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RACCONTO

Adamo Bencivenga
LA
STORIA DI GIOVANNA 4
“Mi chiesi più volte
se altre donne avessero mai vissuto il mio strazio e
come si fossero comportate. Non lo sapevo, ma ero
certa di vivere una storia sbagliata, incredibile,
sporca e il destino aveva scelto me tra le tante!”

Dopo giorni di tormenti e
notti insonni, ero diventata l’ombra di me stessa e
quella di Beatrice che seguivo passo passo senza farmi
vedere nel tragitto da casa a scuola e viceversa. Ogni
sera, sola al tavolo della sala da pranzo, fissavo le
bollette. I silenzi di Armando e le accuse implicite di
mia figlia pesavano come macigni. Non potevo più
continuare così. Dovevo agire, fare qualsiasi cosa per
salvare ciò che restava di noi. Fu allora che, in un
momento di disperazione mista a un pragmatismo che non
mi riconoscevo, presi il telefono. Le mani tremavano, ma
la mia voce era dura e determinata. “Mauro.” Dissi,
senza dargli il tempo di parlare. “Mi hai detto che
tieni a mia figlia come un padre e allora se vuoi che io
torni, intesta metà dell’attività e del ristorante a
Beatrice.” Poi aggiunsi: “Non è una questione di soldi,
mia figlia non si compra, ma voglio vedere quanto tieni
a lei. Prendere o lasciare.”
Ci fu un silenzio
dall’altra parte, così lungo che sentii il mio cuore
accelerare. Poi, Mauro parlò con la voce quasi
incredula. “Sei seria, Giovanna?” Chiese, con un tono
che tradiva un misto di sorpresa e cautela. “Certo che
sono seria.” Risposi, stringendo il telefono come se
fosse l’ultima ancora di salvezza. “Prendere o lasciare.
Se accetti, potrai rivedere Bea ed io torno a lavorare
da te. Altrimenti, è finita. Quindi pensaci e fammi
sapere!” Riattaccai, il respiro corto, il petto stretto
da un misto di paura e determinazione. Sapevo cosa stavo
chiedendo: il ristorante era una miniera d’oro. Solo
pochi mesi prima, una multinazionale americana aveva
offerto oltre un milione e mezzo di euro per rilevarlo.
Intestare metà dell’attività a Beatrice non era una
proposta da poco, e Mauro lo sapeva.
Nel
frattempo, cercavo di gestire Beatrice. Era ancora
chiusa nel suo silenzio, il suo odio verso di me era
palpabile ogni volta che ci incrociavamo in casa. “Bea,
non sono una madre cattiva, sto solo pensando al tuo
bene e al tuo futuro.” Le dissi una sera, mentre
sparecchiava i piatti della cena con movimenti bruschi e
svogliati. “Spero che capirai i dubbi di una madre, lui
ha quasi il triplo dei tuoi anni! Fidati di me, sto
cercando di fare la cosa giusta.” Lei mi guardò, gli
occhi pieni di diffidenza, ma non rispose. Sapevo che
non mi credeva, che il suo cuore era legato a Mauro, ai
suoi regali, al suo “amore”. Ma non potevo dirle la
verità, non ancora. Ogni parola era un passo su un filo
sospeso, e io non potevo permettermi di cadere.
Due giorni dopo, Mauro mi richiamò. Ero in cucina. Non
si perse in preamboli: “Va bene, Giovanna, hai vinto!”
Mi disse, la voce calma, ma carica di un’intenzione che
mi fece rabbrividire. “Intesterò metà dell’attività a
Beatrice. Ma a una condizione: voglio entrambe.” Le sue
parole furono come un pugno. Il sangue mi salì alla
testa, la rabbia che esplodeva. “Devi scegliere tra me e
lei!” Urlai con la voce rotta dalla rabbia. “Non puoi
averci entrambe, sei un mostro!” Riattaccai, il telefono
che tremava nelle mie mani, le lacrime che mi bruciavano
gli occhi. Come poteva essere così spudorato? Come
poteva pensare che avrei accettato una cosa del genere?
Ma quella notte, sola nella mia stanza, il buio mi
avvolse insieme ai dubbi. E se avessi perso tutto? Le
parole di Armando mi tormentavano: “Tu hai un carattere
schifoso, sono io che ho avuto la pazienza di
sopportarti.” Per Mauro sembrava tutto così semplice,
normale addirittura puro, lui non si vergognava affatto,
ma come era possibile? Ero solo io che ci vedevo del
marcio? Che mi stavo aggrappando ad una morale vecchia
rifiutando il benessere di mia figlia?
