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RACCONTO

Adamo Bencivenga
LA
ZOCCOLETTA
Roma, 1957. Anna,
diciassette anni, scappa dal collegio delle suore in
cerca di libertà, ma trova solo le strade sporche
della sopravvivenza. Soprannominata "la zoccoletta",
inizia a vendere se stessa in un albergo diurno,
vicino alla Stazione Termini, finché un incontro
cambierà per sempre il suo destino...

La guerra ha spazzato ogni
cosa, non solo la vita, ma anche i sentimenti, gli
affetti e la dignità, e la mia infanzia non è stata come
quella dei bambini che vedi giocare nei cortili, sotto
lo sguardo apprensivo delle madri. Sono nata a Roma, nel
’40 e mia madre mi ha chiamata Anna come sua sorella,
mia zia, morta qualche mese prima che io nascessi.
Ero piccola, ma ricordo bene il rombo degli aerei e il
fragore dei bombardamenti su San Lorenzo, le corse nei
rifugi e la fame che mordeva lo stomaco. Ero figlia
unica e mia madre faceva la lavandaia per sfamarmi e si
lamentava sempre per le mani gonfie, indolenzite dal
freddo e dai detersivi che usava.
Mio padre?
Dicevano fosse un commerciante del nord, ma io non l’ho
mai conosciuto e mia madre non me ne ha mai parlato,
così quando a undici anni lei si ammalò e non si rialzò
più dal letto rimasi completamente sola. Non avevo
nessuno e nessun parente che volesse o potesse prendersi
cura di me. Vissi per un po’ con la signora Gianna, una
vicina di casa, ma poi nel giorno dei miei dodici anni,
mi portarono in un collegio di suore Benedettine, tra il
Tevere e Campo de’ Fiori, poco distante dal
Conservatorio di San Clemente di Via delle Zoccolette,
quello che un secolo prima aveva ospitato le trovatelle.
******
“Perché proprio me?” Mi
chiedevo spesso, ma al collegio mi dicevano che dovevo
considerarmi fortunata, perché ero sana, perché ero
carina e non avevo deformità e che quindi se avessi
fatto la brava sarei potuta rimanere lì, in quel
collegio. Così accadde e nel tempo capii che cosa
succedeva invece alle ragazze che soffrivano di qualche
malattia o avevano qualche difetto. Come nell’Ottocento,
non potendo lavorare e quindi sdebitarsi per quella
permanenza, le suore le mandavano via e loro disperate
continuavano a vagare nei dintorni, chiedendo
l’elemosina o facendo piccoli servizi. Io lì, almeno,
avevo un tetto, anche se quel tetto era freddo e bucato
sopra quel convento fatto di regole ferree e tonache
marroni che pizzicavano la pelle.
Il collegio
era grande a due livelli con uno stanzone enorme e umido
che ospitava circa 50 ragazze. Le suore ci insegnavano
le buone maniere e poi a leggere, a scrivere, a fare i
lavori di casa e a pregare. Passavo le giornate a cucire
il fustagno ruvido che serviva per i vestiti del popolo.
“Lavora sodo, ragazzina.” Mi diceva suor Teresa, la meno
anziana e severa delle monache. “Se non impari un
mestiere, finirai in strada come tante altre.” Io
annuivo, ma dentro di me sognavo altro: una casa, una
famiglia, un po’ di calore, un posto dove essere
chiamata per nome.
Lì feci conoscenza con diverse
ragazze, ma soprattutto con Clara, una ragazza di Roma
più grande di me, che aveva avuto un passato simile al
mio. La sera prima di dormire parlavamo poco e sognavamo
tanto, di case accoglienti e ragazzi belli, ma poi
quando venne mandata via perché aveva compiuto diciotto
anni mi sentii ancora più sola. Ci parlai qualche mese
dopo attraverso le inferiate del bagno al pianterreno,
mi disse che per qualche settimana aveva fatto le
pulizie da una signora, però poi quando la signora si
era trasferita da suo figlio, lei per andare avanti,
aveva iniziato a incontrare ragazzi. Il vestito che
indossava, le scarpe, il trucco e il modo di fumare
parlavano chiaro e non le chiesi altro, ma dentro di me
iniziai ad invidiarla, non per quello che faceva, ma
perché lei era in strada, libera di muoversi, ed io
rinchiusa in quel piccolo cesso. Ci pensai per qualche
giorno e così una settimana dopo, sempre con l’aiuto di
Clara, che fece in modo di distrarre la suora guardiana,
scappai dal collegio in cerca di un po’ di ossigeno.
