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RACCONTO
 
Adamo Bencivenga
LA STORIA DI GIOVANNA 3
“Mi chiesi più volte se altre donne avessero mai vissuto il mio strazio e come si fossero comportate. Non lo sapevo, ma ero certa di vivere una storia sbagliata, incredibile, sporca e il destino aveva scelto me tra le tante!”
 


 

 
Anche al ristorante, il suo comportamento era cambiato. Alle volte non si presentava affatto lasciando a me ogni incombenza altre arrivava al lavoro con un sorriso distratto, lo sguardo meno intenso, come se un velo di distacco lo separasse da me. Io, che avevo costruito la mia sicurezza su di lui – sui suoi regali, sul suo aiuto, sul suo desiderio – sentivo il terreno scivolarmi sotto i piedi. Un’ansia che non riuscivo a controllare si insinuava in me, come un tarlo che scavava piano, ma inesorabile. Ogni volta che lo vedevo parlare con una cameriera, ridere con una cliente, il mio stomaco si stringeva in una morsa. Non era gelosia, ma paura. Paura di perdere il controllo, di vedere crollare il fragile castello di carte che avevo costruito attorno a Mauro, alla sua generosità, al suo ruolo nella mia vita.

Una sera, però, quella paura prese una forma precisa. La vidi per la prima volta al bancone del ristorante: una donna mora, sulla sessantina, elegante, sicura di sé, come se il suo fascino fosse un’eredità naturale. Era una stilista, avevo sentito dire, una di quelle donne che si muovono nel mondo con la sicurezza di chi sa di non passare inosservata. Indossava un tailleur nero che le cadeva a pennello, i capelli raccolti in uno chignon basso che lasciava intravedere orecchini di perle preziose. Il suo sorriso era caldo, ma con una punta di malizia, e quando parlava con Mauro, il suo corpo si inclinava leggermente verso di lui, come se stesse condividendo un segreto. In quell’istante mi chiesi se portasse le mutandine rosse!

Lui, dal canto suo, sembrava a suo agio, troppo a suo agio. Rideva, gesticolava, le offriva un bicchiere di vino con quella galanteria che un tempo riservava a me. Li osservavo dal fondo della sala, mentre coordinavo il personale, il cuore che batteva troppo forte, le mani che tremavano mentre sistemavo un tovagliolo su un tavolo già perfetto. Chi era quella donna? Perché Mauro le dedicava tanta attenzione? La mia mente correva, costruendo scenari che mi ferivano come lame. Era più grande di me, certo, ma il suo fascino non aveva età: era il tipo di donna che non aveva bisogno di tacchi alti o rossetto rosso fuoco per attirare gli sguardi. La sua sicurezza, il modo in cui occupava lo spazio, mi faceva sentire improvvisamente piccola, inadeguata, insignificante. Pensavo a me stessa, ai miei vestiti sempre più provocanti, alle calze sempre più maliziose, al trucco che ormai era una maschera, e mi chiedevo se Mauro si fosse stancato di quella versione di me: la donna del motel, l’amante, la bambola che lui aveva creato per i suoi desideri. Forse questa stilista, con la sua eleganza sobria e il suo portamento regale, rappresentava qualcosa che io non potevo essere: una compagna alla pari, una donna che non aveva bisogno di lui per sopravvivere.

Le mie supposizioni si fecero ossessive. Ogni volta che la vedevo al ristorante – e cominciava a venire spesso, troppo spesso – notavo dettagli che alimentavano la mia insicurezza. Il modo in cui Mauro le baciava la mano per salutarla, il modo in cui lei gli rispondeva con una risata complice, intima. Una sera, mentre sparecchiavo un tavolo vicino al bancone, la sentii dire: “Mauro, dovresti venire a vedere il mio atelier, ho una nuova collezione che ti piacerebbe.” La sua voce era morbida, invitante, e il sorriso di Mauro – quel sorriso che un tempo era stato mio – mi trafisse. Non riuscii a trattenermi: quando lei si allontanò, mi avvicinai a lui, fingendo di controllare un’ordinazione.

