. Quando lui entrò in salotto, mi vide e sorrise.
“Anna, ma da dove spunti? Mi sembri un’altra.” Disse,
con quella voce che mi faceva sciogliere. Stranamente
non si rinchiuse immediatamente nella sua stanza e
rimase lì con me e accese la radio su una stazione che
mandava musica americana. Seduto di fronte mi guardò
come se fosse la prima volta e poi parlammo, ridemmo
finché non mi invitò a ballare. Sentii il pavimento
crollarmi sotto i piedi e impacciata mi lasciai guidare
finché lui mi fissò intensamente e alla fine mi baciò.
Lui disse: “Lo so che non dovrei…” Ma a me non importava
nulla, ero in paradiso e mi sentivo leggera, la donna
che avrei sempre voluto essere.
Senza chiedermi
nulla, dopo un altro bacio ancora più passionale del
primo, mi distese sul divano e senza spogliarmi mi
chiese di salire su di lui. Facemmo l’amore così con la
radio che continuava a mandare musica di sottofondo e i
suoi gemiti caldi che mi dicevano: “Anna mi fai
impazzire, sei stupenda!” Quando lui mi disse di
lasciarmi andare liberai ogni mia inibizione e venimmo
insieme.
Successe altre volte, di nascosto, nei
momenti rubati. Sapevo che non potevo chiedere di più e
che dovevo stare al mio posto. Così diventai la sua
amante, quella nell’ombra, quella segreta, quella che
diceva sì ogni qualvolta lui bussava di notte alla mia
porta con i genitori nell’altra stanza. Non uscivo mai
con lui, fuori da quella casa non esistevo, neanche per
un gelato o una passeggiata lungo il Tevere. Laura, la
sua fidanzata, era il suo futuro, quella che portava al
cinema la domenica pomeriggio, quella con cui pranzava
nelle feste comandate e ai compleanni, quella con la
quale non faceva l’amore. Ma con Anna sì! Quella del suo
ripiego, la ragazza delle ore solitarie, quella che
riempiva i suoi vuoti o curava le sue tristezze e le sue
ansie prima degli esami. Quando compii diciotto anni mi
regalò in segreto un paio di mutandine rosse trasparenti
con la preghiera di indossarle solo per lui.
Poi
tutto cambiò. La signora Sandra si ammalò di un male
cattivo che la consumò in pochi mesi. Quella malattia si
insinuò silenziosa. All’inizio, notai piccoli segnali:
“È solo un po’ di stanchezza.” Diceva lei, con quel tono
brusco che non ammetteva repliche, ma vedevo nei suoi
occhi un’inquietudine nuova che cercava di nascondere.
Ma col tempo peggiorò e nonostante le sue resistenze
cercai di starle vicino inizialmente per ordine di
Mario, poi per una sorta di istinto che non sapevo
spiegare. La signora Sandra, che un tempo mi aveva
trattata come un’intrusa, ora non protestava più, anzi
mi pregava di sedermi accanto a lei. Una notte, mentre
le cambiavo una pezza fredda sulla fronte, mi afferrò il
polso: “Anna, promettimi che non lascerai Mario solo. Ha
bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui.” Con gli
occhi che mi bruciavano, annuì. “Lo prometto.” Dissi,
anche se dentro di me mi chiedevo come avrei potuto
mantenere quella promessa, io che ero solo una domestica
in quella casa, una ragazza senza niente, senza un posto
nel mondo.
Il professor Mario, distrutto dalla
malattia della moglie, sembrava invecchiato di
vent’anni. Rimaneva seduto accanto al suo letto a
tenerle la mano senza dire nulla o fermo sulla soglia
della camera, come se non avesse il coraggio di entrare
temendo ogni giorno il peggio. Mi diceva: “Non posso
perderla, Anna…” Davide, invece, reagì chiudendosi in sé
stesso. Usciva all’alba per andare all’università,
tornava tardi, spesso con l’odore di sigarette e grappa
addosso. Lo vedevo passare davanti alla cucina senza
guardarmi, come se fossi diventata invisibile. Le nostre
notti rubate si interruppero bruscamente. Davide stava
scappando da tutto: dalla madre morente, dalla casa che
si sgretolava, da me. La nostra relazione, già fragile e
segreta, sembrava dissolversi come fumo.
