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RACCONTO

Adamo Bencivenga
LA
STORIA DI GIOVANNA 3
“Mi chiesi più volte
se altre donne avessero mai vissuto il mio strazio e
come si fossero comportate. Non lo sapevo, ma ero
certa di vivere una storia sbagliata, incredibile,
sporca e il destino aveva scelto me tra le tante!”

Anche al ristorante, il suo
comportamento era cambiato. Alle volte non si presentava
affatto lasciando a me ogni incombenza altre arrivava al
lavoro con un sorriso distratto, lo sguardo meno
intenso, come se un velo di distacco lo separasse da me.
Io, che avevo costruito la mia sicurezza su di lui – sui
suoi regali, sul suo aiuto, sul suo desiderio – sentivo
il terreno scivolarmi sotto i piedi. Un’ansia che non
riuscivo a controllare si insinuava in me, come un tarlo
che scavava piano, ma inesorabile. Ogni volta che lo
vedevo parlare con una cameriera, ridere con una
cliente, il mio stomaco si stringeva in una morsa. Non
era gelosia, ma paura. Paura di perdere il controllo, di
vedere crollare il fragile castello di carte che avevo
costruito attorno a Mauro, alla sua generosità, al suo
ruolo nella mia vita.
Una sera, però, quella
paura prese una forma precisa. La vidi per la prima
volta al bancone del ristorante: una donna mora, sulla
sessantina, elegante, sicura di sé, come se il suo
fascino fosse un’eredità naturale. Era una stilista,
avevo sentito dire, una di quelle donne che si muovono
nel mondo con la sicurezza di chi sa di non passare
inosservata. Indossava un tailleur nero che le cadeva a
pennello, i capelli raccolti in uno chignon basso che
lasciava intravedere orecchini di perle preziose. Il suo
sorriso era caldo, ma con una punta di malizia, e quando
parlava con Mauro, il suo corpo si inclinava leggermente
verso di lui, come se stesse condividendo un segreto. In
quell’istante mi chiesi se portasse le mutandine rosse!
Lui, dal canto suo, sembrava a suo agio, troppo a
suo agio. Rideva, gesticolava, le offriva un bicchiere
di vino con quella galanteria che un tempo riservava a
me. Li osservavo dal fondo della sala, mentre coordinavo
il personale, il cuore che batteva troppo forte, le mani
che tremavano mentre sistemavo un tovagliolo su un
tavolo già perfetto. Chi era quella donna? Perché Mauro
le dedicava tanta attenzione? La mia mente correva,
costruendo scenari che mi ferivano come lame. Era più
grande di me, certo, ma il suo fascino non aveva età:
era il tipo di donna che non aveva bisogno di tacchi
alti o rossetto rosso fuoco per attirare gli sguardi. La
sua sicurezza, il modo in cui occupava lo spazio, mi
faceva sentire improvvisamente piccola, inadeguata,
insignificante. Pensavo a me stessa, ai miei vestiti
sempre più provocanti, alle calze sempre più maliziose,
al trucco che ormai era una maschera, e mi chiedevo se
Mauro si fosse stancato di quella versione di me: la
donna del motel, l’amante, la bambola che lui aveva
creato per i suoi desideri. Forse questa stilista, con
la sua eleganza sobria e il suo portamento regale,
rappresentava qualcosa che io non potevo essere: una
compagna alla pari, una donna che non aveva bisogno di
lui per sopravvivere.
Le mie supposizioni si
fecero ossessive. Ogni volta che la vedevo al ristorante
– e cominciava a venire spesso, troppo spesso – notavo
dettagli che alimentavano la mia insicurezza. Il modo in
cui Mauro le baciava la mano per salutarla, il modo in
cui lei gli rispondeva con una risata complice, intima.
Una sera, mentre sparecchiavo un tavolo vicino al
bancone, la sentii dire: “Mauro, dovresti venire a
vedere il mio atelier, ho una nuova collezione che ti
piacerebbe.” La sua voce era morbida, invitante, e il
sorriso di Mauro – quel sorriso che un tempo era stato
mio – mi trafisse. Non riuscii a trattenermi: quando lei
si allontanò, mi avvicinai a lui, fingendo di
controllare un’ordinazione.
“Mauro…” Dissi con un
tono che tradiva la mia agitazione. “Chi è quella donna?
La vedo qui tutte le domeniche sera.” Lui alzò lo
sguardo dal bicchiere che stava asciugando, un
sopracciglio leggermente inarcato. “Si chiama Claudia.”