“Mauro…” Dissi con un tono che tradiva la mia agitazione. “Chi è quella donna? La vedo qui tutte le domeniche sera.” Lui alzò lo sguardo dal bicchiere che stava asciugando, un sopracciglio leggermente inarcato. “Si chiama Claudia.” Rispose, con una calma che mi fece infuriare. “Ha un atelier in Via Condotti. Le piace il nostro locale, e… beh, è una che sa come farsi notare, no?” Fece una risatina, come se fosse una cosa da nulla, ma i suoi occhi non incontrarono i miei. “Non è solo una cliente.” Replicai, incapace di trattenermi. “Ti guarda come se… come se volesse qualcosa di più. E tu non sembri dispiaciuto.” Lui posò il bicchiere e si avvicinò, abbassando la voce. “Giovanna, cosa stai insinuando? Sei gelosa?” Il suo tono era divertito, ma c’era una sfumatura tagliente, come se stesse testando i miei limiti. “Claudia è una donna piacente, certo, ma a me non interessa.” Non mi accontentai e dissi: “Allora perché non vieni più a casa nostra? Perché sei distante, mi lasci cuocere nel mio brodo e mi fai pensare che ti sto perdendo… Un tempo mi calmavi ed eri la mia ancora di salvataggio.”

Mauro mi fissò per un lungo momento. “Giovanna, tranquilla, non stai perdendo niente. Tu sarai sempre con me. Anzi adesso sei ancora più vicina!” Disse con un tono che voleva essere rassicurante, ma per la prima volta notai un’ombra nei suoi occhi, un’esitazione che mi fece dubitare delle sue parole. Era come se stesse nascondendo qualcosa. Mi guardava, sì, ma il suo sguardo non aveva più quel magnetismo che un tempo mi faceva sentire al centro del suo mondo. Era distante, come se una parte di lui fosse altrove, forse con Claudia, forse in un luogo che non potevo raggiungere o peggio non avrei mai potuto immaginare...

Ci pensai molto e alla fine mi convinsi che aveva ragione, non era Claudia la mia rivale, ma io mi interrogai lo stesso su quella gelosia cercando di capire cosa provassi davvero. Non era amore, non era il cuore spezzato di una donna innamorata. Era terrore, puro e semplice: paura di perdere il benessere e la tranquillità. Ma c’era di più. Con Mauro, per la prima volta dopo anni, avevo avuto un potere, un controllo su di lui, sul suo desiderio. Quel potere, che mi aveva fatto sentire viva anche a costo della mia dignità, ora mi stava sfuggendo. Ogni sorriso che Mauro rivolgeva a un’altra donna, ogni parola che non era per me, era un allarme che stavo perdendo la presa.


******

Decisi di reagire, a modo mio. Cominciai a curare il mio aspetto con un’ossessione che non riconoscevo in me stessa. Indossavo abiti sempre più corti, scollature che mettevano in mostra più di quanto fossi abituata, tacchi vertiginosi che mi facevano male ai piedi dopo ogni turno. Le autoreggenti, ormai la mia arma segreta, erano un rituale: le sceglievo con cura, sapendo quanto Mauro le adorasse. Prima di andare al lavoro, mi guardavo allo specchio, il tubino nero che aderiva alla pelle, i capelli sciolti, il rossetto acceso. “Mauro ti prego. Torna a guardarmi come prima.” Sussurravo a voce bassa, come una supplica silenziosa. Speravo di ricreare l’eccitazione delle prime volte, quei momenti al motel quando i suoi occhi non si staccavano da me, quando mi sentivo desiderata, necessaria.

Ma Mauro, pur restando affettuoso, era cambiato. Una sera, in un momento di calma, mi avvicinai a lui. “Mauro, tutto bene?” Chiesi, con un tono che voleva essere leggero, ma tradiva la mia ansia. Lui mi guardò, il sorriso dolce, ma distante. “Tutto a posto, Giovanna. Sei bellissima, come sempre.” Ma il suo tocco era diverso, privo della fame di prima. “Solo… sono un po’ preso, sai, il ristorante, gli affari.” Si voltò per sistemare una bottiglia al bancone, lasciandomi lì, con il profumo di vino che mi avvolgeva e un vuoto che mi cresceva dentro. “Mauro, non è solo questo. Non trattarmi da cretina ti prego!” Mi guardò con l’aria assente: “No, non sei cretina, lo so, lasciami solo un po’ di tempo, devo riflettere. Posso solo dirti che non ti lascerò mai!” Mi chiesi per tutta la serata cosa ci fosse di tanto importante che al momento non mi era dato sapere.

