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RACCONTO

Adamo Bencivenga
LA
ZOCCOLETTA
Roma, 1957. Anna,
diciassette anni, scappa dal collegio delle suore in
cerca di libertà, ma trova solo le strade sporche
della sopravvivenza. Soprannominata "la zoccoletta",
inizia a vendere se stessa in un albergo diurno,
vicino alla Stazione Termini, finché un incontro
cambierà per sempre il suo destino...

UGiovanni cresceva
nell’ingenuità dei suoi primi anni, con gli occhi
spalancati sul mondo e un sorriso che sembrava rubare la
luce anche alle giornate più grigie di Roma. Lo guardavo
correre nel cortile interno della casa, inseguendo le
ombre dei piccioni o raccogliendo sassolini che poi mi
porgeva come tesori preziosi. Mi chiedevo spesso cosa
vedesse in me, la sua mamma, una donna che si sentiva
ancora una ragazza, segnata da un passato che non poteva
raccontargli. Mi chiedevo se un giorno avrei avuto il
coraggio di dirgli la verità: che suo padre era l’uomo
che viveva nella stessa casa, ma che non poteva
riconoscerlo; che la sua vita era iniziata in un momento
di amore rubato, in una casa che non era mai stata
davvero mia. Ogni volta che Giovanni mi abbracciava, con
quelle manine calde e appiccicose, sentivo una stretta
al cuore: era il mio tutto, ma anche il mio segreto più
grande, il peso e la gioia di una scelta che avevo fatto
da sola.
Crescere Giovanni in quella casa era
come camminare su una corda tesa sopra un precipizio.
Dovevo essere madre e domestica senza mai mostrare la
fatica o la paura. La mattina mi svegliavo all’alba,
quando il Ghetto era ancora silenzioso, avvolto dalla
nebbia che saliva dal Tevere. Preparavo la colazione per
Giovanni, poi lo vestivo e lo portavo dalla portiera, la
signora Teresa, che ormai era diventata una sorta di
nonna adottiva con un cuore grande. Lei lo teneva con sé
mentre io sbrigavo le faccende di casa. “È un angelo, il
tuo Giovanni.” Mi diceva, accendendo una sigaretta con
le dita ingiallite. “Non farlo crescere troppo in
fretta, Anna.” Io annuivo, ma dentro di me sapevo che
non avevo scelta: Giovanni sarebbe cresciuto in un mondo
che non perdonava l’ingenuità, proprio come non l’aveva
perdonata a me.
La casa, dopo la morte di Mario,
non la sentivo più mia. Laura si era insediata come
padrona, con una naturalezza che mi feriva. Io, che
avevo conosciuto quella casa come un rifugio, mi sentivo
sempre più un’estranea, una figura che si muoveva tra le
stanze senza lasciare impronte. Laura non era cattiva,
ma la sua gentilezza era quella di chi dà ordini senza
mai guardarti negli occhi. “Anna, il pavimento in
salotto ha bisogno di cera.” Diceva, mentre sfogliava
una rivista di moda, oppure “Anna, assicurati che la
cena sia pronta per quando torniamo.” Io annuivo,
abbassando lo sguardo, e continuavo il mio lavoro, ma
ogni sua parola era un promemoria del mio posto: una
domestica, non una di loro.