******
Una mattina, davanti al piccolo specchio del bagno,
notai qualcosa di strano. La mia pancia sembrava più
piena, più tonda del solito, tirava leggermente contro
il tessuto del mio grembiule. All’inizio pensai fosse
un’indisposizione, ma mentre passavo le dita su quella
curva appena accennata, mi attraversò un pensiero
gelido. Contai a ritroso nella mia mente e mi accorsi
che erano passati quasi due mesi dall’ultima
mestruazione. Nella frenesia di occuparmi di Sandra non
ci avevo fatto caso. Il panico mi strinse il petto, il
respiro corto e affannoso. Ero incinta. Quella parola
rimbombava nella mia testa, pesante. Incinta. A diciotto
anni, in un mondo che mi aveva già tolto tanto, questa
notizia sembrava al contempo un miracolo e una condanna.
Mi appoggiai al lavandino, stringendone i bordi
fino a sbiancarmi le nocche. Il mio viso era pallido,
gli occhi spalancati dalla paura, ma sotto quella paura
c’era altro: un barlume di meraviglia, un istinto
silenzioso di proteggere la vita che cresceva dentro di
me. Eppure, la realtà mi schiacciava, soffocando quel
calore fugace. Ero una ragazza senza famiglia, senza una
casa mia, che viveva della carità altrui. E questo
bambino, lo sapevo con certezza, poteva essere solo di
Davide.
Quel pensiero mi trafisse. I nostri
momenti rubati sembravano ora un sogno, sbiadito nella
luce cruda del giorno. Lui si era allontanato, consumato
dalla malattia di sua madre, dal suo dolore, dal peso
del suo futuro con Laura, la sua fidanzata “ufficiale”.
Io ero solo Anna, il segreto, l’ombra, la ragazza che
riempiva le sue ore solitarie ma non poteva reclamare il
suo cuore. Come potevo dirglielo? Mi avrebbe creduto? O
mi avrebbe guardata, come aveva fatto Marco, con occhi
accusatori, riducendomi a un errore, a uno sbaglio. Ero
davvero un peccato vivente?
Non ne parlai con
nessuno, non subito almeno. La paura di essere cacciata,
di perdere il fragile rifugio di quella casa, mi
sigillava le labbra. Sbrigavo le faccende meccanicamente
mentre la mia mente vorticava. Ogni scricchiolio del
pavimento mi faceva sobbalzare, come se qualcuno potesse
scoprire il mio segreto solo guardandomi. Dentro di me,
le emozioni si accavallavano: paura, vergogna, ma anche
una strana tenerezza verso quel minuscolo essere che non
avevo chiesto, ma che ora era parte di me. Mi chiedevo
cosa ne sarebbe stato di noi. Sognavo una vita diversa,
un futuro in cui questo bambino potesse avere una casa,
un nome, un posto nel mondo. Ma poi la realtà mi
riportava indietro: ero una domestica, una ragazza senza
nulla, con un passato che mi marchiava come la
“zoccoletta”.
Chi avrebbe voluto una madre come
me? Eppure, non potevo ignorare Sandra. Nonostante il
suo carattere burbero, negli ultimi mesi era diventata
una presenza costante. Passavo ore al suo capezzale,
aiutandola a bere un sorso d’acqua, ascoltando i suoi
silenzi. Lei mi osservava con occhi che sembravano
vedere oltre la mia pelle, come se intuisse qualcosa.
Una sera, mentre le sistemavo il cuscino, mi afferrò il
polso con una forza sorprendente. “Anna, hai la faccia
più piena.” Disse, scrutandomi. “Non è che sei incinta?”
Il suo tono non era accusatorio, ma diretto, come
sempre.
Arrossii, il cuore in gola, e senza
sapere perché, annuii. Non riuscii a mentirle. Forse
perché in quel momento, con lei così vicina alla fine,
sentivo che la verità era l’unica cosa che potevo
offrirle. Mi aspettavo un rimprovero, un giudizio.
Invece, Sandra mi strinse la mano, il suo sguardo
ammorbidito da qualcosa che somigliava alla compassione.