Le
bollette sul tavolo in cucina, la retta di Beatrice in
ritardo, la casa che rischiavamo di perdere: tutto mi
schiacciava. Pensai a Beatrice, al suo futuro, a quello
che potevo ancora salvarle. Mi chiesi quanto avrei
potuto ancora tenerla al guinzaglio. Tra non molto
avrebbe compiuto diciotto anni ed i miei sforzi
sarebbero stati vani. Pensai a Mauro, al suo potere, al
suo denaro, alla sua capacità di tenere insieme i pezzi
della mia vita. Mi odiavo per ciò che stavo
considerando, ma la disperazione era più forte del
disgusto. Il giorno dopo, con il cuore pesante come
piombo, richiamai Mauro. “Ok.” Dissi con la voce ridotta
a un sussurro. “Per il bene di mia figlia, accetto.”
Silenzio. Per alcuni istanti non parlammo e in quel
silenzio sentii chiaramente tutti i compromessi che
stavo accettando e che mi avrebbero distrutto l’anima.
Alla fine Mauro parlò ignorando completamente la mia
disperazione. Il suo tono era soddisfatto, gioioso,
quasi trionfante. “Lo sapevo, Giovanna. Tu sei una donna
intelligente. Non te ne pentirai di questa decisione.”
Poi mi chiese di rivedere Beatrice il giorno dopo ed io
accettai. Mentre riattaccavo, sentii un vuoto crescermi
dentro. Mi guardai allo specchio, il viso scavato, gli
occhi spenti. “Cosa sto facendo?” Avevo fatto un patto
con il diavolo, non per me, ma per Beatrice. Ma a che
prezzo? La mia anima era già in frantumi, e la mia
famiglia, che avevo giurato di proteggere, sembrava più
lontana che mai. Subito dopo andai nella stanza di
Beatrice e le restituii il telefono. Lei mi guardò e
sorrise, non ci fu bisogno di parole…
La mattina
successiva il sole filtrava attraverso le tende della
cucina. Ero in piedi appoggiata al lavandino, una tazza
di caffè freddo tra le mani, quando sentii i passi di
Beatrice andare in bagno. La seguii. indossava una gonna
corta a pieghe nera, una camicetta bianca che le
scivolava appena sulle spalle, le calze velate nere, i
capelli sciolti che le incorniciavano il viso. Era
radiosa, allegra con gli occhi che brillavano di
un’energia che mi trafisse. Mi ricordava me stessa
quando mi preparavo per incontrare Mauro. La stessa
frenesia, lo stesso desiderio di piacere, lo stesso
profumo dolce che ora impregnava l’aria. Mi guardava
attraverso lo specchio, truccandosi con cura, proprio
come facevo io, e canticchiava una canzone che non
conoscevo. Era bellissima, e quella bellezza mi spezzava
il cuore.
“Vai da lui, vero?” Chiesi. Lei annuì
guardandomi mentre si spalmava un rossetto rosso sulle
labbra. “Sì, mamma. Mi ha invitata a pranzo fuori al
mare.” La sua voce era leggera, come se stesse parlando
di un ragazzo della sua età, non di un uomo che avrebbe
potuto essere suo padre. Mi avvicinai, sistemandole una
ciocca di capelli ribelle. “Bea, sei sicura di quello
che fai?” Domandai, cercando i suoi occhi. Lei si fermò,
il rossetto sospeso a mezz’aria, e per un istante vidi
un’ombra di dubbio attraversarle il viso. Poi sorrise,
un sorriso che era insieme dolce e determinato. “Sì,
mamma. Lo amo. E lui ama me. Non devi preoccuparti.” Le
sue parole erano un coltello, ma il suo sorriso, così
puro, così pieno di speranza, mi fece quasi cedere. Era
felice, e quella felicità mi straziava.