Giovanni, ignaro di
tutto, cresceva con una curiosità che mi spaventava e mi
incantava. A tre anni, già parlava come un ometto. Dal
canto mio gli raccontavo storie semplici, di un nonno
che era andato in cielo a guardare le stelle, di una
mamma che lavorava sodo per dargli una casa. Ma dentro
di me tremavo al pensiero del giorno in cui avrebbe
chiesto di suo padre. Cosa gli avrei detto? Che era un
uomo che viveva a pochi metri da lui, ma che apparteneva
a un’altra vita? Che io, sua madre, ero stata solo
un’ombra nel suo passato? Per ora, lo proteggevo con il
mio amore, con le canzoni che gli cantavo la sera, con
le storie che inventavo per farlo addormentare. Ma
sapevo che non sarebbe bastato per sempre e soprattutto
non sarebbe stato facile. Lui era un figlio senza nome e
senza padre e sin da quando era nato sapevo che la sua
vita non sarebbe stata rose e fiori. Lui come volto
familiare conosceva solo Clara che chiamava zia mentre
con Davide e Laura aveva avuto sempre un atteggiamento
distaccato come se in un certo senso, pur vedendoli ogni
giorno, intuisse che non fossero di famiglia.
******
Tutto proseguì senza emozioni o sussulti
finché nell’inverno del 1967 Laura, incinta di sette
mesi, decise di trascorrere l’ultimo periodo di
gravidanza a casa della madre. Rimanemmo in casa io,
Davide e Giovanni. Per un attimo pensai davvero alla
famigliola felice e che in qualche modo il buon Dio mi
stesse premiando. E fu proprio in quel periodo che
sorpresi Davide a guardami come ai vecchi tempi. Certo
sì, erano occhiate rapide, ma il ricordo delle nostre
notti mi facevano tremare le gambe.
Quando
eravamo in casa e in particolare quando Giovanni era da
Teresa o a scuola, lo vedevo nervoso, impaziente. Così
una mattina da soli, nel suo giorno di riposo
settimanale, mi chiese di pranzare insieme. Venne più
volte in cucina ed io intuii che stesse succedendo
qualcosa. Addirittura mi aiutò ad apparecchiare la
tavola e quando ci sedemmo, dopo qualche battuta, si
avvicinò e sussurrando, come se temesse di essere
sentito da altri, mi disse: “Le hai ancora quelle
mutandine rosse?” Sentii il mondo crollarmi addosso.
Impacciata abbassai lo sguardo, poi sorrisi senza
rispondere e allora lui si alzò e mi strinse le spalle.
Fu un attimo e subito dopo chinandosi verso di me poggiò
le sue labbra sulle mie.
Durante quel bacio
mormorai: “Dai, Davide, non possiamo… La signora Laura…”
Ma le mie parole si persero nel calore delle sue
carezze. Il cuore mi batteva all’impazzata, mentre le
labbra di Davide, calde e familiari, risvegliavano in me
un desiderio che avevo cercato di seppellire. Dalla
nascita di Giovanni erano passati quasi sette anni ed io
ero vissuta in un eterno letargo. Quel bacio era
un’esplosione di vita, un lampo che illuminava il
grigiore della mia esistenza fatta di doveri e silenzi.
Sentivo il calore delle sue mani sul mio seno, la sua
stretta possente di maschio e mi sentii di nuovo donna,
oltre che madre e domestica. E fu proprio in quel
momento che mi abbandonai, incapace di resistere alla
forza di un amore che, nonostante tutto, non aveva mai
smesso di bruciare dentro di me.
Travolta da un
misto di euforia e terrore mi sentii una donna
desiderata, viva, capace di provare ancora piacere, ma
allo stesso tempo sapevo che quel momento rubato, a
Giovanni, a Laura, era un filo sottile, pronto a
spezzarsi sotto il peso di una vita che non mi
apparteneva. Quando Davide mi sollevo ridendo e mi portò
nella sua stanza, mi sentii come se stessi camminando su
un confine pericoloso, tra il sogno e la rovina, tra
l’incapacità di resistere e l’ineluttabilità del
destino.
Il letto matrimoniale, con le lenzuola
che avevo impeccabilmente stirato, mi sembrava un
territorio proibito, un vero e proprio sacrilegio.