“Questo bambino è un dono di Dio, Anna. Non fare
sciocchezze.” Non mi chiese chi fosse il padre, e io non
lo dissi. Dentro di me, però, il terrore di perdere
tutto, la casa, la sicurezza, la fragile speranza di un
futuro migliore, si mescolava a un pensiero più oscuro:
abortire. Era il 1958, e a Roma, per una ragazza come
me, significava andare da qualche mammana in un vicolo,
rischiare la vita per liberarsi di un peso che non
potevo portare. Ma le parole di Sandra mi fermarono.
“C’è bisogno di vita in questa casa.” Aveva detto, e
quelle parole si piantarono dentro di me, come un seme
in un terreno arido. In pratica era il suo consenso a
restare in quella casa anche con un figlio!
Piena
di fiducia decisi di parlare con il professor Mario. Non
potevo più nascondermi e la mia pancia ben presto
sarebbe diventata visibile. Lo trovai in cucina, seduto
con una tazza di caffè ormai freddo, lo sguardo perso.
Gli raccontai tutto, o quasi: della gravidanza, della
mia paura, del fatto che non sapevo cosa fare. Non
nominai Davide. Mario mi ascoltò in silenzio, poi si
passò una mano sul viso. “Anna, sei una ragazza forte.”
Disse infine. “Troveremo una soluzione. Ma non puoi
restare qui per sempre, lo sai.” Poi, forse preoccupato
del mio futuro aggiunse: “Chi è il padre? Ti sposerai?”
Mi prese il panico e scoppiai a piangere e allora lui
capì, aprì le braccia e scosse testa. Poi mi disse:
“Vieni qui…” Mi avvicinai, lui mi abbracciò ed io mi
sentii piccola.
Le sue parole erano state
gentili, ma ferme, del resto ero solo un’ospite e non
una figlia. La reazione di Mario mi diede un po’ di
sollievo, ma anche un senso di precarietà. Non mi chiese
di andarmene, ma sapevo che la mia permanenza in quella
casa aveva i giorni contati. A Davide non dissi nulla.
Lo vedevo passare per casa, sempre più chiuso, sempre
più lontano. Le nostre notti erano finite, e il suo
silenzio mi feriva più di qualsiasi parola. Mi chiedevo
se avrebbe mai potuto accettare questo bambino, se
avrebbe potuto guardarmi senza disgusto, senza vedermi
come la ragazza che stava rovinando la sua vita ed io
non volevo essere una sua complicazione.
Ma più
ci pensavo, più capivo che non potevo contare su di lui.
Dovevo trovare una strada, per me e per il mio bambino.
Le settimane successive furono un misto di speranza e
disperazione. Continuavo a lavorare, a studiare per gli
esami di terza media che Mario mi aiutava a preparare,
ma ogni gesto era appesantito dalla consapevolezza della
mia situazione. La pancia cresceva, lenta ma
inesorabile, e con essa cresceva la mia determinazione.
Non sarei tornata al collegio, né a quella vita
squallida vicino alla Stazione Termini. Questo bambino,
che all’inizio mi era sembrato una condanna, stava
diventando la mia ragione per combattere. Ogni volta che
sentivo un piccolo movimento, una fitta, un segno di
vita, immaginavo un futuro in cui potevo essere una
madre, una donna, non solo la “zoccoletta” o la
domestica.
Una sera, mentre lavavo i piatti,
Sandra mi chiamò. Era debole, la voce appena un
sussurro. “Anna, vieni qui.” Mi sedetti accanto a lei, e
lei mi prese la mano. “Non lasciare che il mondo ti
travolga. Sei più forte di quello che pensi. Questo
bambino… è la tua chance di essere qualcosa di più.”
Piansi, non per tristezza, ma per la gratitudine. Quelle
parole, da una donna che un tempo mi aveva guardata con
diffidenza, mi diedero una forza che non sapevo di
avere. Decisi che avrei tenuto il bambino. Non sapevo
come, ma l’avrei fatto. Forse avrei trovato un lavoro,
una stanza in affitto, un modo per cavarmela. Forse
Clara, che nel frattempo si era sistemata con il suo
uomo, avrebbe potuto aiutarmi. O forse avrei dovuto
affrontare tutto da sola. Ma per la prima volta, sentii
che non stavo solo sopravvivendo. Stavo scegliendo. Per
me, per il mio bambino, per la Anna che volevo
diventare. Non più una ragazza senza nome, ma una madre,
una donna con un futuro da costruire, un passo alla
volta, anche se il cammino davanti a me era ancora
avvolto nella nebbia.