Rispose, con una calma che mi fece infuriare. “Ha un
atelier in Via Condotti. Le piace il nostro locale, e…
beh, è una che sa come farsi notare, no?” Fece una
risatina, come se fosse una cosa da nulla, ma i suoi
occhi non incontrarono i miei. “Non è solo una cliente.”
Replicai, incapace di trattenermi. “Ti guarda come se…
come se volesse qualcosa di più. E tu non sembri
dispiaciuto.” Lui posò il bicchiere e si avvicinò,
abbassando la voce. “Giovanna, cosa stai insinuando? Sei
gelosa?” Il suo tono era divertito, ma c’era una
sfumatura tagliente, come se stesse testando i miei
limiti. “Claudia è una donna piacente, certo, ma a me
non interessa.” Non mi accontentai e dissi: “Allora
perché non vieni più a casa nostra? Perché sei distante,
mi lasci cuocere nel mio brodo e mi fai pensare che ti
sto perdendo… Un tempo mi calmavi ed eri la mia ancora
di salvataggio.”
Mauro mi fissò per un lungo
momento. “Giovanna, tranquilla, non stai perdendo
niente. Tu sarai sempre con me. Anzi adesso sei ancora
più vicina!” Disse con un tono che voleva essere
rassicurante, ma per la prima volta notai un’ombra nei
suoi occhi, un’esitazione che mi fece dubitare delle sue
parole. Era come se stesse nascondendo qualcosa. Mi
guardava, sì, ma il suo sguardo non aveva più quel
magnetismo che un tempo mi faceva sentire al centro del
suo mondo. Era distante, come se una parte di lui fosse
altrove, forse con Claudia, forse in un luogo che non
potevo raggiungere o peggio non avrei mai potuto
immaginare...
Ci pensai molto e alla fine mi
convinsi che aveva ragione, non era Claudia la mia
rivale, ma io mi interrogai lo stesso su quella gelosia
cercando di capire cosa provassi davvero. Non era amore,
non era il cuore spezzato di una donna innamorata. Era
terrore, puro e semplice: paura di perdere il benessere
e la tranquillità. Ma c’era di più. Con Mauro, per la
prima volta dopo anni, avevo avuto un potere, un
controllo su di lui, sul suo desiderio. Quel potere, che
mi aveva fatto sentire viva anche a costo della mia
dignità, ora mi stava sfuggendo. Ogni sorriso che Mauro
rivolgeva a un’altra donna, ogni parola che non era per
me, era un allarme che stavo perdendo la presa.
******
Decisi di reagire, a modo mio.
Cominciai a curare il mio aspetto con un’ossessione che
non riconoscevo in me stessa. Indossavo abiti sempre più
corti, scollature che mettevano in mostra più di quanto
fossi abituata, tacchi vertiginosi che mi facevano male
ai piedi dopo ogni turno. Le autoreggenti, ormai la mia
arma segreta, erano un rituale: le sceglievo con cura,
sapendo quanto Mauro le adorasse. Prima di andare al
lavoro, mi guardavo allo specchio, il tubino nero che
aderiva alla pelle, i capelli sciolti, il rossetto
acceso. “Mauro ti prego. Torna a guardarmi come prima.”
Sussurravo a voce bassa, come una supplica silenziosa.
Speravo di ricreare l’eccitazione delle prime volte,
quei momenti al motel quando i suoi occhi non si
staccavano da me, quando mi sentivo desiderata,
necessaria.
Ma Mauro, pur restando affettuoso,
era cambiato. Una sera, in un momento di calma, mi
avvicinai a lui. “Mauro, tutto bene?” Chiesi, con un
tono che voleva essere leggero, ma tradiva la mia ansia.
Lui mi guardò, il sorriso dolce, ma distante. “Tutto a
posto, Giovanna. Sei bellissima, come sempre.” Ma il suo
tocco era diverso, privo della fame di prima. “Solo…
sono un po’ preso, sai, il ristorante, gli affari.” Si
voltò per sistemare una bottiglia al bancone,
lasciandomi lì, con il profumo di vino che mi avvolgeva
e un vuoto che mi cresceva dentro. “Mauro, non è solo
questo. Non trattarmi da cretina ti prego!” Mi guardò
con l’aria assente: “No, non sei cretina, lo so,
lasciami solo un po’ di tempo, devo riflettere. Posso
solo dirti che non ti lascerò mai!” Mi chiesi per tutta
la serata cosa ci fosse di tanto importante che al
momento non mi era dato sapere.