Tornai a casa con un nodo in gola, ma anche lì le cose stavano peggiorando. Armando, che sembrava migliorare grazie allo specialista pagato da Mauro, non si dava pace per l’assenza del suo vecchio amico. Una sera, mentre sparecchiavo la cena, mi affrontò. “Giovanna, che hai fatto?” Disse seduto al tavolo della cucina. “Perché Mauro non viene più? Avete bisticciato? Forse è colpa del tuo carattere, tu hai il potere di allontanare tutti anche le persone che ti fanno del bene...” Quelle parole mi trafissero. Sentii le guance bruciare, il senso di colpa che mi schiacciava. “Ma no, Armando, ma cosa vai a pensare?” Mentii, abbassando lo sguardo. “È solo occupato.” Ma lui scosse la testa, gli occhi pieni di una delusione che non vedevo da mesi.

Le accuse di mio marito erano un coltello nel cuore. Dalla sua depressione, non facevamo più l’amore. Ogni mio tentativo di avvicinarmi si scontrava con il suo muro di silenzio e la sua porta sempre chiusa. Io, che per mesi avevo sacrificato tutto – la mia dignità, i miei valori – per tenere unita questa famiglia, stavo di nuovo perdendo il controllo. E poi c’era Beatrice. La mia piccola, che ormai non era più così piccola, aveva iniziato a uscire spesso la sera. “Esco con Clara. Esco con Marika.” Mi diceva, infilandosi il giubbotto e prendendo l’iPhone che Mauro le aveva regalato. Ma il suo tono era sfuggente, i suoi occhi evitavano i miei. Una sera l’avevo vista rientrare con il trucco sbavato, l’espressione di chi nascondeva un segreto. “È tutto a posto, Bea?” Le avevo chiesto, cercando di trattenere l’ansia. “Mamma, sto bene, non ti devi preoccupare per me.” Aveva risposto, chiudendosi in camera.

Conoscevo mia figlia ed ero certa che c’era qualcosa che non tornava. Mi sentivo responsabile anche di quello che non voleva dirmi. Quei regali di Mauro, la collanina d’oro, il ciondolo, l’iPhone, l’avevano illusa, facendola sentire speciale, ma ora che lui si era allontanato, anche lei sembrava persa. Mi chiesi se anche lei mi ritenesse responsabile dell’assenza di Mauro. Provai a parlarne con Armando. “Non ti sembra che Beatrice stia cambiando? Esce troppo e a casa fa scena muta. E poi hai notato come si veste ultimamente?” Gli dissi una sera, mentre lui fissava la televisione. “Non è più una bambina, Giovanna.” Rispose, senza guardarmi. “Alla sua età è normale voler sentirsi una donna. Lasciala stare.” Le sue parole erano un’eco di quelle di Mauro, che avevo affrontato al ristorante qualche giorno dopo. “Beatrice sta crescendo, Giovanna.” Mi aveva detto, mentre riordinavamo la sala. “È normale che voglia la sua indipendenza. Non caricarti di colpe che non hai. E soprattutto lascia che viva le sue esperienze.”

Forse era vero, ero diventata troppo apprensiva, ma al tempo stesso sentivo che il mio mondo si stava sgretolando, e la colpa era mia: per aver lasciato entrare Mauro nella nostra vita, per aver ceduto, per aver pensato che potevo tenere tutto sotto controllo, ma in realtà non controllavo nulla, Armando con la sua depressione, Beatrice con i suoi trucchi sempre più evidenti, Mauro con il suo segreto che non voleva rivelarmi.


******

Una mattina, mentre Beatrice era a scuola, non riuscii più a ignorare l’ansia che mi divorava. Le sue uscite serali, il trucco sbavato, i suoi silenzi: ogni dettaglio mi tormentava, come un puzzle che non riuscivo a comporre. Entrai nella sua stanza, il cuore che batteva forte, sentendomi un’intrusa in quello spazio che non era più quello di una bambina. La luce filtrava dalle persiane, illuminando il letto sfatto, i poster dei suoi cantanti preferiti alle pareti. L’aria odorava di profumo dolce, quello che Beatrice usava ultimamente, troppo forte per la sua età. “Cosa mi stai nascondendo, Bea?” Mormorai, come se lei potesse sentirmi.