******
Quando Sandra
morì, in un’alba del 1958, la casa sembrò fermarsi. Ero
in cucina, intenta a preparare il caffè, quando sentii
il singhiozzo strozzato di Mario. Capii subito. Corsi
nella camera e trovai Sandra immobile, il volto sereno,
quasi sollevato. Mario era chino su di lei, le mani che
stringevano le sue, come se potesse ancora trattenerla.
Rimasi sulla porta, incapace di muovermi o di fare
alcunché, mentre le campane della sinagoga nel Ghetto
suonavano lente, come un lamento.
Il funerale fu
semplice: una piccola folla di parenti e amici si riunì
al cimitero del Verano, ed io in disparte mi sentii
un’estranea, come se non avessi il diritto di essere lì.
Nei giorni successivi, la casa divenne un guscio vuoto
come inghiottita da un silenzio che pesava come piombo.
Mario smise di parlare, di mangiare, di vivere ed io mi
occupavo di tutto: lavavo, cucinavo, rispondevo alle
lettere di condoglianze. Di notte, sdraiata nella mia
stanzetta, mi chiedevo se fosse giusto rimanere ancora
lì. La morte di Sandra aveva cambiato tutto, non solo
per Mario e Davide, ma anche per me.
Il
professor Mario si ritirava sempre più spesso nello
studio accanto alla finestra che dava sul Ghetto. Lo
trovavo lì, ogni mattina, con un libro aperto sulle
ginocchia, ma gli occhi fissi su un punto lontano, oltre
le tende pesanti. Mi ripeteva spesso: “Non è più la
stessa cosa, Anna. Senza di lei, questa casa è solo un
mucchio di pietre.” Annuivo, senza sapere come
rispondere, e tornavo in cucina con un nodo in gola.
Nonostante fossi indispensabile per mandare avanti
quella casa mi sentivo un’estranea. Ogni mattina, mi
svegliavo all’alba, quando il Ghetto era ancora avvolto
nella nebbia e i carretti dei venditori ambulanti
iniziavano a sferragliare sui sampietrini. Accendevo il
fuoco nella stufa, preparavo il pane per la giornata,
lavavo i pavimenti di marmo fino a farli brillare.
Guardavo le mie mani screpolate dal sapone e dall’acqua
fredda e ripensavo a mia madre. Ogni tanto, mentre
strofinavo una pentola o piegava le lenzuola, mi fermavo
a guardare fuori dalla finestra, verso il Tevere
chiedendomi se la sua vita sarebbe stata per sempre
così: un’ombra al servizio di altri, senza un nome,
senza un futuro. Eppure, non mi potevo lamentare.
Aspettavo un figlio mio anche se quella casa, con i suoi
odori di cera e libri vecchi, era tutto ciò che avevo al
momento. La routine era diventata il mio rifugio e la
mia prigione. Preparavo i pasti per Mario, che mangiava
poco e a malincuore, spesso lasciando il piatto intatto.
“Non avete fame oggi, professore?” Gli chiedevo e lui si
limitava a scuotere la testa, perso nei suoi pensieri. E
poi c’era Davide, il pensiero di lui, nonostante tutto,
continuava a scaldarmi il petto come una fiammella
ostinata. Dopo alcuni mesi, dalla morte della madre, si
laureò, ma nessuno festeggiò. Il professor Mario, per la
prima volta in settimane, si alzò dalla poltrona per
abbracciarlo. “Sei l’orgoglio di tua madre.” Gli disse,
con gli occhi lucidi. Avrei voluto congratularmi
anche io, ma capii che quel momento non mi apparteneva,
che ero solo una spettatrice in una storia che non era
la mia. La cattedra al liceo fu un passaggio naturale:
Davide aveva ereditato il carisma e la passione del
padre per l’insegnamento, e presto il suo nome iniziò a
circolare tra i colleghi e gli studenti come quello di
un giovane professore brillante, destinato a lasciare un
segno.