Tornai a casa
con un nodo in gola, ma anche lì le cose stavano
peggiorando. Armando, che sembrava migliorare grazie
allo specialista pagato da Mauro, non si dava pace per
l’assenza del suo vecchio amico. Una sera, mentre
sparecchiavo la cena, mi affrontò. “Giovanna, che hai
fatto?” Disse seduto al tavolo della cucina. “Perché
Mauro non viene più? Avete bisticciato? Forse è colpa
del tuo carattere, tu hai il potere di allontanare tutti
anche le persone che ti fanno del bene...” Quelle parole
mi trafissero. Sentii le guance bruciare, il senso di
colpa che mi schiacciava. “Ma no, Armando, ma cosa vai a
pensare?” Mentii, abbassando lo sguardo. “È solo
occupato.” Ma lui scosse la testa, gli occhi pieni di
una delusione che non vedevo da mesi.
Le accuse
di mio marito erano un coltello nel cuore. Dalla sua
depressione, non facevamo più l’amore. Ogni mio
tentativo di avvicinarmi si scontrava con il suo muro di
silenzio e la sua porta sempre chiusa. Io, che per mesi
avevo sacrificato tutto – la mia dignità, i miei valori
– per tenere unita questa famiglia, stavo di nuovo
perdendo il controllo. E poi c’era Beatrice. La mia
piccola, che ormai non era più così piccola, aveva
iniziato a uscire spesso la sera. “Esco con Clara. Esco
con Marika.” Mi diceva, infilandosi il giubbotto e
prendendo l’iPhone che Mauro le aveva regalato. Ma il
suo tono era sfuggente, i suoi occhi evitavano i miei.
Una sera l’avevo vista rientrare con il trucco sbavato,
l’espressione di chi nascondeva un segreto. “È tutto a
posto, Bea?” Le avevo chiesto, cercando di trattenere
l’ansia. “Mamma, sto bene, non ti devi preoccupare per
me.” Aveva risposto, chiudendosi in camera.
Conoscevo mia figlia ed ero certa che c’era qualcosa che
non tornava. Mi sentivo responsabile anche di quello che
non voleva dirmi. Quei regali di Mauro, la collanina
d’oro, il ciondolo, l’iPhone, l’avevano illusa,
facendola sentire speciale, ma ora che lui si era
allontanato, anche lei sembrava persa. Mi chiesi se
anche lei mi ritenesse responsabile dell’assenza di
Mauro. Provai a parlarne con Armando. “Non ti sembra che
Beatrice stia cambiando? Esce troppo e a casa fa scena
muta. E poi hai notato come si veste ultimamente?” Gli
dissi una sera, mentre lui fissava la televisione. “Non
è più una bambina, Giovanna.” Rispose, senza guardarmi.
“Alla sua età è normale voler sentirsi una donna.
Lasciala stare.” Le sue parole erano un’eco di quelle di
Mauro, che avevo affrontato al ristorante qualche giorno
dopo. “Beatrice sta crescendo, Giovanna.” Mi aveva
detto, mentre riordinavamo la sala. “È normale che
voglia la sua indipendenza. Non caricarti di colpe che
non hai. E soprattutto lascia che viva le sue
esperienze.”
Forse era vero, ero diventata
troppo apprensiva, ma al tempo stesso sentivo che il mio
mondo si stava sgretolando, e la colpa era mia: per aver
lasciato entrare Mauro nella nostra vita, per aver
ceduto, per aver pensato che potevo tenere tutto sotto
controllo, ma in realtà non controllavo nulla, Armando
con la sua depressione, Beatrice con i suoi trucchi
sempre più evidenti, Mauro con il suo segreto che non
voleva rivelarmi.
******
Una mattina,
mentre Beatrice era a scuola, non riuscii più a ignorare
l’ansia che mi divorava. Le sue uscite serali, il trucco
sbavato, i suoi silenzi: ogni dettaglio mi tormentava,
come un puzzle che non riuscivo a comporre. Entrai nella
sua stanza, il cuore che batteva forte, sentendomi
un’intrusa in quello spazio che non era più quello di
una bambina. La luce filtrava dalle persiane,
illuminando il letto sfatto, i poster dei suoi cantanti
preferiti alle pareti. L’aria odorava di profumo dolce,
quello che Beatrice usava ultimamente, troppo forte per
la sua età. “Cosa mi stai nascondendo, Bea?” Mormorai,
come se lei potesse sentirmi.