Cominciai a rovistare tra le sue cose. Sollevai libri, aprii i cassetti della scrivania, controllai l’armadio e, in fondo a un cassetto, sotto una pila di magliette piegate male, trovai qualcosa che mi fece gelare il sangue. Una montagna di lingerie: mutandine di seta, un reggicalze nero, calze autoreggenti, e – come un pugno allo stomaco – un paio di mutandine rosse, trasparenti, identiche, troppo identiche, a quelle che Mauro aveva regalato a me, con il pizzo delicato e il merletto che conoscevo fin troppo bene. Il cuore mi si fermò. Le mani tremavano mentre stringevo quel tessuto tra le dita, la mente invasa da un sospetto che non volevo nemmeno contemplare.

Mi sedetti sul bordo del letto, la lingerie ancora in mano, il respiro corto. Ripensai alle volte che Mauro era venuto a casa nostra, con i suoi sorrisi, i suoi regali, la collanina d’oro che brillava al collo di Beatrice. Ricordai il modo in cui le parlava, sempre gentile, sempre attento, ma ora ogni gesto assumeva un’ombra sinistra. E se mi fosse sfuggito qualcosa? E se quelle uscite di Beatrice, quelle sere con “Clara e Marika,” non fossero state ciò che sembravano? Il pensiero mi travolse come un’onda, facendomi sentire nauseata. “No, non è possibile.” Sussurrai, ma la voce mi tremava. Mauro, l’uomo che avevo lasciato entrare nella mia vita, nella mia casa, poteva davvero…? Non riuscivo nemmeno a formularlo.

Ero fuori di me. Camminai avanti e indietro nella stanza, il pavimento che scricchiolava sotto i miei piedi, il rumore della città che entrava dalla finestra aperta. Ogni suono mi sembrava un’accusa. Cercai di ricordare l’esatto momento in cui avevo iniziato a percepire il distacco di Mauro e le prime uscite serali di Beatrice Mi guardai allo specchio sopra la scrivania di Beatrice, il viso pallido, le occhiaie che raccontavano notti insonni. “È colpa mia.” Pensai. Io avevo portato Mauro nella nostra vita. Io avevo accettato i suoi regali, i suoi favori, il suo letto. E ora, mia figlia… La sola idea mi faceva venir voglia di urlare. Ma non potevo. Dovevo sapere. Dovevo affrontare Mauro, o forse Beatrice, ma come? Come potevo chiedere a mia figlia una cosa del genere senza distruggerla, senza distruggere ciò che restava di noi?

Mi lasciai cadere sul letto, la lingerie ancora stretta tra le mani, come una prova che bruciava. Fuori, Roma continuava a vivere, indifferente, con i suoi rumori e la sua luce calda di fine mattina. Dentro di me, però, c’era solo buio. “Cosa ho fatto?” Mormorai, le lacrime che finalmente rompevano gli argini. Non era solo il sospetto su Mauro. Era la certezza che, qualunque fosse la verità, io ne ero responsabile. Io, che con i miei problemi, ero diventata cieca e sorda non capendo effettivamente cosa stesse succedendo. Ero io che avevo aperto la porta a questo incubo.

Di proposito avevo lasciato la lingerie sul letto come prova dei miei sospetti e testimonianza sulla quale Bea non avrebbe potuto mentire. Il cuore mi martellava nel petto, un misto di rabbia, paura e un dolore che non riuscivo a nominare. Sentii la porta d’ingresso aprirsi, il rumore delle chiavi di Beatrice sul mobiletto, e il suo “Mamma, sono a casa!” che mi arrivò come un’eco lontana. Non risposi. La aspettai in camera sua, in piedi accanto al letto, le braccia incrociate per nascondere il tremore delle mani.

Entrò, il sorriso che le svanì non appena vide la lingerie. I suoi occhi si spalancarono, il volto pallido. “Mamma… che ci fai qui? Cos’è tutto questo disordine?” Balbettò, lasciando cadere lo zainetto sul pavimento. La mia voce uscì dura, spezzata dall’ansia. “Beatrice. Da dove viene questa roba? Dimmi la verità!” Indicai il letto, le mutandine rosse che sembravano urlare il mio stesso tradimento. Lei si immobilizzò, gli occhi che si riempivano di lacrime. Poi, all’improvviso, scoppiò a piangere, un pianto disperato che mi trafisse. Avrei voluto abbracciarla, consolarla, ma il sospetto mi paralizzava. “Rispondimi, Beatrice!” Gridai. “Chi ti ha dato queste cose?”