Cercai di non pensarci mentre mi abbandonavo a lui, ma
ogni tocco, ogni respiro, lo sentivo come una promessa
che sarebbe durata solo quelle poche ore. L’amore fu
intenso e meraviglioso, pieno di tenerezza e passione,
addirittura per qualche minuto ci addormentammo
abbracciati, ma al risveglio con la luce rossastra di
quel tramonto romano che filtrava attraverso le tende,
mi chiesi se fosse stato vero o avessi solo sognato.
Per un istante immaginai un mondo in cui quel
momento non fosse un’eccezione, ma la norma. Quando
Davide mi baciò di nuovo, chiedendomi il permesso con
quella gentilezza che mi disarmava, sentii un’ondata di
calore e gratitudine, ma anche una fitta di dolore.
Sapeva che quell’amore, per quanto intenso, era
destinato a rimanere clandestino e solo nei momenti
rubati, ma soprattutto mi dilaniava l’anima il dubbio se
confessargli che non avrebbe dovuto aspettare il parto
di Laura per essere padre. Lui lo era già, anche se
forse non lo avrebbe mai accettato.
Ogni bacio,
ogni carezza, era un’ancora che mi teneva legata a lui,
ma anche una catena che mi inchiodava al ruolo di amante
segreta, mai abbastanza per essere altro. Non successe
solo quella volta, accadde ogni qualvolta eravamo soli
in casa ed io mi preparavo per lui, indossavo le
mutandine rosse sentendomi di nuovo viva nonostante
quell’amore fosse un groviglio disperazione e rimpianti.
Lui mi possedeva carnalmente con tutto se stesso, come
se l’amore con Laura fino ad allora non fosse stato
altro che un dovere. Ed io lo amavo con una devozione
che rasentava l’ossessione, ma che era anche intrisa di
una profonda consapevolezza della mia fragilità. Ogni
volta che mi abbandonavo a lui, sentivo come se ogni
incontro mi togliesse un pezzo di me, lasciandomi più
vuota e più piena di lui allo stesso tempo. Era un amore
che mi consumava, che mi dava una ragione per alzarmi
ogni mattina e, allo stesso tempo, mi condannava a
un’esistenza di silenzi priva di ogni attesa. Non potevo
immaginare una vita senza Davide, eppure, in fondo al
cuore, sapevo che quel sentimento, così potente e
totalizzante, era anche la mia prigione, un sogno che
non sarebbe mai diventato realtà.
Quando Laura
tornò dopo la gravidanza, mi preparai a riprendere il
mio ruolo invisibile, ma lei assorbita dalla piccola
Cristina, non si accorse di nulla, e Davide nei nostri
momenti rubati mi cercava sempre con più passione.
Sapevo che quell’amore non mi avrebbe portata da nessuna
parte, ormai avevo accettato il mio ruolo come il mio
grembiule logoro, come le mani screpolate. Eppure, anche
in quella situazione, trovavo momenti di resistenza,
come se quell’amore clandestino potesse riempire ogni
mio altro desiderio e trasmettere indirettamente a
Giovanni l’amore di suo padre.
Ogni domenica,
quando Laura e Davide uscivano per andare a messa o a
pranzo dai parenti di lei e Giovanni era nella sua
stanza a fare i compiti, mi sedevo in cucina con una
tazza di tè e sfogliavo un libro a caso del professor
Mario. Leggevo a bassa voce, come faceva lui, e per un
attimo mi sentivo meno sola. A volte, uscivo per una
passeggiata, con il vento che mi scompigliava i capelli,
e guardavo i passanti, le coppie, i bambini che
correvano. Mi chiedevo se un giorno avrei avuto una vita
diversa, una casa mia, un padre per Giovanni, qualcuno
che mi chiamasse per nome senza darmi ordini. Ma poi
tornavo indietro, prendevo mio figlio per mano e cercavo
di farmi forza pensando a quando per gli altri ero
semplicemente una “zoccoletta”. Beh sì, di strada ne
avevo fatta pur rimanendo ferma sempre allo stesso
posto. E quando aprivo la porta di quella casa grande e
piena di ricordi riprendevo il mio posto, perché,
qualunque fosse stata la mia vita futura, non avrei mai
potuto immaginarla senza Davide.