******
Era il 1957, avevo diciassette
anni e l’incoscienza dell’età. Respiravo quell’aria a
pieni polmoni e mi sentivo felice, non pensando a come
avrei vissuto. Camminammo a piedi per diversi chilometri
finché seguendo le rotaie del tram arrivammo in una
baracca di periferia vicino al Quadraro, che lei
condivideva con altre due ragazze. Tutte e tre mi
accolsero benevolmente ed io cercai di sdebitarmi
rassettando la casa, lavando i piatti e rifacendo i
letti, ma dopo una settimana Clara mi prese in disparte
e mi disse che per rimanere lì con loro avrei dovuto
fare certi servizi. Col terrore di dover tornare in
collegio accettai e lei mi diede in prestito un suo
vestito e delle scarpe col tacco alto di due misure più
grandi. Ero piccola rispetto a loro sia d’età che di
statura e loro mi dissero che, con quel vestito e il
rossetto sulle labbra, avevo l’aria di una che era
scappata dal collegio e allora ridendo mi
soprannominarono “la zoccoletta”.
La mattina
dopo Clara mi accompagnò sul posto di lavoro, un albergo
diurno con tanto di toilette pubblica chiamato “La casa
del passeggero”, vicino alla Stazione Termini. Mentre
andavamo mi chiese se fossi vergine e mi disse con aria
materna: “Vedrai è un attimo, poi non ci penserai più.”
Mi disse anche che non dovevo avere timore perché la
bravura sarebbe arrivata con l’esperienza. Poi mi diede
poche istruzioni su come farmi riconoscere e come
apparire esperta raccomandandosi di non dire mai a
nessuno la mia età. Entrammo nell’albergo e lei mi
indicò in quale bagno avrei dovuto portare i clienti,
poi se ne andò lasciandomi sola e, salutandomi con un
mezzo sorriso, mi disse: “Metti ancora un po’ di
rossetto, devi sembrare una vera zoccoletta, poi stasera
vediamo quanto sei stata brava!”.
Sola su quel
marciapiede iniziai a camminare avanti e indietro
chiedendomi come avrebbero fatto gli uomini a
riconoscermi. Dopo circa un’ora, passeggiando sempre
davanti all’albergo, si avvicinò un soldato di Palermo e
lui fu il mio primo cliente. Come da istruzioni di Clara
lo portai nel bagno più distante dall’uscita e lì in
piedi mi alzai la gonna e lui consumò in fretta la sua
voglia. Sentii un dolore lancinante, ma per non farmi
accorgere che ero vergine soffrii in silenzio stringendo
i pugni. Lui non si accorse di nulla e quando mi salutò
mi disse che ero stata brava, ma a me quella cosa fece
così schifo che vomitai nello stesso bagno.
Mi
appoggiai al muro, il dolore fisico tra le gambe era
ancora lì, acuto, ma soprattutto era l’umiliazione a
bruciarmi di più. Mi sentivo sporca come se fossi parte
di quell’ambiente sudicio con il pavimento appiccicoso e
l’odore forte di pipì. Ma mentre mi risciacquavo il viso
con l’acqua fredda del lavandino di ferro arrugginito,
guardandomi nello specchio qualcosa dentro di me si
indurì. “Non tornerò in collegio!” Dissi a voce alta
stringendo i denti. “Mai più.” Il pensiero delle tonache
marroni, delle stanze umide, delle suore che mi
chiamavano “ragazzina” con quel tono glaciale, mi dava
una nausea più forte di quella che aveva appena provato.
Là fuori, per quanto squallido fosse, c’era almeno una
parvenza di libertà.
Nel bagno puzzolente come
nella baracca di periferia potevo essere Anna e non solo
un’orfana senza nome. Allora uscii dal bagno con le
gambe che ancora tremavano. Mi accorsi che non ero sola,
ma c’erano altre ragazze che entravano e uscivano da
quei bagni sottobraccio a soldati o uomini anziani. Ogni
tanto un addetto ci scacciava fuori in malo modo, ma poi
lentamente, ad una ad una, tornavamo dentro. L’aria era
densa di fumo di sigarette, di pipì e disinfettante.
Fuori la Stazione Termini era piena di viaggiatori,
soldati, mendicanti e faccendieri, tutti avvolti nella
miseria del 1957, un’Italia che cercava di rialzarsi
dalle macerie della guerra, ma che per molti, come per
me in quel momento, era ancora un luogo di
sopravvivenza. Clara mi aveva detto di “farmi vedere” e
di sorridere, ma timida com’ero non ci riuscivo. Mi
limitavo a camminare su e giù per quel marciapiede e
ogni tanto ad entrare cercando di intuire quale di quei
passeggeri potesse essere un cliente.