Tra i singhiozzi, lei cercò di parlare. “È… è Carlo…” Disse, la voce tremula, evitando il mio sguardo. “Un compagno di scuola… è benestante, dice che mi ama, che mi vuole sexy…” Ma le sue parole si spezzarono, come se non ci credesse nemmeno lei. Con rabbia afferrai le mutandine rosse: “Queste te le ha regalate questo Carlo? Ti prego non mentirmi!” Lentamente alzò gli occhi, il volto rigato di lacrime tinte di mascara. “Mamma, perdonami!” Cadde a terra inginocchiandosi. Insistetti: “Bea, chi è?”
Mi guardò fissa: “È Mauro il mio uomo.” Le sue parole furono un pugno, un colpo che mi fece barcollare. Le gambe cedettero, e mi lasciai cadere sul letto, accanto alla lingerie che ora sembrava un’accusa. “Cosa?!” Urlai, la voce che si spezzava in un misto di orrore e incredulità. “Mauro? L’amico di papà?” Lei annuì e tutto il mondo mi crollò addosso in un vortice di immagini. Pensai al motel, alle sue mani su di me, ai suoi regali, alle sue promesse, e ora… mia figlia.

“Da quanto va avanti? Dimmelo!” Gridai afferrandole il braccio. Beatrice si liberò, singhiozzando, e si voltò verso la finestra, come se non potesse sostenere il mio sguardo. “Dal giorno dopo che è venuto a casa la prima volta…” Confessò con la voce ridotta a un sussurro. “Mi ha aspettata fuori da scuola, mi ha invitata nella sua macchina… mi ha baciata.” Ogni parola era una lama. Non riuscivo a respirare. Mauro, l’uomo che avevo lasciato entrare nella mia vita, che consideravo il mio salvatore era anche l’amante di mia figlia. L’uomo che era venuto in casa mia per salvare la mia famiglia e invece la stava distruggendo. “Ci hai fatto l’amore?” Chiesi con la voce strozzata, temendo la risposta. Lei abbassò lo sguardo, le spalle curve. “Una settimana dopo il primo incontro.” Mormorò, quasi impercettibile. “È successo… nella sua macchina, poi a casa sua.”
Ero sconvolta: “Quindi la sera quando esci vai da lui? Dimmelo! E ci fai l’amore vestita così?” Afferrai tutta la lingerie e la scaraventai a terra. “A lui piace… specialmente le mutandine rosse…” Disse quasi con orgoglio.

Il sangue mi pulsava contro le tempie, il pavimento sembrava ondeggiare sotto di me. Mi sembrava tutto assurdo, un incubo da cui non riuscivo a svegliarmi. Era una ragazzina e immaginarla vestita sexy con le stesse mie cose per il mio uomo mi toglieva il respiro. Ma in quella assurdità, un pensiero mi tormentava: Beatrice sapeva di me e Mauro? Dovevo saperlo.
Cercai di calmarmi. Dovevo sapere e controllando la mia voce le chiesi: “Lui cosa ti ha detto di me?” Beatrice si voltò, i suoi occhi pieni di lacrime, ma anche di una determinazione che mi spaventò. “Non lo voglio sapere!” Disse, la voce ferma nonostante il pianto. “Lui ora è il mio uomo.” Quelle parole furono un altro colpo. Quindi sapeva? Non era solo la certezza di essere stata tradita da lui o di essere stata sostituita da mia figlia, ma una serie di colpi bassi che a fatica riuscivo ad attutire: come se mia figlia mi stesse cancellando, come se Mauro avesse preso il mio posto anche nel suo cuore.

Mi coprii il viso con le mani, le lacrime che bruciavano. “È colpa mia.” Pensai, il peso della realtà mi schiacciava: io e mia figlia amanti dello stesso uomo, l’uomo che io avevo portato in casa nostra. Io avevo accettato i suoi regali, il suo letto, il suo aiuto. E ora, mia figlia pagava il prezzo delle mie scelte. “Come ho potuto lasciar succedere questo?” Urlai sottovoce. Non riuscivo a guardare Beatrice, non riuscivo a muovermi. Ero intrappolata in un incubo che avevo creato io stessa.