******
Nell’aprile del 1970 trovai un lavoro come aiutante in
una sartoria vicino a Campo de’ Fiori. Non era un
mestiere prestigioso, ma per me rappresentava un nuovo
inizio, un passo verso qualcosa che fosse mio, lontano
dal ruolo di domestica che mi aveva definito per anni.
Cucire mi era sempre piaciuto: fin dai tempi del
collegio, quando passavo ore a lavorare il fustagno
ruvido sotto lo sguardo severo delle suore, trovavo una
sorta di pace nel ritmo regolare dell’ago che entrava e
usciva dal tessuto. Ogni punto era un piccolo atto di
creazione, un modo per lasciare un segno, per costruire
qualcosa che durasse. Ora, a trent’anni, con Giovanni
che cresceva e un passato che pesava come un’ombra, quel
lavoro era una possibilità di riscatto.
La
sartoria era un piccolo negozio incastrato tra una
frutteria e un’osteria, con una vetrina polverosa e una
tenda sbiadita che sbatteva contro la porta ogni volta
che qualcuno entrava. La proprietaria, la signora Adele,
era una donna sulla sessantina, con i capelli grigi
raccolti in uno chignon e dita agili che sembravano
danzare sul tessuto. Mi aveva assunto dopo aver visto
come rammendavo una gonna con precisione quasi
maniacale. “Hai le mani di una che sa cosa vuole. Ma qui
non si fanno solo orli, ragazza. Qui si crea.” Quelle
parole mi erano rimaste impresse, come un invito a
immaginare un futuro diverso.
Le giornate in
sartoria erano lunghe, ma piene di vita. La mattina
sbrigavo le faccende a casa di Davide e Laura, correndo
tra i pavimenti da lucidare e i pasti da preparare, poi,
nel primo pomeriggio, lasciavo Giovanni con la signora
Teresa o a scuola. Poi camminavo fino a Campo de’ Fiori,
con il cuore che si alleggeriva a ogni passo. L’odore di
pane appena sfornato e di fiori freschi mi accoglieva in
piazza, e per un momento mi sembrava di essere solo
Anna, una donna con un mestiere, un nome e una
possibilità. In sartoria, il mio compito era semplice
all’inizio: orli, bottoni, piccole riparazioni. Ma la
signora Adele mi osservava, e col tempo mi affidò lavori
più complessi: rifinire una gonna di seta, ricamare un
colletto, aggiustare un abito da sposa con pizzi così
delicati che tremavo al pensiero di rovinarli.
Ogni lira guadagnata la mettevo da parte con cura,
nascosta in una scatola di latta sotto il letto. Sognavo
una stanza tutta mia, nostra, un posto dove Giovanni
potesse crescere senza la sensazione di essere un
intruso in una casa che non gli apparteneva. In casa,
ogni volta che sparecchiavo la tavola o stiravo le loro
camicie, sentivo un nodo stringermi lo stomaco. Non ero
più la ragazza di un tempo, ma una madre, una donna che
voleva di più, per sé e per suo figlio.
******
Nel 1971, con l’aiuto di Clara, trovai finalmente il
coraggio di fare il grande passo. Clara, che ormai si
era stabilita in una vita più comoda grazie al suo uomo,
mi accompagnò a vedere una stanzetta in affitto a
Testaccio, un quartiere popolare poco fuori dal centro.
La stanza era piccola, con i muri scrostati e una
finestra che dava su un cortile rumoroso, pieno di
bambini che giocavano e di donne che si chiamavano da un
balcone all’altro. Il letto scricchiolava, la stufa
funzionava a singhiozzo, e il bagno era in comune con
altre due famiglie, ma quando firmai il contratto,
sentii una leggerezza che non provavo da anni. Era mia,
nostra.