******
Nacque il mio bambino, poco
prima di partorire il professore chiamò un’amica della
portiera, una certa Teresa, che tutti nel quartiere
chiamavano “la levatrice del Ghetto” nonostante non
avesse un titolo ufficiale. Era una figura minuta, con i
capelli grigi raccolti in una crocchia stretta e mani
che sembravano conoscere ogni segreto del corpo di una
donna. Arrivò in casa con una borsa di pelle consunta,
piena di strumenti rudimentali e boccette di tinture
dall’odore acre. Mi guardò con occhi gentili ma decisi,
come se volesse infondermi coraggio senza bisogno di
parole. “Non aver paura, ragazza.” Mi disse. “Ci penso
io a te e al piccolo.” Il parto fu lungo e doloroso, non
c’erano medici, né ospedali, solo Teresa e il professor
Mario, che ogni tanto si affacciava sulla soglia,
pallido e con le mani infilate in tasca, incapace di
dare anche il piccolo aiuto. Io stringevo i denti,
aggrappata alle lenzuola, mentre il dolore mi spezzava
in due. Ogni contrazione sembrava strapparmi via un
pezzo di anima, ma allo stesso tempo sentivo una forza
nuova crescere dentro di me, una determinazione feroce a
portare quel bambino al mondo, a dargli una possibilità
che io non avevo mai avuto.
Quando finalmente
Giovanni nacque, era una notte di fine febbraio del
1959. Il suo pianto, acuto e deciso, riempì la stanza.
Teresa lo avvolse in una coperta di lana ruvida e me lo
posò sul petto. Era piccolo, con una testolina coperta
da una peluria scura e occhi che sembravano già cercare
i miei. Lo guardai, incredula, e per la prima volta dopo
anni mi sentii intera, come se tutte le crepe della mia
vita – la guerra, il collegio, la Stazione Termini, le
umiliazioni – si fossero richiuse, almeno per un
istante. “Giovanni.” Sussurrai, scegliendo il nome di
mio nonno materno, che non avevo mai conosciuto. Quel
nome era tutto ciò che potevo offrirgli, un frammento di
un passato che non era mai stato davvero mio.
Il
professor Mario entrò poco dopo e mi sorrise. “È un bel
bambino, Anna.” Disse accarezzandomi il viso. Poi, senza
aggiungere altro, uscì, lasciandomi sola con Giovanni e
Teresa, che stava ancora sistemando le sue cose. “Sei
stata brava.” Mi disse la levatrice, con un tono che non
ammetteva repliche. “Ora riposati, che il difficile
viene dopo.” Aveva ragione, ma in quel momento non ci
pensavo. Stringevo Giovanni, sentendo il suo calore
contro il mio petto, e per la prima volta mi sembrava
che il mondo potesse avere un senso.
Dopo la
nascita, il professore mi fece trasferire nella stanza
più grande in fondo al corridoio, quella che un tempo
era riservata agli ospiti. Era un gesto che mi sorprese,
un segno di accettazione che non mi aspettavo. La stanza
aveva un letto grande con un materasso di vera lana che
non scricchiolava, una finestra che dava sul cortile
interno e un armadio di legno scuro che profumava di
naftalina. Per me sembrava un lusso inimmaginabile.
“Questa sarà la vostra stanza.” Disse Mario, con un tono
pratico, ma gentile. “Tu e il piccolo avete bisogno di
spazio.” Non so se fosse un atto di generosità o un modo
per tenermi a distanza dal resto della casa, ma lo
accettai con gratitudine. Per la prima volta, sentivo di
avere un angolo tutto mio, un luogo dove Giovanni poteva
crescere, almeno per un po’.
******
Davide, però, era un’ombra. Durante la gravidanza si era
tenuto lontano, come se la mia pancia fosse invisibile.
Non mi aveva mai chiesto nulla, né del bambino né di me.
Lo vedevo passare per casa, sempre più magro, con gli
occhi cerchiati e l’aria di chi porta un peso troppo
grande. La morte di sua madre lo aveva spezzato, e il
suo futuro, il lavoro al liceo, le nozze imminenti con
Laura, sembravano assorbire ogni sua energia.
Eppure, dopo la nascita di Giovanni, qualcosa in lui
cambiò. Una mattina, mentre ero in cucina a scaldare il
latte, lo trovai in salotto con Giovanni in braccio. Lo
teneva con una delicatezza goffa, come se temesse di
romperlo. Poi si alzò e gli fece fare il giro della
casa, indicandogli oggetti a caso: “Vedi, Giovanni,
questo è un quadro… e questa è una lampada…” La scena mi
fece sorridere, ma anche stringere il cuore. Era la
prima volta che lo vedevo così, quasi umano. Per un
istante, mi illusi che potesse essere un bravo padre per
Giovanni e che potesse riconoscerlo come suo figlio.