Il cuore mi batteva forte e con le mani tremanti presi il telefono. Le parole di Beatrice – “È Mauro, è lui il mio uomo” – mi risuonavano nella testa come un incubo infinito. Non potevo aspettare, non potevo pensare. Composi il numero di Mauro, la rabbia che mi bruciava dentro come un fuoco. Quando rispose, la mia voce esplose, rotta da lacrime e furia. “Sei uno stronzo, un verme! Come hai potuto? È minorenne! La mia bambina! La pagherai cara, ti denuncio, cazzo!” Ogni parola era un grido, un tentativo di scacciare l’orrore di ciò che avevo appena scoperto.

Dall’altra parte, la sua voce era calma, quasi glaciale, come se nulla potesse scalfirlo. “Giovanna, calmati.” Disse, con quel tono che una volta mi rassicurava e ora mi faceva ribollire. “Non voglio parlare al telefono. Ascolta, incontriamoci tra un’ora al motel. Ti spiegherò tutto.” Riattaccò prima che potessi rispondere, lasciandomi con il telefono in mano e un vuoto che mi soffocava. Sapevo che non c’era nulla da chiarire, nulla che potesse giustificare ciò che aveva fatto. Eppure, una parte di me, disperata e confusa, aveva bisogno di guardarlo negli occhi, di capire come avesse potuto tradirmi così, tradire Beatrice, tradire tutto. Non mi cambiai. Indossavo ancora i jeans e la maglietta stropicciata della mattina, i capelli raccolti in una coda disordinata. Non volevo essere la donna che lui desiderava, non più.

Guidai fino al motel, le strade della Balduina sfocate dalla rabbia e dalle lacrime. Il motel era lo stesso di sempre, ma io ero diversa. Parcheggiai con la rabbia che mi martellava dentro. Entrai nella stanza. Lui era lì, in piedi vicino al letto, impeccabile nella sua camicia scura. Non gli diedi il tempo di parlare. “Come hai potuto fare questo a me? A Beatrice?” Urlai, avanzando verso di lui, le mani strette a pugno. “È una bambina! E tu… tu sei un porco, un infame!” Mi avventai contro di lui e lo colpii con la mano aperta.

Lui non reagì, mi guardò con quel suo sorriso che era un misto di sfida e compassione. “Mi spiace che tu lo abbia saputo da tua figlia. Era tempo che volevo dirtelo…” Lo guardai con odio: “E che cazzo volevi dirmi? Che ti scopi mia figlia? Che le fai mettere le mutandine rosse come facevi con me? Sei un lurido porco farabutto, Mauro!”
Lui si sedette sulla sedia vicino alla finestra. “Lo sai che non mi piace vederti così, Giovanna.” Disse quasi come se stesse cercando di riportarmi indietro, al tempo in cui cedevo ai suoi desideri. Mi avvicinai e lui, allungando le mani, prese le mie. Istintivamente, mi ritrassi, ma lui fu più rapido, stringendomi i polsi. “Ascoltami, ti prego.” Continuò, i suoi occhi fissi nei miei, intensi, manipolatori. “Non posso fare a meno di Beatrice. Sto vivendo il momento più felice della mia vita. Non ti scandalizzare, per favore. Sapevo che avresti reagito così, ed è per questo che aspettavo a dirtelo. Speravo che lo capissi da sola, che te ne accorgessi. Voi due… siete due gocce d’acqua. Lei la amo, Giovanna. E per te… sento una forte attrazione.”

Le sue parole furono come uno schiaffo umiliante in pieno viso. Rimasi immobile, il respiro corto, il mondo che si sgretolava intorno a me. “Tu… la ami?” Balbettai con la voce strozzata dall’orrore. “È mia figlia, Mauro! È minorenne! Come hai potuto solo…” Non riuscii a finire la frase. Lui si alzò avvicinandosi, il suo viso a pochi centimetri dal mio, il suo profumo che mi riportava a momenti che ora mi nauseavano. “Non è come pensi. Beatrice è speciale, come te. La amo veramente e mai le farò del male…”
Lo guardai incredula: “Mi fai schifo, ti sei scopato madre e figlia per giunta lei è minorenne! Ti denuncio cazzo!”