“Ce la
farò!” Mi ripetevo, anche se ogni passo, ogni sorriso mi
costava uno sforzo enorme. Non era solo la fame a
spingermi, né il bisogno di un tetto sopra la testa. Era
la rabbia, una rabbia sorda contro un mondo che mi aveva
lasciata sola, che mi aveva costretta a scegliere tra un
collegio e una strada sporca. Quella sera, dopo il
soldato di Palermo, mi avvicinò un uomo di mezza età, un
impiegato con un cappotto logoro e un cappello calato
sugli occhi. Mi squadrò e poi mi chiese quanti anni
avessi. Risposi prontamente 21, ma si vedeva a mille
miglia che ero minorenne. Lui sorrise, mi accarezzò i
capelli, poi si guardò intorno e alla fine mi disse di
seguirlo. Era esperto, non ero sicuramente la prima e
senza dire nulla mi portò nello stesso bagno, il più
lontano dall’ingresso e dagli sguardi degli inservienti.
Solo a quel punto, avvicinandosi e stringendomi le
tette, mi disse che ero bella. Io chiusi gli occhi
cercando di isolarmi e immaginando di essere altrove. Ma
la realtà mi riportava lì, a quell’odore forte di urina
e al freddo delle piastrelle contro la schiena. Non fu
breve come col soldato di Palermo, lui mi incitava a
muovermi e partecipare, obbedii e quando lui finì, mi
lasciò qualche lira sgualcita in più e se ne andò senza
guardarmi.
Mi sistemai il vestito e questa volta
non piansi. Mi sentivo come se stessi imparando a
spegnere una parte di sé, a seppellire quel disgusto.
Nei giorni successivi andai da sola con la gonna sempre
più corta e strascinando i tacchi un po’ per le scarpe
di due misure in più un po’per richiamare l’attenzione.
I clienti erano tutti diversi, eppure tutti uguali:
soldati di leva con pochi spiccioli, muratori con le
mani sporche di calce, viaggiatori di passaggio che non
si sarebbero mai ricordati del mio viso.
Una
volta, un uomo più gentile degli altri, un commerciante
con un accento del sud, dopo aver consumato mi invitò a
fare una passeggiata lungo il viale che portava a Piazza
Esedra. Non so perché, ma mi sentii più grande, lui mi
offrì una sigaretta, io la presi e la tenni tra le dita
mentre lui parlava del suo paese, di un terreno con
oltre cento ulivi e del mare all’orizzonte. Io non avevo
mai visto il mare e lo ascoltai con attenzione. Poi mi
comprò un gelato e ci sedemmo su una panchina. Lui mi
sorrise più volte e chiese il mio nome dicendomi che
avrebbe avuto piacere a incontrarmi ancora, ma non in
quel posto. Ero imbarazzata, era la prima volta che un
uomo grande mi dava tutta quella considerazione e per un
momento dimenticai dove fossi, ma poi l’uomo se ne andò,
non lo rividi più e io tornai a essere “la zoccoletta”,
una ragazza senza storia, senza passato, ma con un bagno
a poca distanza dove mi guadagnavo da vivere senza
dignità.
Eppure non riuscivo a comprendere il
totale degrado anche perché la miseria di quel periodo
era ovunque. Fuori dall’albergo, le strade erano piene
di bambini scalzi che chiedevano l’elemosina, di donne
che vendevano scarti di verdura ammaccata su cassette di
legno, di uomini che caricavano carretti con rottami di
ferro arrugginito per rivenderli. Ogni tanto, qualche
poliziotto passava per una “ispezione”, annunciando la
sua presenza da lontano in modo da non coglierci sul
fatto.
Determinata a non tornare indietro mi
aggrappavo alla speranza che un giorno avrei trovato un
modo per essere qualcosa di più della “zoccoletta” e che
la mia vita sarebbe cambiata, ovvio non sapevo come e
quando, ma la notte, nella baracca al Quadraro, mi
svegliavo con il cuore che batteva forte, perseguitata
da incubi in cui suor Teresa mi trascinava di nuovo al
collegio. Non parlavo mai di quello che provavo, nemmeno
con Clara, mi tenevo tutto dentro, ma intanto ogni lira
che guadagnavo la mettevo da parte, nascosta sotto una
tavola sconnessa del pavimento della baracca, sognando
il giorno in cui avrei potuto affittare una stanza tutta
mia. Ma quel sogno sembrava lontano, schiacciato dalla
realtà e da ogni giornata passata a vendere ciò che
restava di me. Mi ripetevo che in fin dei conti la
libertà aveva un prezzo e quello era il mio prezzo!