La prima notte, con Giovanni
addormentato su un lettino che avevo comprato di seconda
mano, mi sedetti sul pavimento, con la schiena contro il
muro, e piansi. Non di tristezza, ma di sollievo. Per la
prima volta, avevo un posto dove essere Anna, la madre
di Giovanni, non l’ombra di qualcun altro. Portare
Giovanni in quella stanza fu come regalargli un pezzo di
mondo. A dodici anni, era un ragazzo sveglio, con gli
occhi curiosi di Davide e una parlantina da ometto. Gli
piaceva correre nel cortile, giocare a pallone con i
figli dei vicini, tornare a casa con le ginocchia
sbucciate e un sorriso che mi scaldava il cuore. Ma era
anche sensibile, e a volte lo sorprendevo a guardarmi
con un’espressione seria, come se cercasse di capire i
miei silenzi. “Mamma, perché non abbiamo un papà come
gli altri?” Mi chiese una volta, mentre eravamo a cena.
Non seppi cosa rispondere. Gli accarezzai i capelli, gli
dissi che eravamo una squadra, io e lui, e che questo
bastava. Ma dentro di me sapevo che un giorno o l’altro
avrei dovuto svelargli chi fosse suo padre.
Continuavo a lavorare in sartoria, imparando il mestiere
con una dedizione che sorprendeva persino me stessa. La
signora Adele mi insegnò a tagliare i modelli, a
scegliere i tessuti, a capire come un abito poteva
trasformare una donna, farla sentire più sicura, più
bella. “Anna, hai un dono.” Mi diceva. “Non è solo
cucire, è capire le persone.” Quelle parole mi davano
una forza nuova. Iniziai a fare piccoli lavori di cucito
per conto mio, per le vicine, per le amiche di Clara,
per qualche cliente che aveva sentito parlare di me.
Ogni punto, ogni orlo, era un mattone verso un futuro
che volevo costruire per Giovanni. Sognavo di aprire una
piccola sartoria tutta mia, un giorno, un posto con una
vetrina pulita e il mio nome scritto sopra.
Nel
frattempo, continuavo ad andare a casa di Davide e Laura
tre volte a settimana. Lavorare per loro era diventato
più difficile, non per le faccende, ma per il peso
emotivo. Laura, ora madre di due figli – Cristina e la
piccola Sandra, era sempre più assorbita dalla sua vita
di moglie e madre. Organizzava cene eleganti, invitava
colleghi di Davide, rideva con loro in salotto mentre io
servivo il vino o sparecchiavo i piatti. Mi trattava con
una cortesia che bruciava più di un insulto, come se
fossi un pezzo di arredamento, utile ma invisibile.
Davide, invece, era un enigma. Insegnava in un liceo
prestigioso, era rispettato, ammirato, ma quando i
nostri sguardi si incrociavano, c’era sempre un’ombra,
un misto di rimpianto e distanza. Non parlavamo mai di
noi, di quello che era stato, ma a volte, quando Laura
era fuori con le bambine, capitava ancora. Succedeva nei
momenti più inaspettati: una mattina, mentre stiravo una
delle sue camicie, mi si avvicinò e mi sfiorò la mano.
“Anna.” Sussurrò, con quella voce che mi faceva ancora
tremare. Non disse altro, ma mi attirò a sé, e io, come
sempre, non seppi resistere. Facemmo l’amore nella
stanza degli ospiti, in fretta, con il cuore che batteva
all’impazzata per la paura che qualcuno potesse entrare.
Ogni volta era come rivivere quella sera sul
divano, con la radio che mandava musica americana, ma
ora c’era un’amarezza nuova, un senso di precarietà.