Le mie parole non lo colpirono affatto. Sembrava assorto nei suoi pensieri: “Giovanna è successo ed io ho solo la colpa di non essere riuscito a resistere. Sapevo che mi stavo mettendo in un casino enorme, ma è stato più forte di me anche perché mi dilaniava il pensiero che quando tu l’avresti saputo sarei stato costretto a scegliere. Ed io non voglio scegliere, non voglio perdere nessuna di voi due.” Tentò di baciarmi, le sue mani sui miei fianchi, le sue labbra che sfiorarono le mie. Mi divincolai, lo spinsi via con tutta la forza che avevo, il petto che si alzava e abbassava per la rabbia.

“Mi fai orrore! Sei un uomo schifoso! Non toccarmi!” Gridai, la voce che riecheggiava nella stanza vuota. “Non ti avvicinerai mai più a lei, né a me!” Sbattei la porta alle mie spalle. Fuori, l’aria fredda mi colpì il viso, ma non bastò a spegnere il fuoco che mi bruciava dentro.
Salii in macchina, le mani che tremavano sul volante, le lacrime che mi rigavano il viso. Non era solo rabbia. Era dolore, disgusto, senso di colpa. Io avevo aperto la porta a Mauro. Io avevo permesso che tutto questo accadesse. E ora, mia figlia era intrappolata nello stesso incubo che avevo creato per me stessa. “Cosa faccio ora?” Sussurrai, la voce persa nel buio. Roma, fuori dal finestrino, non aveva risposte.


******

Ero distrutta. Il dolore del tradimento mi consumava, un doppio peso insopportabile: Mauro, l’uomo a cui avevo sacrificato la mia dignità, mi tradiva e l’altra donna era mia figlia! Ogni volta che chiudevo gli occhi, sentivo le parole di Beatrice: “È lui il mio uomo” e vedevo il sorriso manipolatore di Mauro al motel. Tornai a casa con le lacrime che mi rigavano il viso, il trucco sbavato, la gola stretta da un nodo che non si scioglieva.
Quando entrai, Armando era seduto sul divano, la televisione che ronzava in sottofondo. Mi guardò, il suo viso stanco illuminato dal bagliore grigio celeste dello schermo. Mi aspettavo una domanda, un “Cosa ti succede?”, ma lui rimase in silenzio, gli occhi che tornavano al televisore. Avrei voluto urlargli tutto: la verità su Mauro, su Beatrice, sul motel. Ma le parole mi morirono in gola. Come potevo dirgli che l’uomo che considerava un “dono del cielo” aveva distrutto la nostra famiglia?

Per una settimana non andai al ristorante. Non potevo guardare Mauro, non potevo respirare l’aria di quel posto che una volta mi aveva dato speranza. Vietai a Beatrice di usare il telefono, quello stesso iPhone che Mauro le aveva regalato, e le proibii di vederlo. “Non ti avvicini a lui, chiaro?” Le avevo detto, la voce dura, mentre lei mi guardava con occhi pieni di odio. Si chiudeva in camera sua, la porta sprangata, il silenzio tra noi più pesante di qualsiasi parola. La mattina l’accompagnavo a scuola e il pomeriggio andavo a riprenderla.

Armando, da quando non vedeva il suo presunto amico, si era ritirato di nuovo nel il suo mondo di ombre e depressione. Non usciva più. Una sera, mentre lavavo i piatti, mi affrontò. “Tu hai un carattere schifoso, Giovanna.” Disse con la voce carica di amarezza. “Mauro era un tesoro, e tu l’hai mandato via. Sempre così rigida, sempre a fare di testa tua. Solo io ho avuto la pazienza di sopportarti.” Le sue parole, ignare di tutte le verità, mi ferirono come coltelli. Non sapeva nulla, ma mi accusava, come se fossi io la causa di tutto. Gli risposi: “Ma tu che ne sai di me, della mia vita fuori di qui? Mi ammazzo di lavoro tutto il giorno, come puoi giudicarmi?” Lui senza parlare, si alzò e andò a letto. Tra noi due non ci sarebbe mai stato un confronto schietto, lo sapevo, del resto anche lui aveva paura della verità.