******
Ma in quel 1957, in quell’angolo
di Roma sporco e disperato, l’unica cosa che potevo fare
era andare avanti, un passo alla volta, un cliente alla
volta, con la caparbietà di chi non ha più nulla da
perdere. Continuavo convinta che quella fosse l’unica
strada per sopravvivere, ma un pomeriggio, qualcosa
cambiò per sempre. Ero vicino alla stazione, dove le
Terme di Diocleziano si sgretolavano sotto il peso del
tempo, delle ortiche e dell’incuria. Due ragazzi, ben
vestiti, con giacche di buon taglio si avvicinarono
sorridenti. Non erano i soliti clienti, quelli con le
mani callose e lo sguardo spento. Questi avevano un’aria
di chi si sentiva padrone del mondo, con i capelli
pettinati all’indietro pieni di brillantina e un modo di
parlare che tradiva una certa educazione.
Mi
offrirono un cioccolato caldo in un chiosco lì vicino, e
io, forse per stanchezza o per la vaga speranza di un
momento di normalità, accettai. “Dai, siediti un attimo,
che ti offriamo qualcosa di caldo.” Disse uno dei due,
quello più alto, con un sorriso che sembrava gentile, ma
aveva qualcosa di storto, come una lama nascosta. Si
chiamava Giuseppe, o almeno così disse. L’altro, più
basso e silenzioso, con occhi che sembravano perforarmi,
non disse il suo nome.
“Grazie.” Mormorai
stringendo la tazza di cioccolato tra le mani. Loro mi
facevano i complimenti dicendo che ero un bocconcino
prelibato, ma poi, mentre il sole cominciava a calare e
l’aria si faceva più fresca, Giuseppe si sporse verso di
me. “Sai, Anna, sei una ragazza carina. Perché non vieni
con noi? Solo un po’ di divertimento, niente di
complicato.” Scossi la testa, il cuore che cominciava a
battere più forte. “No, grazie. Non… non faccio certe
cose. Non con due insieme.” Risposi, cercando di
mantenere la voce ferma. Non avevo mai accettato
situazioni del genere, e una vocina dentro di me mi
diceva di scappare.
Quello più basso, che fino a
quel momento era stato zitto, rise, una risata secca e
cattiva. “Oh, andiamo, non fare la preziosa. Lo sappiamo
che fai la puttana. Non è che hai molta scelta, no?” Mi
alzai di scatto: “Ho detto di no” Ribattei, e feci per
andarmene. Ma non fui abbastanza veloce. Giuseppe mi
afferrò per un braccio e urlò: “Dove credi di andare,
eh?” A quel punto l’altro mi bloccò d’altro lato. Mi
dissero di non gridare e mi trascinarono via dal
chiosco, verso i ruderi delle Terme, dove l’ombra dei
muri antichi inghiottiva ogni suono. Io gridai lo
stesso, scalciai, cercai di liberarmi, ma loro erano più
forti. Giuseppe mi colpì con uno schiaffo spaccandomi il
labbro e l’altro mi spinse contro un muro. “Stai zitta e
fai la brava!” Mi disse mentre mi teneva ferma. “Non
vorrai mica che ti facciamo male sul serio, no?” Piansi
con il terrore che mi chiudeva la gola.
Nella
mia mente, in quel momento di disperazione, vidi il
volto di mia madre, un’immagine sfocata che non
ricordavo quasi più. Lei mi disse: “Fai la brava, Anna.
Pensa a sopravvivere.” Smisi di lottare, il mio corpo si
arrese e loro abusarono di me, tra quei ruderi sporchi e
silenziosi. Venti minuti che non dimenticherò mai!
Quando finirono, mi lasciarono lì, nuda, tremante, con
il sapore del sangue in bocca e il corpo che sembrava
non appartenermi più. Come se non fosse successo niente
Giuseppe si accese una sigaretta, e prima di andarsene
mi guardò con un ghigno. “Non fare tante storie, ora
puoi tornare al tuo mestiere che poi non è tanto diverso
da quello che hai fatto ora.”
Se ne andarono,
lasciandomi sola tra le rovine. Mi tirai su a fatica con
le gambe che tremavano. Mi rivestii come potei e
lentamente tornai verso il Quadraro. Ogni passo un peso
insopportabile, ma non era solo il dolore fisico, era
qualcosa di più profondo, una crepa che si era aperta
dentro di me. Per la prima volta, capii che non potevo
continuare così. Non era libertà, quella. Era una
prigione, e ogni cliente, ogni lira guadagnata, mi stava
trascinando sempre più a fondo. Il ricordo di quell’uomo
gentile, il commerciante del sud con il suo racconto
degli ulivi e del mare, tornò a tormentarmi. Lui mi
aveva guardata come se fossi una persona, non un
oggetto. E ora, dopo quello che era successo, quel
ricordo era l’unica cosa che mi dava la forza di pensare
a un futuro diverso. Non sapevo come, non sapevo quando,
ma giurai a me stessa che non sarei più tornata in quel
bagno lurido, in quel viale, in quel mondo che mi stava
uccidendo. Avrei trovato un modo per essere qualcosa di
più, per essere Anna, non “la zoccoletta”. Anche se
significava ricominciare da zero, anche se significava
affrontare la fame e la paura, non avrei più venduto me
stessa.