Eppure, ogni volta che mi stringeva, mi illudevo che ci
fosse ancora qualcosa di noi, un frammento di quella
passione che ci aveva uniti anni prima. Quelle ricadute,
però, mi lasciavano più vuota che mai. Tornavo a casa,
nella mia stanzetta a Testaccio, e mi guardavo allo
specchio, chiedendomi chi fossi davvero. Ero ancora la
ragazza che sognava un futuro con Davide? O ero solo la
madre di Giovanni, la sarta, la donna che si aggrappava
a un amore impossibile?
Clara, che mi conosceva
meglio di chiunque altro, lo vedeva nei miei occhi.
“Anna, devi smetterla con lui.” Mi disse una sera,
mentre bevevamo un caffè in un bar vicino a Piazza
Navona. “Davide non ti darà mai quello che vuoi. Meriti
di più, per te e per Giovanni.” Aveva ragione, ma il mio
cuore non ascoltava. Davide era ancora il centro del mio
mondo, il metro con cui misuravo ogni cosa, anche se
ogni incontro mi spezzava un po’ di più.
******
Fu in quel periodo, nell’autunno del 1972, che
incontrai Giuseppe. Ero con Clara in una sala da tè
vicino a Piazza di Spagna, un posto elegante con
tovaglie bianche e tazzine di porcellana che mi facevano
sentire fuori posto. Clara, con il suo solito spirito,
stava raccontando qualcosa che le era capitata giorni
prima, quando un uomo si avvicinò al nostro tavolo. Lui
si rivolse a me e Clara, come al solito sveglia, con un
pretesto, si alzò e mi lasciò sola, dandomi una
strizzatina d’occhio.
Lui si presentò come
Giuseppe, un ferroviere di quarantacinque anni, con i
capelli brizzolati e un sorriso gentile. Disse che mi
aveva notata da lontano, che gli piaceva il mio modo di
ridere, e mi chiese se poteva sedersi. Annuii, più per
cortesia che per interesse. Parlava con calma,
raccontandomi del suo lavoro, della sua vita semplice,
della casa che aveva comprato a Ostia con i risparmi di
anni. “Sto cercando una ragazza per sistemarmi.” Disse,
guardandomi negli occhi. “Qualcuno con cui costruire
qualcosa di serio.” Io sorrisi, ma sentii una stretta al
cuore. Prima che potesse farsi illusioni, gli dissi la
verità: “Ho trentadue anni, non sono sposata, ma ho un
figlio di tredici anni.” Mi aspettavo che si alzasse e
se ne andasse, come aveva fatto Marco anni prima quando
si era accorto che non ero vergine. Invece, Giuseppe
annuì, come se la notizia non lo sorprendesse. “Sono i
casi della vita…” Disse. “Mi piacerebbe rivederti, se ti
va. Magari sabato prossimo, qui?” Accettai, più per
curiosità che per altro, e quando Clara tornò, mi prese
in giro per tutto il tragitto verso casa. “Anna, il tuo
fascino lo ha trafitto! Non fartelo scappare…” Poi
seria: “Questo è un uomo che vuole una famiglia, non
un’avventura. Pensaci, per Giovanni.”
Giuseppe
mi corteggiò con una costanza che mi spiazzò. Mi portava
a cena in trattorie semplici, mi regalava piccoli mazzi
di fiori comprati al mercato, mi ascoltava quando
parlavo di Giovanni o del mio lavoro in sartoria. Gli
raccontati tutto di me, tranne il periodo dell’Albergo
Diurno. Lui era gentile, stabile, tutto ciò che Davide
non sarebbe mai stato. Eppure, nel mio cuore, non c’era
spazio per lui. Ogni volta che Giuseppe mi prendeva la
mano o mi sorrideva, pensavo a Davide, al suo sguardo,
ai suoi tocchi, a quell’amore che mi consumava e mi
teneva prigioniera. Clara, però, insisteva: “Anna, devi
pensare a Giovanni. Giuseppe è un uomo perbene, ti può
dare una casa, una sicurezza. Non puoi restare legata a
un sogno che non esiste.”