Cominciai a
rovistare tra le sue cose. Sollevai libri, aprii i
cassetti della scrivania, controllai l’armadio e, in
fondo a un cassetto, sotto una pila di magliette piegate
male, trovai qualcosa che mi fece gelare il sangue. Una
montagna di lingerie: mutandine di seta, un reggicalze
nero, calze autoreggenti, e – come un pugno allo stomaco
– un paio di mutandine rosse, trasparenti, identiche,
troppo identiche, a quelle che Mauro aveva regalato a
me, con il pizzo delicato e il merletto che conoscevo
fin troppo bene. Il cuore mi si fermò. Le mani tremavano
mentre stringevo quel tessuto tra le dita, la mente
invasa da un sospetto che non volevo nemmeno
contemplare.
Mi sedetti sul bordo del letto, la
lingerie ancora in mano, il respiro corto. Ripensai alle
volte che Mauro era venuto a casa nostra, con i suoi
sorrisi, i suoi regali, la collanina d’oro che brillava
al collo di Beatrice. Ricordai il modo in cui le
parlava, sempre gentile, sempre attento, ma ora ogni
gesto assumeva un’ombra sinistra. E se mi fosse sfuggito
qualcosa? E se quelle uscite di Beatrice, quelle sere
con “Clara e Marika,” non fossero state ciò che
sembravano? Il pensiero mi travolse come un’onda,
facendomi sentire nauseata. “No, non è possibile.”
Sussurrai, ma la voce mi tremava. Mauro, l’uomo che
avevo lasciato entrare nella mia vita, nella mia casa,
poteva davvero…? Non riuscivo nemmeno a formularlo.
Ero fuori di me. Camminai avanti e indietro nella
stanza, il pavimento che scricchiolava sotto i miei
piedi, il rumore della città che entrava dalla finestra
aperta. Ogni suono mi sembrava un’accusa. Cercai di
ricordare l’esatto momento in cui avevo iniziato a
percepire il distacco di Mauro e le prime uscite serali
di Beatrice Mi guardai allo specchio sopra la scrivania
di Beatrice, il viso pallido, le occhiaie che
raccontavano notti insonni. “È colpa mia.” Pensai. Io
avevo portato Mauro nella nostra vita. Io avevo
accettato i suoi regali, i suoi favori, il suo letto. E
ora, mia figlia… La sola idea mi faceva venir voglia di
urlare. Ma non potevo. Dovevo sapere. Dovevo affrontare
Mauro, o forse Beatrice, ma come? Come potevo chiedere a
mia figlia una cosa del genere senza distruggerla, senza
distruggere ciò che restava di noi?
Mi lasciai
cadere sul letto, la lingerie ancora stretta tra le
mani, come una prova che bruciava. Fuori, Roma
continuava a vivere, indifferente, con i suoi rumori e
la sua luce calda di fine mattina. Dentro di me, però,
c’era solo buio. “Cosa ho fatto?” Mormorai, le lacrime
che finalmente rompevano gli argini. Non era solo il
sospetto su Mauro. Era la certezza che, qualunque fosse
la verità, io ne ero responsabile. Io, che con i miei
problemi, ero diventata cieca e sorda non capendo
effettivamente cosa stesse succedendo. Ero io che avevo
aperto la porta a questo incubo.
Di proposito
avevo lasciato la lingerie sul letto come prova dei miei
sospetti e testimonianza sulla quale Bea non avrebbe
potuto mentire. Il cuore mi martellava nel petto, un
misto di rabbia, paura e un dolore che non riuscivo a
nominare. Sentii la porta d’ingresso aprirsi, il rumore
delle chiavi di Beatrice sul mobiletto, e il suo “Mamma,
sono a casa!” che mi arrivò come un’eco lontana. Non
risposi. La aspettai in camera sua, in piedi accanto al
letto, le braccia incrociate per nascondere il tremore
delle mani.
Entrò, il sorriso che le svanì non
appena vide la lingerie. I suoi occhi si spalancarono,
il volto pallido. “Mamma… che ci fai qui? Cos’è tutto
questo disordine?” Balbettò, lasciando cadere lo
zainetto sul pavimento. La mia voce uscì dura, spezzata
dall’ansia. “Beatrice. Da dove viene questa roba? Dimmi
la verità!” Indicai il letto, le mutandine rosse che
sembravano urlare il mio stesso tradimento. Lei si
immobilizzò, gli occhi che si riempivano di lacrime.