Quando tornai nella baracca misi come al
solito parte dei soldi guadagnati sul tavolo e poi senza
dire nulla, indossai i miei vestiti sporchi del collegio
e abbandonai quella casa intenzionata a fare ritorno
dalle suore, ma fu proprio quella sera che cambiò la mia
vita.
******
Timorosa della reazione
delle suore, esitai, incerta sul da farsi. Non sapevo se
mi avrebbero riaccolta o quali punizioni mi attendessero
per la mia fuga. Decisi di prendere tempo, vagando senza
meta per le strade di Roma, con l’idea di trascorrere
almeno quella notte fuori, sperando che l’aria fresca e
il silenzio della città mi aiutassero a schiarirmi le
idee. Camminavo con il cuore pesante, i passi incerti
che risuonavano sui sampietrini umidi, quando, nei
pressi della Fontana delle Rane, nel cuore del Ghetto,
un uomo anziano mi notò. Era ben vestito, con un
cappotto scuro di buona fattura e un cappello di feltro
leggermente inclinato. Portava i capelli brizzolati e il
suo volto, segnato dal tempo, aveva un’espressione
gentile, quasi paterna.
Si avvicinò con passo
lento, come per non spaventarmi, e i suoi occhi, di un
castano caldo, sembravano scrutarmi con una curiosità
benevola. “Hai fame, ragazza?” Mi chiese con una voce
morbida, leggermente roca, che tradiva un accento romano
appena accennato. Intimidita, abbassai lo sguardo,
stringendo il bordo del mio scialle logoro. Non riuscii
a rispondere subito, ma il mio stomaco, traditore, emise
un lieve brontolio che fece sorridere l’uomo. Annuii
timidamente, e lui, senza insistere o fare domande, mi
fece cenno di seguirlo. “Vieni, conosco un posto qui
vicino.” Disse, indicando una stradina laterale.
Camminammo in silenzio per qualche metro, io un passo
dietro di lui, ancora incerta se fidarmi. Arrivammo
davanti a un’osteria, una di quelle taverne romane con
le tende a quadretti rossi e bianchi e l’insegna di
legno che cigolava leggermente al vento. L’interno era
caldo e rumoroso, con tavoli di legno massiccio coperti
da tovaglie a scacchi, illuminati da candele infilate in
bottiglie di vino vuote. L’odore acre di vino, misto a
quello di unto e di carne arrostita, mi avvolse,
facendomi quasi girare la testa per la fame.
L’uomo si tolse il cappello e lo appoggiò su una sedia,
poi mi indicò un tavolo in un angolo, lontano dal
chiacchiericcio degli altri avventori. “Siediti, stai
tranquilla.” Disse con un sorriso che sembrava voler
dissipare ogni mia paura, poi chiamò il padrone
dell’osteria, un uomo robusto con un grembiule
macchiato, e ordinò per me un piatto di spaghetti. “Per
la ragazza.” Disse, guardandomi con un cenno di
complicità. “E un bicchiere di rosso per me, ma per lei
solo acqua…”
Mentre aspettavamo il cibo, parlò
del Ghetto, della fontana lì vicino con le sue rane che,
diceva, “sembrano sempre sul punto di saltare via, ma
non si muovono mai.” La sua voce aveva un ritmo pacato,
come se mi raccontasse una favola, e per un momento
dimenticai la mia angoscia. Quando il cibo arrivò, mi
incoraggiò a mangiare con un gesto della mano, come un
nonno che insiste con il nipote. “Forza, che la fame non
aspetta.” Disse, e io, dopo un primo boccone, mi lasciai
andare al calore del piatto fumante, sentendo il
conforto di quel gesto semplice, ma profondamente umano.
Lui mi osservava con un misto di curiosità e dolcezza,
ogni tanto sorseggiava il suo vino. Alla fine mi chiese:
“Come ti chiami?” “Anna.” Risposi, con la bocca
piena. “E come sei finita qui, Anna?” Gli
raccontai tutto, o quasi. Della guerra, di mia madre,
della fuga dal collegio e la paura di dover rientrare.
Non dissi nulla di Clara e di cosa facevo e cosa mi era
successo qualche ora prima. Lui mi ascoltava con gli
occhi pieni di qualcosa che non capivo.