Ma poi i suoi occhi incontrarono i miei, e ci lessi
una distanza che non potevo colmare. Non disse nulla, mi
restituì il bambino e uscì di casa senza voltarsi.
Sapevo che non potevo parlargli della verità. Giovanni
era suo, di questo ero certa, ma dirglielo avrebbe
significato distruggere tutto: il suo futuro con Laura,
la sua carriera appena iniziata, il fragile equilibrio
di quella casa. E poi, avevo paura. Paura che mi
guardasse come aveva fatto Marco, con quel misto di
disgusto e delusione. Paura che mi chiedesse come fosse
successo, che mi costringesse a rivivere il passato, la
Stazione Termini, i bagni pubblici, le mani estranee sul
mio corpo. No, non potevo rischiare. Giovanni era mio, e
questo bastava. Avrei trovato un modo per crescerlo da
sola, senza chiedere nulla a nessuno.
Le prime
settimane con Giovanni furono le più faticose. Lui era
un bambino vivace, con un pianto che sembrava capace di
svegliare l’intero Ghetto. Passavo le giornate a
prendermi cura di lui, a lavare pannolini, a cullarlo
per farlo addormentare, mentre continuavo a sbrigare le
faccende di casa. Il professor Mario era gentile, ma
sempre più distante, perso nel suo lutto. Mi lasciava
fare, ma ogni tanto lo sorprendevo a guardarmi con
un’espressione che non riuscivo a decifrare: era
compassione? Rimprovero? O semplice stanchezza? Non lo
sapevo, ma sentivo che la mia presenza in quella casa
era sempre più precaria.
Clara, nel frattempo,
era diventata una presenza costante nella mia vita.
Aveva smesso di fare pazzie e ora viveva con il suo
uomo, un commerciante sposato che le aveva affittato una
piccola stanza vicino a Piazza Navona. Veniva a trovarmi
ogni domenica, portando dolcetti per Giovanni e
pettegolezzi sul quartiere. “Anna, ce la farai.” Mi
diceva, accendendo una sigaretta con quel suo modo
sfrontato. “Sei più forte di tutte noi. Guarda me, sono
finita con un uomo che non mi sposerà mai e non mi farà
diventare mai madre, ma tu… tu hai Giovanni. È diverso.”
Le sue parole mi davano coraggio, ma anche un senso di
inquietudine. Clara sembrava felice, ma nei suoi occhi
c’era sempre una sfumatura di malinconia, come se
sapesse che la sua libertà aveva un prezzo.
Una
sera, mentre allattavo Giovanni nella mia stanza, sentii
un rumore di passi pesanti nel corridoio. Era Davide. Si
fermò sulla soglia, con le mani in tasca e lo sguardo
basso. “Anna.” Disse, con una voce che sembrava
incrinarsi. “Posso parlarti?” Annuii, posando Giovanni
nella culla improvvisata che avevo sistemato accanto al
letto. Mi alzai, lisciandomi il grembiule, e lo seguii
in salotto. La radio era spenta, e il silenzio della
casa sembrava amplificare ogni parola. “Mi sposo fra due
mesi.” Disse, senza preamboli. “Laura e io… abbiamo
fissato la data.” Lo guardai, sentendo una stretta al
petto, ma non dissi nulla. Sapevo che quel momento
sarebbe arrivato, eppure sentirlo pronunciare quelle
parole mi fece male, più di quanto mi aspettassi.
“Volevo solo dirtelo perché penso tu ne abbia diritto
saperlo da me.” Continuò, evitando il mio sguardo. “E…
volevo dirti che mi dispiace. Per tutto.” Non capii
subito cosa intendesse con “tutto”. Per le nostre notti
rubate? Per il suo silenzio? Per Giovanni? Non ebbi il
coraggio di chiederglielo. “Congratulazioni.” Risposi,
con una voce che non sembrava la mia. Lui annuì, come se
si fosse tolto un peso, e se ne andò.
Quella
notte non dormii. Stringevo Giovanni tra le braccia,
ascoltando il suo respiro leggero, e pensavo al futuro.