Poi, all’improvviso, scoppiò a piangere, un pianto
disperato che mi trafisse. Avrei voluto abbracciarla,
consolarla, ma il sospetto mi paralizzava. “Rispondimi,
Beatrice!” Gridai. “Chi ti ha dato queste cose?”
Tra i singhiozzi, lei cercò di parlare. “È… è Carlo…”
Disse, la voce tremula, evitando il mio sguardo. “Un
compagno di scuola… è benestante, dice che mi ama, che
mi vuole sexy…” Ma le sue parole si spezzarono, come se
non ci credesse nemmeno lei. Con rabbia afferrai le
mutandine rosse: “Queste te le ha regalate questo Carlo?
Ti prego non mentirmi!” Lentamente alzò gli occhi, il
volto rigato di lacrime tinte di mascara. “Mamma,
perdonami!” Cadde a terra inginocchiandosi. Insistetti:
“Bea, chi è?” Mi guardò fissa: “È Mauro il mio uomo.”
Le sue parole furono un pugno, un colpo che mi fece
barcollare. Le gambe cedettero, e mi lasciai cadere sul
letto, accanto alla lingerie che ora sembrava un’accusa.
“Cosa?!” Urlai, la voce che si spezzava in un misto di
orrore e incredulità. “Mauro? L’amico di papà?” Lei
annuì e tutto il mondo mi crollò addosso in un vortice
di immagini. Pensai al motel, alle sue mani su di me, ai
suoi regali, alle sue promesse, e ora… mia figlia.
“Da quanto va avanti? Dimmelo!” Gridai afferrandole
il braccio. Beatrice si liberò, singhiozzando, e si
voltò verso la finestra, come se non potesse sostenere
il mio sguardo. “Dal giorno dopo che è venuto a casa la
prima volta…” Confessò con la voce ridotta a un
sussurro. “Mi ha aspettata fuori da scuola, mi ha
invitata nella sua macchina… mi ha baciata.” Ogni parola
era una lama. Non riuscivo a respirare. Mauro, l’uomo
che avevo lasciato entrare nella mia vita, che
consideravo il mio salvatore era anche l’amante di mia
figlia. L’uomo che era venuto in casa mia per salvare la
mia famiglia e invece la stava distruggendo. “Ci hai
fatto l’amore?” Chiesi con la voce strozzata, temendo la
risposta. Lei abbassò lo sguardo, le spalle curve. “Una
settimana dopo il primo incontro.” Mormorò, quasi
impercettibile. “È successo… nella sua macchina, poi a
casa sua.” Ero sconvolta: “Quindi la sera quando
esci vai da lui? Dimmelo! E ci fai l’amore vestita
così?” Afferrai tutta la lingerie e la scaraventai a
terra. “A lui piace… specialmente le mutandine rosse…”
Disse quasi con orgoglio.
Il sangue mi pulsava
contro le tempie, il pavimento sembrava ondeggiare sotto
di me. Mi sembrava tutto assurdo, un incubo da cui non
riuscivo a svegliarmi. Era una ragazzina e immaginarla
vestita sexy con le stesse mie cose per il mio uomo mi
toglieva il respiro. Ma in quella assurdità, un pensiero
mi tormentava: Beatrice sapeva di me e Mauro? Dovevo
saperlo. Cercai di calmarmi. Dovevo sapere e
controllando la mia voce le chiesi: “Lui cosa ti ha
detto di me?” Beatrice si voltò, i suoi occhi pieni di
lacrime, ma anche di una determinazione che mi spaventò.
“Non lo voglio sapere!” Disse, la voce ferma nonostante
il pianto. “Lui ora è il mio uomo.” Quelle parole furono
un altro colpo. Quindi sapeva? Non era solo la certezza
di essere stata tradita da lui o di essere stata
sostituita da mia figlia, ma una serie di colpi bassi
che a fatica riuscivo ad attutire: come se mia figlia mi
stesse cancellando, come se Mauro avesse preso il mio
posto anche nel suo cuore.
Mi coprii il viso con
le mani, le lacrime che bruciavano. “È colpa mia.”
Pensai, il peso della realtà mi schiacciava: io e mia
figlia amanti dello stesso uomo, l’uomo che io avevo
portato in casa nostra. Io avevo accettato i suoi
regali, il suo letto, il suo aiuto. E ora, mia figlia
pagava il prezzo delle mie scelte. “Come ho potuto
lasciar succedere questo?” Urlai sottovoce. Non riuscivo
a guardare Beatrice, non riuscivo a muovermi. Ero
intrappolata in un incubo che avevo creato io stessa.