Mauro, invece, non si arrendeva. Il mio telefono squillava di continuo, i suoi messaggi e chiamate un assedio che non potevo ignorare. “Giovanna, lascia che veda Beatrice.” Diceva e scriveva. “E poi tu torna, il lavoro ti aspetta e tu mi manchi tanto. Ho detto al personale che sei malata, ma torna, non buttare tutto via!” Lo ignoravo, ma ogni sua parola mi faceva sentire impotente.
Una sera, cedetti e risposi con la rabbia che mi ribolliva dentro. “Come osi? Dopo quello che hai fatto?” Lui non si scompose. “Sono sincero, Giovanna.” Disse quasi supplicante. “Mettimi alla prova. Quello che provo per Beatrice è amore vero, genuino. Ma ti prego, non ti sentire tradita. Non può una madre provare gelosia per sua figlia. Devi essere orgogliosa, no? Mi dicevi che tutto quello che facevi era per lei. Non essere egoista, lasciale vivere la sua vita. Lei mi vuole e anch’io la desidero.”

Le sue parole mi lasciarono senza fiato. Era come se stesse rigirando il coltello, usando il mio stesso sacrificio contro di me. “Tu sei malato, ti devi far curare! Come puoi definirlo puro se desideri sia me che lei?” Sibilai. “Non ti avvicinerai mai più a lei, né a me.” Lui sempre più calmo mi rispose: “È proprio questo che ti dovrebbe far pensare, con lei non è sesso, non è passione, ma sentimento. Non posso dire che è un amore paterno, questo no, ma è la curiosità, la bellezza di vederla crescere, di sentirmi un punto di riferimento importante per lei. Con te è diverso, tu sei la donna che tutti desidererebbero avere nel proprio letto. Mi capisci?”
No, non capivo e allora riattaccai, ma le sue parole continuavano a tormentarmi, un veleno che si insinuava nei miei pensieri. Ero egoista a voler proteggere Beatrice? O era lui che mi stava manipolando, ancora una volta?

L’unica in quel contesto ad essere pura era mia figlia. Se ne era innamorata chissà forse vedendo in lui quell’uomo buono che aveva ingannato anche me e ora, non conoscendo tutta la verità, considerava sua madre una donna cattiva che le impediva di essere felice.
Passavo le serate da sola al tavolo della sala da pranzo, con le porte delle camere di Beatrice e Armando sprangate, come muri che mi escludevano. La casa, un tempo un rifugio, era diventata una prigione. Mi ripetevo: “Dove ho sbagliato?” Certo, la situazione si stava aggravando, non volevo tornare al ristorante, ma come avrei vissuto? Senza lavoro e senza soldi e a breve avrei dovuto pagare la retta di Beatrice e presto avrei dovuto affrontare Armando. Mi chiedevo se ci fosse una via d’uscita. Pensai di tornare allo studio dentistico, ma mi avrebbero ripresa? Una parte di me, disperata e stanca, pensava addirittura di perdonare Mauro, se si fosse pentito, se avesse promesso di lasciare in pace Beatrice, forse avrei dimenticato, sarei tornata indietro, al ristorante, al motel, al suo letto, per salvare ciò che restava della mia famiglia. Ma lui non si pentiva. Le sue parole – “amore vero” – erano un’ulteriore beffa.

Mi guardavo allo specchio, il viso scavato, le occhiaie che raccontavano notti insonni. “Chi sei diventata, Giovanna?” Sussurravo, ma non avevo risposte. La foto di Beatrice sul frigo, il suo sorriso di un tempo, era un’accusa. Avevo fatto tutto per lei, per la nostra famiglia, ma ora ero sola, intrappolata in un incubo che avevo creato io stessa. Mi chiesi più volte se altre donne avessero mai vissuto il mio strazio e come si fossero comportate. Non lo sapevo, ma ero certa di vivere una storia sbagliata, incredibile, sporca e il destino aveva scelto me tra le tante! Eppure, una parte di me si chiedeva se ci fosse ancora una via d’uscita. Potevo denunciare Mauro, raccontare tutto ad Armando, strappare Beatrice da lui. Ma poi? Senza il ristorante, senza i soldi, cosa sarebbe stato di noi?





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Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.
IMMAGINE GENERATA DA IA


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