Davide avrebbe avuto la sua vita, una vita rispettabile,
con una moglie che non portava il peso del mio passato.
Io, invece, avevo Giovanni, e questo mi dava una forza
che non avevo mai conosciuto. Ma sapevo anche che non
potevo restare in quella casa per sempre. Il professor
Mario era stato chiaro: ero un’ospite, non una figlia. E
presto o tardi, avrei dovuto trovare un posto mio, un
lavoro, una vita che fosse solo nostra.
Nonostante gli impegni decisi di riprendere a studiare
con più determinazione. Il professor Mario, nonostante
il suo dolore, continuava a darmi lezioni private,
aiutandomi a prepararmi per gli esami di terza media.
“Hai una mente sveglia, Anna.” Mi ripeteva. “Non
sprecarla.” Quelle parole erano come un’ancora per
aggrapparmi al futuro e lasciarmi definitivamente alle
spalle il passato. Insomma potevo essere qualcosa di più
della “zoccoletta”. Passavo le sere a studiare, con
Giovanni addormentato accanto a me. Sognavo di diventare
una maestra, di insegnare ai bambini a leggere e
scrivere, di dare loro ciò che a me era stato negato:
un’infanzia, una possibilità.
Quando superai gli
esami, fu come se un peso si fosse sollevato dal mio
petto. Il professor Mario mi regalò un piccolo quaderno
con la copertina di pelle, “per scrivere la tua storia”
disse. Lo abbracciai, piangendo, e per la prima volta mi
sembrò di vedere in lui un padre, non solo un uomo buono
che mi aveva aiutato in tutti quegli anni. Anche Clara
festeggiò con me, portandomi al cinema a vedere un film
di Totò, e per una sera mi dimenticai di tutto: del
passato, delle incertezze, del futuro che ancora mi
spaventava. Ma la realtà tornava sempre a bussare.
****** Ad un anno esatto dalla morte della madre
Davide si sposò. Il matrimonio con Laura fu una tappa
naturale, anche per me, ma nonostante me lo sapessi fu
un duro colpo. Laura, con i suoi capelli biondi sempre
perfetti, i suoi vestiti di seta e quel modo di parlare
sussurrato e pulito era il futuro che Davide aveva
sempre avuto in mente. La cerimonia si tenne in una
piccola chiesa vicino a Piazza Navona, mentre io rimasi
a casa a preparare il pranzo per il ricevimento. Non fui
invitata, ovviamente, e non me lo aspettavo.
Quando Davide e Laura tornarono, mano nella mano,
seguiti dai parenti stretti, li accolsi con un sorriso
forzato, portando vassoi di lasagne e arrosto che avevo
cucinato fino a tarda notte. Laura mi ringraziò con un
cenno distratto, come si fa con una cameriera, ed io
sentii qualcosa spezzarmi dentro. Quella sera, mentre
sparecchiavo la tavola ascoltavo le risate provenire dal
salotto, mi guardai nel riflesso di un vetro della
cucina. Il mio viso, stanco e segnato dalla giornata, mi
sembrò quello di una sconosciuta.
Quella loro
sistemazione temporanea divenne definitiva. Decisero di
restare in quella casa, con me che continuavo a lavorare
per loro. La decisione fu annunciata una sera, durante
una cena a cui non ero stata invitata a sedermi. Davide,
con Laura al suo fianco, disse a Mario che non volevano
trasferirsi altrove, che la casa era grande abbastanza
per tutti. Mario annuì, senza entusiasmo, come se non
gli importasse più di nulla. Io ascoltai dalla porta
socchiusa mentre lavavo i piatti, sentii il cuore
sprofondare. Sapevo cosa significava e cosa mi sarebbe
aspettato: andarmene o continuare a essere semplicemente
una domestica, in quella casa in cui ora Laura camminava
per le stanze come se le appartenessero da sempre. Lei
da subito cambiò l’arredamento di alcune stanze. Le
tende di velluto, i vecchi piatti di ceramica furono
relegati in soffitta e a ogni cambiamento mi sembrava
sempre più estranea.