Il cuore mi batteva forte e con le mani tremanti
presi il telefono. Le parole di Beatrice – “È Mauro, è
lui il mio uomo” – mi risuonavano nella testa come un
incubo infinito. Non potevo aspettare, non potevo
pensare. Composi il numero di Mauro, la rabbia che mi
bruciava dentro come un fuoco. Quando rispose, la mia
voce esplose, rotta da lacrime e furia. “Sei uno
stronzo, un verme! Come hai potuto? È minorenne! La mia
bambina! La pagherai cara, ti denuncio, cazzo!” Ogni
parola era un grido, un tentativo di scacciare l’orrore
di ciò che avevo appena scoperto.
Dall’altra
parte, la sua voce era calma, quasi glaciale, come se
nulla potesse scalfirlo. “Giovanna, calmati.” Disse, con
quel tono che una volta mi rassicurava e ora mi faceva
ribollire. “Non voglio parlare al telefono. Ascolta,
incontriamoci tra un’ora al motel. Ti spiegherò tutto.”
Riattaccò prima che potessi rispondere, lasciandomi con
il telefono in mano e un vuoto che mi soffocava. Sapevo
che non c’era nulla da chiarire, nulla che potesse
giustificare ciò che aveva fatto. Eppure, una parte di
me, disperata e confusa, aveva bisogno di guardarlo
negli occhi, di capire come avesse potuto tradirmi così,
tradire Beatrice, tradire tutto. Non mi cambiai.
Indossavo ancora i jeans e la maglietta stropicciata
della mattina, i capelli raccolti in una coda
disordinata. Non volevo essere la donna che lui
desiderava, non più.
Guidai fino al motel, le
strade della Balduina sfocate dalla rabbia e dalle
lacrime. Il motel era lo stesso di sempre, ma io ero
diversa. Parcheggiai con la rabbia che mi martellava
dentro. Entrai nella stanza. Lui era lì, in piedi vicino
al letto, impeccabile nella sua camicia scura. Non gli
diedi il tempo di parlare. “Come hai potuto fare questo
a me? A Beatrice?” Urlai, avanzando verso di lui, le
mani strette a pugno. “È una bambina! E tu… tu sei un
porco, un infame!” Mi avventai contro di lui e lo colpii
con la mano aperta.
Lui non reagì, mi guardò con
quel suo sorriso che era un misto di sfida e
compassione. “Mi spiace che tu lo abbia saputo da tua
figlia. Era tempo che volevo dirtelo…” Lo guardai con
odio: “E che cazzo volevi dirmi? Che ti scopi mia
figlia? Che le fai mettere le mutandine rosse come
facevi con me? Sei un lurido porco farabutto, Mauro!”
Lui si sedette sulla sedia vicino alla finestra. “Lo
sai che non mi piace vederti così, Giovanna.” Disse
quasi come se stesse cercando di riportarmi indietro, al
tempo in cui cedevo ai suoi desideri. Mi avvicinai e
lui, allungando le mani, prese le mie. Istintivamente,
mi ritrassi, ma lui fu più rapido, stringendomi i polsi.
“Ascoltami, ti prego.” Continuò, i suoi occhi fissi nei
miei, intensi, manipolatori. “Non posso fare a meno di
Beatrice. Sto vivendo il momento più felice della mia
vita. Non ti scandalizzare, per favore. Sapevo che
avresti reagito così, ed è per questo che aspettavo a
dirtelo. Speravo che lo capissi da sola, che te ne
accorgessi. Voi due… siete due gocce d’acqua. Lei la
amo, Giovanna. E per te… sento una forte attrazione.”
Le sue parole furono come uno schiaffo umiliante in
pieno viso. Rimasi immobile, il respiro corto, il mondo
che si sgretolava intorno a me. “Tu… la ami?” Balbettai
con la voce strozzata dall’orrore. “È mia figlia, Mauro!
È minorenne! Come hai potuto solo…” Non riuscii a finire
la frase. Lui si alzò avvicinandosi, il suo viso a pochi
centimetri dal mio, il suo profumo che mi riportava a
momenti che ora mi nauseavano. “Non è come pensi.