Aveva ragione, ma
accettare quella verità era come strapparmi un pezzo di
anima. Sei mesi dopo, nell’aprile del 1973, accettai la
proposta di matrimonio di Giuseppe. Non lo amavo, ma lo
rispettavo. Era un uomo buono, che trattava Giovanni con
affetto, che non chiedeva nulla del mio passato e mi
offriva una stabilità che non avevo mai conosciuto. Il
matrimonio fu semplice, in una piccola chiesa a
Testaccio, con pochi invitati: Clara, alcune colleghe
della sartoria, i fratelli di Giuseppe e naturalmente
Giovanni vestito con un abito scuro cucito dalle mie
mani.
Dopo il matrimonio, ci trasferimmo nella
casa di Giuseppe a Ostia. Era una villetta modesta, con
un piccolo giardino dove Giovanni poteva giocare e una
cucina che odorava di vernice fresca. Giuseppe era un
marito attento, ma distante; mi trattava con rispetto,
ma non c’era passione tra noi, solo una quieta
convivenza. Io continuavo a lavorare in sartoria, a
studiare per il diploma di sarta, a crescere Giovanni
con tutto l’amore che avevo. Ma, quando tornavo a casa
di Davide per le mie giornate di lavoro, sentivo il
cuore battere più forte. Davide era sempre lì, con i
suoi occhi che mi cercavano nei momenti di silenzio, e a
volte, quando Laura non c’era, capitava ancora.
L’approccio era sempre lo stesso, come una parola
d’ordine, mi chiedeva: “Le porti le mutandine rosse?” Ed
io fiera di quel desiderio le prendevo dalla borsa e le
indossavo davanti a lui. Quei momenti erano come un
fuoco che si riaccendeva ed io mi abbandonavo per vivere
quel momento e sentire tutto quell’amore che Davide
poteva offrirmi, nella consapevolezza che non sarebbe
stato più eterno.
******
Nel 1974, ottenni
il diploma da sarta. Fu un momento di orgoglio, un
traguardo che dedicai a Giovanni e a me stessa.
Continuai a lavorare, a risparmiare, a costruire una
vita che fosse mia e a sognare di mettermi in proprio.
Giovanni crebbe, diventando un ragazzo forte,
intelligente, con sogni più grandi dei miei. Non gli
parlai mai di Davide, né del mio passato. Clara, l’unica
a conoscere tutta la verità, mi spronava a lasciarmi il
passato alle spalle: “Anna, hai fatto tanto. Sei una
madre, una donna, una sarta. Non sei più quella ragazza
di Termini.” Aveva ragione, ma ogni volta che passavo
davanti alla Stazione Termini, sentivo un brivido. Non
era più paura, ma memoria: il ricordo di quanto lontano
fossi arrivata, di quante battaglie avevo combattuto.
Eppure, anche nella mia nuova vita, il pensiero
di Davide non mi lasciava mai. Era il padre di mio
figlio, l’uomo che avevo amato con tutta me stessa, e
anche se ora avevo Giuseppe, una casa, un lavoro, una
parte di me sarebbe sempre stata legata a lui. Ogni
sera, quando tornavo a casa stanca guardavo mio figlio e
vedevo in lui il futuro che avevo costruito con le mie
mani, un passo alla volta, proprio come avevo giurato a
me stessa in quella notte di disperazione tra le rovine
delle Terme di Diocleziano. In un certo senso ringraziai
quei due delinquenti, senza di loro forse non avrei
avuto la forza di cambiare la mia vita. E ora non ero
più la “zoccoletta”, né la ragazza senza nome del
collegio, né la ragazza rifiutata da Marco perché non
ero vergine! Ero io, Anna, madre, sarta, donna. E quel
nome, che avevo conquistato con fatica, era il mio
orgoglio più grande.
|
FINE
Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale. IMMAGINE GENERATA DA
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