Davide, dal canto suo,
sembrava non accorgersi di nulla. Era assorbito dal suo
lavoro al liceo, dalle riunioni con i colleghi, dalle
serate che passava con Laura in salotto, ridendo e
bevendo vino. A volte, incrociavo il suo sguardo mentre
servivo la cena, e per un istante mi sembrava di vedere
un lampo di quello che eravamo stati, ma poi lui
distoglieva gli occhi ed io tornavo ad essere
invisibile. Le notti, però, erano le più difficili. A
volte, sentivo Davide e Laura fare l’amore e sempre di
più mi convinsi che quel capitolo della mia vita era
chiuso, che Davide apparteneva a Laura, al loro futuro
di cene eleganti e figli che un giorno avrebbero
riempito la casa. La domenica pomeriggio uscivo
insieme a Giovanni passeggiando lungo la riva del
Tevere. Beh sì alle volte qualche ragazzo mi guardava,
qualcuno mi rivolgeva anche la parola credendo fossi una
baby-sitter, ma io tiravo avanti perché in cuor mio mai
avrei tradito Davide, nonostante tutto.
******
Quando il professor Mario se ne andò per sempre,
qualcosa in me si spense. Fu come se una candela si
fosse consumata del tutto, lasciando solo un filo di
fumo a dissolversi nell’aria. Era l’inverno del 1962, e
Mario se ne andò in una notte gelida, senza clamore,
proprio come aveva vissuto gli ultimi anni della sua
vita. Lo trovai la mattina dopo, seduto nella sua
poltrona nello studio, con un libro aperto sulle
ginocchia e gli occhiali scivolati sul naso. Sembrava
addormentato, il volto sereno, ma quando gli sfiorai la
mano, la trovai fredda come il marmo del pavimento.
Rimasi lì, immobile, incapace di piangere o di chiamare
qualcuno. In quel momento, mi resi conto che con Mario
se n’era andata l’ultima traccia di calore che quella
casa aveva avuto per me, l’ultimo legame con l’uomo che
mi aveva accolta come una figlia, anche se non l’aveva
mai detto ad alta voce.
Il funerale fu simile a
quello di Sandra. Pochi parenti, qualche collega del
liceo, un prete che parlava con voce monotona nella
cappella del Verano. Davide era lì, rigido nel suo
cappotto nero, con Laura al suo fianco, elegante come
sempre, ma con un’espressione distante, come se fosse lì
solo per dovere. In disparte in fondo alla fila con
Giovanni seduto accanto, indossavo lo stesso vestito
nero che aveva usato per Sandra, ormai logoro ai polsi.
Nessuno mi rivolse la parola, tranne un’anziana cugina
del professore che mi strinse la mano e mi disse: “Eri
la sua preferita, sai? Parlava sempre di quanto fossi
sveglia.” Quelle parole mi si conficcarono nel petto
come una spina. Mi chiesi se fossero vero o se l’anziana
signora si fosse confusa.
Rimasi in quella casa,
domestica per sempre, ma anche qualcosa di più, qualcosa
che non si poteva dire ad alta voce. Tornata a casa, mi
buttai nel lavoro con una furia silenziosa, come se
pulire, cucinare, strofinare i pavimenti potesse tenere
a bada il vuoto che mi cresceva dentro. Ogni angolo
parlava di Mario e Sandra: il tavolo di legno dove Mario
le aveva insegnato a fare i conti, il divano dove Sandra
le aveva chiesto di non lasciarlo solo, la radio che ora
taceva, coperta da un velo di polvere.
Mi
muovevo tra quelle stanze come un’ombra, silenziosa,
indispensabile, ma sempre invisibile. Laura mi dava
ordini con una cortesia fredda – “Anna, la biancheria è
da stirare”, “Anna, il pranzo deve essere pronto per le
due” – ed io eseguivo. Ma dentro di me sentivo che non
ero solo una domestica e non potevo fare a meno di
sperare, di immaginare che un giorno Davide guardasse
nostro figlio con un’aria diversa o guardasse me come
quella sera sul divano, con la radio che suonava musica
americana, quando ballando mi sentii per un istante, una
donna vera, non solo una ragazza di servizio. Ma quei
momenti erano lontani, sepolti sotto il peso di quella
realtà. Davide, ora, era il padrone di casa, un uomo
sposato, un professore rispettato, che, davanti a sua
moglie, mi trattava con una cortesia distante, come se
non avessimo mai condiviso nulla.
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