Beatrice è speciale, come te. La amo veramente e mai le
farò del male…” Lo guardai incredula: “Mi fai schifo,
ti sei scopato madre e figlia per giunta lei è
minorenne! Ti denuncio cazzo!”
Le mie parole non
lo colpirono affatto. Sembrava assorto nei suoi
pensieri: “Giovanna è successo ed io ho solo la colpa di
non essere riuscito a resistere. Sapevo che mi stavo
mettendo in un casino enorme, ma è stato più forte di me
anche perché mi dilaniava il pensiero che quando tu
l’avresti saputo sarei stato costretto a scegliere. Ed
io non voglio scegliere, non voglio perdere nessuna di
voi due.” Tentò di baciarmi, le sue mani sui miei
fianchi, le sue labbra che sfiorarono le mie. Mi
divincolai, lo spinsi via con tutta la forza che avevo,
il petto che si alzava e abbassava per la rabbia.
“Mi fai orrore! Sei un uomo schifoso! Non toccarmi!”
Gridai, la voce che riecheggiava nella stanza vuota.
“Non ti avvicinerai mai più a lei, né a me!” Sbattei la
porta alle mie spalle. Fuori, l’aria fredda mi colpì il
viso, ma non bastò a spegnere il fuoco che mi bruciava
dentro. Salii in macchina, le mani che tremavano sul
volante, le lacrime che mi rigavano il viso. Non era
solo rabbia. Era dolore, disgusto, senso di colpa. Io
avevo aperto la porta a Mauro. Io avevo permesso che
tutto questo accadesse. E ora, mia figlia era
intrappolata nello stesso incubo che avevo creato per me
stessa. “Cosa faccio ora?” Sussurrai, la voce persa nel
buio. Roma, fuori dal finestrino, non aveva risposte.
******
Ero distrutta. Il dolore del
tradimento mi consumava, un doppio peso insopportabile:
Mauro, l’uomo a cui avevo sacrificato la mia dignità, mi
tradiva e l’altra donna era mia figlia! Ogni volta che
chiudevo gli occhi, sentivo le parole di Beatrice: “È
lui il mio uomo” e vedevo il sorriso manipolatore di
Mauro al motel. Tornai a casa con le lacrime che mi
rigavano il viso, il trucco sbavato, la gola stretta da
un nodo che non si scioglieva. Quando entrai,
Armando era seduto sul divano, la televisione che
ronzava in sottofondo. Mi guardò, il suo viso stanco
illuminato dal bagliore grigio celeste dello schermo. Mi
aspettavo una domanda, un “Cosa ti succede?”, ma lui
rimase in silenzio, gli occhi che tornavano al
televisore. Avrei voluto urlargli tutto: la verità su
Mauro, su Beatrice, sul motel. Ma le parole mi morirono
in gola. Come potevo dirgli che l’uomo che considerava
un “dono del cielo” aveva distrutto la nostra famiglia?
Per una settimana non andai al ristorante. Non
potevo guardare Mauro, non potevo respirare l’aria di
quel posto che una volta mi aveva dato speranza. Vietai
a Beatrice di usare il telefono, quello stesso iPhone
che Mauro le aveva regalato, e le proibii di vederlo.
“Non ti avvicini a lui, chiaro?” Le avevo detto, la voce
dura, mentre lei mi guardava con occhi pieni di odio. Si
chiudeva in camera sua, la porta sprangata, il silenzio
tra noi più pesante di qualsiasi parola. La mattina
l’accompagnavo a scuola e il pomeriggio andavo a
riprenderla.
Armando, da quando non vedeva il
suo presunto amico, si era ritirato di nuovo nel il suo
mondo di ombre e depressione. Non usciva più. Una sera,
mentre lavavo i piatti, mi affrontò. “Tu hai un
carattere schifoso, Giovanna.” Disse con la voce carica
di amarezza. “Mauro era un tesoro, e tu l’hai mandato
via. Sempre così rigida, sempre a fare di testa tua.
Solo io ho avuto la pazienza di sopportarti.” Le sue
parole, ignare di tutte le verità, mi ferirono come
coltelli. Non sapeva nulla, ma mi accusava, come se
fossi io la causa di tutto. Gli risposi: “Ma tu che ne
sai di me, della mia vita fuori di qui? Mi ammazzo di
lavoro tutto il giorno, come puoi giudicarmi?” Lui senza
parlare, si alzò e andò a letto. Tra noi due non ci
sarebbe mai stato un confronto schietto, lo sapevo, del
resto anche lui aveva paura della verità.