******
Si chiamava Mario, insegnava al liceo in
zona e viveva poco lontano, sempre nel Ghetto. Quando
finii di mangiare, mi disse: “Non vuoi tornare in
collegio stasera, vero?” Annuii con la testa e lui
disse: “Vieni a casa mia, solo per questa notte…”
Non dissi nulla, ma speravo ardentemente che il destino
si fosse girato a mio favore. Quell’uomo era troppo
gentile per aspettarmi qualcosa di brutto e poi pensai
che qualunque cosa fosse accaduta non sarei andata più
in fondo di quello che mi era successo. Comunque,
facemmo poca strada a piedi e prima di arrivare a casa,
lui estrasse dalla tasca il suo pettinino e mi sistemò i
capelli, poi mi confidò che era padre di un ragazzo di
ventuno anni, ma che avrebbe sempre voluto avere una
figlia femmina.
L’appartamento al primo piano
era grande, caldo, con la radio accesa. Mi sembrò un
sogno. La tavola era apparecchiata, il profumo di
minestra riempiva l’aria. Ma la signora Sandra, sua
moglie, non fu affatto felice di vedermi. “Chi è
questa?” Sbottò, squadrandomi come fossi un gatto
randagio. “Solo per stanotte, Sandra…” Disse Mario,
calmo. “Domani troveremo una soluzione.” Prima di
sedersi a tavola per la cena, Mario mi preparò la stanza
degli ospiti sistemandomi il letto. Quella notte dormii
in una stanza tutta da sola, non mi pareva vero…
abituata com’ero nel dormitorio freddo e pieno di
spifferi del collegio con le altre ragazze che urlavano
fino a tardi.
La mattina dopo mi alzai presto
sempre con l’angoscia di dover tornare in collegio, ma
il professor Mario non mi mandò via. Mentre facevo
colazione mi disse: “Abbiamo bisogno di una mano in
casa, Anna, però tu devi darti da fare...” Sua moglie
sbuffò, ma alla fine accettò. La loro casa era grande,
con i pavimenti di marmo e tende pesanti alle finestre.
A me sembrava un palazzo di ricchi. La mattina stessa il
professore mi portò in un grande magazzino vicino Piazza
Vittorio e mi comprò dei vestiti nuovi, semplici, ma
puliti. Ero felice, lui mi trattava con una gentilezza
che non conoscevo, quasi come fossi sua figlia. “Anna,
sei una ragazza sveglia.” Mi diceva. “Devi studiare,
costruirti un futuro.”
Le faccende domestiche
non erano faticose e cercavo di sbrigarle durante la
mattina anche perché nel pomeriggio il professor Mario
dopo qualche giorno iniziò a darmi lezioni private,
aiutandomi a preparare gli esami da privatista di terza
media. La sera nel letto pregavo ringraziando il Signore
per quell’opportunità anche se sapevo che non sarei
potuta restare in quella casa per sempre. “Quando
compirai diciotto anni, dovrai trovarti un ragazzo che
ti sposi, Anna…” Mi disse il professore una volta, con
un tono serio, ma buono. “Questa non è casa tua.” Fu lì
che sentii un enorme distacco e ci rimasi male, ma
dentro di me sapevo che aveva ragione.
Davide, il
figlio di Mario, era un tipo silenzioso e riservato,
aveva i capelli mossi e un sorriso che mi faceva tremare
le gambe. Era bello, gentile, colto, sempre con un libro
in mano. Quando era in casa passava le ore chiuso nella
sua stanza a studiare e nelle poche volte che mi
rivolgeva la parola dimostrava una delicatezza infinita.
Insomma, non mi ci volle molto ad innamorarmi di lui, ma
lui non mi notava, un po’ per il suo carattere, un po’
perché aveva quattro anni più di me e un po’ perché era
fidanzato con Laura, una ragazza bionda con i capelli
lunghi e lisci, ricca e sempre elegante, che sembrava
uscita da un film a colori. Io, con i miei vestitini da
poco, i capelli neri, mossi e disordinati e le mani
screpolate dal lavoro, non potevo di certo competere con
lei.
La domenica pomeriggio uscivo con Clara che
nel frattempo aveva smesso di fare la vita ed usciva con
un uomo ricco, ma sposato. Quando ci riavvicinammo mi
disse: “Avevi ragione tu ed io mi sento in colpa.” Poi
ridendo aggiunse: “I soldi non sono tutto, non ti
rendono felici, ma io continuo a pensare che ti fanno
vivere bene.” Tutte e due con la domenica libera
andavamo di solito al cinema o ad una sala da ballo
vicino Via di Torre Argentina. Lì c’era un’orchestrina
composta da cinque o sei elementi e suonava pezzi dai
ritmi americani tipo swing e boogie-woogie. Non
mancavano i lenti, come i boleri o i valzer, che
facevano avvicinare le coppie in pista. Un pomeriggio
Clara arrivò con una busta enorme con dentro una gonna
rossa corta a pieghe, un paio di calze di seta nere,
delle scarpe coi tacchi alti, un po’ consumate, e un
rossetto già usato. Mi trascinò nel bagno del locale:
“Fatti bella, Anna.” Mi disse, seria. “Se vuoi qualcosa,
devi prendertelo. Se vuoi un futuro devi trovare un uomo
che ti sposi, ma prima devi sbalordirlo.”
A
casa, però, ero solo la sguattera. Pulivo, lavavo,
cucinavo, anche se dentro di me ero convinta che un
giorno avrei avuto un futuro migliore, non sognavo la
ricchezza come Clara, ma una casa mia e un uomo tutto
per me. Ma, quando qualche ragazzo si avvicinava e mi
chiedeva di ballare, mi venivano ancora in mente il
bagno pubblico e quei due balordi. L’amore lo vedevo
come qualcosa di oscuro, sporco, violento e peccaminoso,
simile ad una toilette di giorno che puzzava di pipì. E
poi non ero vergine, questo lo sapevo, ma non volevo
pensarci.
******
Eravamo ancora nel
1957 e alla fine di quell’anno conobbi Marco, il
commesso della pasticceria proprio di fronte casa mia.
Era un ragazzo di venticinque anni, con i capelli
castani leggermente mossi, occhi grandi e un sorriso
aperto e sincero. Ogni mattina, mentre passavo davanti
alla vetrina piena di cornetti caldi e torte glassate,
lui mi salutava con un cenno, e col tempo quel saluto si
trasformò in chiacchiere brevi e sorrisi complici.
Iniziò a corteggiarmi con una dolcezza semplice, senza
pretese: un caffè, una battuta sul tempo grigio di Roma,
un complimento timido. Non sentivo per lui lo stesso
trasporto che provavo per Davide, ma mi piaceva stare
insieme a lui. Era serio, gentile, di buona famiglia,
anche se non aveva molto da offrire se non la sua onestà
e un lavoro umile. Pensai che, forse, un ragazzo così
poteva essere la stabilità di cui avevo bisogno, insomma
qualcuno che mi avrebbe tolta da quella precarietà di
domestica senza casa e famiglia.
Una mattina,
mentre tornavo dal mercato con una busta piena di frutta
e verdura, come al solito passai davanti alla
pasticceria, ma quella volta, indossando la mia gonna
rossa a pieghe che mi aveva regalato Clara. Certo sì, lo
feci con un pizzico di civetteria e la voglia di farmi
guardare. Marco appena mi vide uscì di corsa dal negozio
con il grembiule ancora legato in vita e, pulendosi le
mani infarinate su uno strofinaccio, mi fermò
sorridendomi. “Anna, aspetta!” Si avvicino con un’aria
un po’ sorpresa e mi disse. “Ti sta proprio bene questa
gonna, sai? Sembri… diversa… più grande.” Arrossii,
abbassando lo sguardo. Lui notando il mio imbarazzo
aggiunse: “Dico sul serio, sei bellissima! Vieni, ti
offro un cannolo. Non puoi dire di no a un cannolo
siciliano fatto come si deve.” Entrai, e mentre mi
porgeva il dolce su un piattino, continuò a
chiacchierare, raccontandomi di come sua nonna gli
avesse insegnato a fare la crema di ricotta perfetta.
Era facile parlare con lui, e quella semplicità mi
conquistò.
Così iniziammo a uscire insieme. Mi
portava al cinema di quartiere, dove guardavamo commedie
romantiche o vecchi film d’avventura, e ridevamo per le
stesse battute. Stavo bene e mi faceva sentire
spensierata. Un pomeriggio, dopo qualche settimana che
ci frequentavamo, mi regalò una fedina d’argento: “Non è
niente di che.” Disse, grattandosi la nuca. “Ma… ci
tengo a te, Anna. Voglio che tra noi nasca qualcosa di
serio.” Lo guardai, sorpresa. “Marco, sei sicuro? Cioè…
ci conosciamo da poco…” Lui si fece serio: “Sì, sono
sicuro! E poi, voglio presentarti ai miei. Mia sorella
non vede l’ora di conoscerti. Le ho già detto che sei
una ragazza speciale.” Quella sera, davanti alla Fontana
di Trevi illuminata, mi baciò con una dolcezza che mi
fece quasi credere che fosse davvero lui quello giusto.