Mauro,
invece, non si arrendeva. Il mio telefono squillava di
continuo, i suoi messaggi e chiamate un assedio che non
potevo ignorare. “Giovanna, lascia che veda Beatrice.”
Diceva e scriveva. “E poi tu torna, il lavoro ti aspetta
e tu mi manchi tanto. Ho detto al personale che sei
malata, ma torna, non buttare tutto via!” Lo ignoravo,
ma ogni sua parola mi faceva sentire impotente. Una
sera, cedetti e risposi con la rabbia che mi ribolliva
dentro. “Come osi? Dopo quello che hai fatto?” Lui non
si scompose. “Sono sincero, Giovanna.” Disse quasi
supplicante. “Mettimi alla prova. Quello che provo per
Beatrice è amore vero, genuino. Ma ti prego, non ti
sentire tradita. Non può una madre provare gelosia per
sua figlia. Devi essere orgogliosa, no? Mi dicevi che
tutto quello che facevi era per lei. Non essere egoista,
lasciale vivere la sua vita. Lei mi vuole e anch’io la
desidero.”
Le sue parole mi lasciarono senza
fiato. Era come se stesse rigirando il coltello, usando
il mio stesso sacrificio contro di me. “Tu sei malato,
ti devi far curare! Come puoi definirlo puro se desideri
sia me che lei?” Sibilai. “Non ti avvicinerai mai più a
lei, né a me.” Lui sempre più calmo mi rispose: “È
proprio questo che ti dovrebbe far pensare, con lei non
è sesso, non è passione, ma sentimento. Non posso dire
che è un amore paterno, questo no, ma è la curiosità, la
bellezza di vederla crescere, di sentirmi un punto di
riferimento importante per lei. Con te è diverso, tu sei
la donna che tutti desidererebbero avere nel proprio
letto. Mi capisci?” No, non capivo e allora
riattaccai, ma le sue parole continuavano a tormentarmi,
un veleno che si insinuava nei miei pensieri. Ero
egoista a voler proteggere Beatrice? O era lui che mi
stava manipolando, ancora una volta?
L’unica in
quel contesto ad essere pura era mia figlia. Se ne era
innamorata chissà forse vedendo in lui quell’uomo buono
che aveva ingannato anche me e ora, non conoscendo tutta
la verità, considerava sua madre una donna cattiva che
le impediva di essere felice. Passavo le serate da
sola al tavolo della sala da pranzo, con le porte delle
camere di Beatrice e Armando sprangate, come muri che mi
escludevano. La casa, un tempo un rifugio, era diventata
una prigione. Mi ripetevo: “Dove ho sbagliato?” Certo,
la situazione si stava aggravando, non volevo tornare al
ristorante, ma come avrei vissuto? Senza lavoro e senza
soldi e a breve avrei dovuto pagare la retta di Beatrice
e presto avrei dovuto affrontare Armando. Mi chiedevo se
ci fosse una via d’uscita. Pensai di tornare allo studio
dentistico, ma mi avrebbero ripresa? Una parte di me,
disperata e stanca, pensava addirittura di perdonare
Mauro, se si fosse pentito, se avesse promesso di
lasciare in pace Beatrice, forse avrei dimenticato,
sarei tornata indietro, al ristorante, al motel, al suo
letto, per salvare ciò che restava della mia famiglia.
Ma lui non si pentiva. Le sue parole – “amore vero” –
erano un’ulteriore beffa.
Mi guardavo allo
specchio, il viso scavato, le occhiaie che raccontavano
notti insonni. “Chi sei diventata, Giovanna?”
Sussurravo, ma non avevo risposte. La foto di Beatrice
sul frigo, il suo sorriso di un tempo, era un’accusa.
Avevo fatto tutto per lei, per la nostra famiglia, ma
ora ero sola, intrappolata in un incubo che avevo creato
io stessa. Mi chiesi più volte se altre donne avessero
mai vissuto il mio strazio e come si fossero comportate.
Non lo sapevo, ma ero certa di vivere una storia
sbagliata, incredibile, sporca e il destino aveva scelto
me tra le tante! Eppure, una parte di me si chiedeva se
ci fosse ancora una via d’uscita. Potevo denunciare
Mauro, raccontare tutto ad Armando, strappare Beatrice
da lui. Ma poi? Senza il ristorante, senza i soldi, cosa
sarebbe stato di noi?
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è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale. IMMAGINE GENERATA DA
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