“Anna sei la ragazza che voglio accanto a me. Promettimi
che ci sarai.” Non risposi subito, ma annuii, lasciando
che il suono dell’acqua della fontana riempisse il
silenzio.
Dentro di me, però, c’era un’ombra
anzi un neo che non riuscivo a scacciare. Infatti, una
domenica pomeriggio, invece della nostra solita
passeggiata lungo il Tevere, Marco insistette per
portarmi a casa sua. I suoi genitori erano fuori a
pranzo da uno zio. Mi fece vedere la sua stanza, con un
letto singolo, una scrivania piena di libri di scuola
ormai impolverati e una foto di lui da bambino con sua
sorella. Ci sedemmo sul letto, e tra una risata e un
racconto, iniziammo a baciarci. I suoi baci erano dolci,
ma c’era una passione nuova, più intensa, che mi
sorprese. Mi lasciai andare, forse più di quanto avrei
voluto e dovuto, e in quel momento di intimità, con le
tende che filtravano la luce del pomeriggio, facemmo
l’amore.
Fu un gesto tenero, quasi goffo, ma
Marco fu attento, premuroso, chiedendomi ogni volta se
avessi voglia di continuare. Alla fine successe e quando
finimmo, però, qualcosa cambiò. Mentre eravamo ancora
sdraiati su quel lettino, lui si alzò di scatto, con
un’espressione che non gli avevo mai visto prima. Si
passò una mano tra i capelli, il volto teso. “Anna. Ti
devo chiedere una cosa, ma tu promettimi di dirmi la
verità!” Disse, con un tono che mi fece gelare il
sangue. “Con chi sei stata prima di me?” Rimasi
impietrita, il cuore che batteva forte. La sua voce non
era più dolce, ma tagliente, quasi accusatoria. “Cosa…
cosa vuoi dire?” Balbettai, stringendo il lenzuolo
contro il petto. “Non sei vergine!” Disse, guardandomi
dritto negli occhi. “Me lo dovevi dire. Con chi sei
stata, Anna? Dimmi la verità!”
Quel tono mi ferì
come una lama. Non era solo la domanda, ma il modo in
cui l’aveva detto, come se lo avessi ingannato o fossi
improvvisamente diventata un’estranea, come se mi stesse
giudicando. Non risposi. Non riuscivo a parlare, non
volevo giustificarmi. Mi alzai, mi rivestii in fretta,
con le mani che tremavano, e uscii da casa sua senza
dire una parola. Camminai fino a casa con le lacrime che
mi rigavano il viso.
Il giorno dopo, Marco mi
aspettò sotto il portone. “Anna, non possiamo andare
avanti. Mi dispiace, ma non è più la stessa cosa.”
Sentii una stretta al petto. Ero delusa, sì, ma non
devastata. Forse perché in fondo non ci avevo mai
creduto, forse sapevo che sarebbe finita così o forse
perché il mio cuore era già di Davide.
Ripresi
la mia vita con un senso di leggerezza, sollevata per
aver scampato quello che, col senno di poi, mi sembrava
un pericolo. Le parole dure di Marco, il suo sguardo
accusatorio, mi avevano ferita, ma allo stesso tempo mi
avevano aperto gli occhi. Seduta sul lettino della mia
stanza, con una tazza di tè ormai freddo tra le mani,
riflettevo su quanto fosse accaduto. In fin dei conti,
mi dicevo, un ragazzo che considera la verginità di una
donna così importante, al punto da giudicarmi e
lasciarmi senza nemmeno ascoltare le mie ragioni, non
avrebbe mai potuto essere il mio uomo, quello con cui
condividere una vita intera.
Non era solo il suo
rifiuto a pesarmi, ma il modo in cui aveva ridotto tutto
ciò che ero a un dettaglio che per me non definiva chi
fossi. Marco si era costruito un’immagine di me che non
corrispondeva alla realtà: “Non è la stessa cosa.” Aveva
detto e quelle parole mi risuonavano in testa come
un’accusa. Meritavo qualcuno che mi vedesse per intero,
che accettasse ogni parte di me, anche le cicatrici di
un passato che non potevo cambiare. Mentre guardavo
fuori dalla finestra, sentii una nuova determinazione
crescere dentro di me. Non avrei permesso al giudizio di
Marco di definirmi. La mia vita apparteneva a me, e il
mio cuore, nonostante il dolore e le delusioni, batteva
ancora per Davide, l’unico che con la sua sensibilità
avrebbe potuto comprendermi davvero. Era diventato il
mio chiodo fisso, il metro con cui giudicavo il mondo e
facevo paragoni con chiunque altro. Eppure, nonostante
vivessimo nella stessa casa, non si era mai presentata
la minima possibilità per rivelargli ciò che provavo per
lui.
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è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
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Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
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