Mi
appoggiai al muro, le braccia incrociate per nascondere
il tremore. Ricordavo me stessa, in piedi davanti a
quello stesso specchio, a scegliere con cura cosa
indossare per Mauro, a sentirmi viva sotto il suo
sguardo. Ora, guardavo mia figlia fare lo stesso, e ogni
gesto era un’eco del mio passato, un riflesso di ciò che
ero stata. Ma lei era così giovane, così indifesa, e io
stavo permettendo che un uomo con il triplo dei suoi
anni la portasse via. Mi chiesi se sotto quella gonna
avesse indossato le mutandine rosse. Il peso della mia
decisione mi schiacciava. Avevo accettato il patto con
Mauro per garantirle un futuro, per darle la sicurezza
economica che il ristorante avrebbe rappresentato, ma a
che costo? Stavo sacrificando la sua innocenza, il suo
diritto a una vita normale, per salvarla da un destino
di povertà? O stavo solo giustificando la mia incapacità
di oppormi a Mauro, di tagliare i ponti per sempre?
Bea mi salutò baciandomi e stringendomi forte. Ero
nervosa e per non insospettire Armano decisi di uscire.
Non potevo restare in casa. L’idea di sapere che
Beatrice era con lui, di immaginarla ridere, parlare e
quant’altro mi faceva impazzire. Era evidente che il
pranzo al mare era solo la prima tappa! Presi la borsa,
infilai le scarpe da ginnastica e uscii. Roma mi accolse
con il suo caos familiare: il rumore dei clacson, il
profumo di caffè che usciva dai bar, i turisti che
affollavano le strade intorno a Piazza di Spagna.
Camminai senza meta, i piedi che battevano sull’asfalto,
come se ogni passo potesse allontanarmi dai miei
pensieri. Attraversai il Tevere, il fiume che
rispecchiava il sole di mezzogiorno, e mi ritrovai a
Trastevere, tra i vicoli stretti e i panni stesi alle
finestre. Qui, tra i ristoranti affollati e le
risate dei passanti, cercai di perdermi, di dimenticare.
Ma ogni angolo di Roma sembrava ricordarmi qualcosa: la
gelateria dove avevo portato Beatrice da bambina, il
primo mio bacio dato ad un coetaneo, le passeggiate
spensierate con le mie amiche. In quel momento ogni
ricordo mi feriva.
Camminai per ore, il sudore
che mi scivolava lungo la schiena, le gambe pesanti, ma
la mente che non trovava pace. Pensavo a Beatrice, a
come il suo viso si era illuminato mentre si preparava.
Era felice, sì, ma era una felicità che mi terrorizzava.
Mauro era un manipolatore, lo sapevo fin troppo bene,
eppure lei lo vedeva come il suo salvatore, il suo
amore. E io, io che avevo aperto la porta a quell’uomo,
ero diventata complice di questa follia. Mi fermai in
Piazza Santa Maria in Trastevere, sedendomi sui gradini
della fontana. Intorno a me, la vita continuava: coppie
che si tenevano per mano, bambini che correvano, un
musicista di strada che suonava il suo sax. Ma io mi
sentivo fuori posto, come se fossi intrappolata in un
incubo che nessuno poteva vedere. Chiusi gli occhi, il
rumore della fontana che mi avvolgeva, e per un istante
desiderai di poter tornare indietro, a quando Beatrice
era solo una bambina che mi teneva per mano, a quando
Mauro non esisteva nella nostra vita.
Quando
tornai a casa era già sera, ero esausta, la gola secca e
il cuore pesante. La porta d’ingresso era socchiusa, e
il suono della voce di Beatrice mi accolse prima ancora
che entrassi. Era in cucina, stava parlando al telefono,
ridendo piano. Quando mi vide, il suo sorriso si
allargò. “Mamma, sei tornata!” Disse, chiudendo la
chiamata. Indossava ancora la camicetta bianca, ma ora
aveva un’aria diversa, più sicura, più adulta. Mi
avvicinai, posando la borsa sul tavolo, cercando di
nascondere il tumulto dentro di me. “Com’è andata, Bea?”
Chiesi, la voce che suonava vuota persino alle mie
orecchie. Lei si sedette, incrociando le gambe con
un’eleganza che non le avevo mai visto. “Siamo andati a
Ostia, abbiamo mangiato pesce in un posto bellissimo
vicino al mare. Mauro è stato così dolce, mi ha
raccontato un sacco di cose sul ristorante, su come
vuole espanderlo. Dice che un giorno potrei aiutarlo a
gestirlo, ma prima devo studiare.” I suoi occhi
brillavano, e ogni parola era carica di un entusiasmo
che mi spezzava. Mi sedetti di fronte a lei, cercando di
mantenere la calma. “E… cos’altro avete fatto?” Chiesi,
temendo la risposta, ma incapace di non farla.
Beatrice alzò le spalle, un gesto che sembrava troppo
maturo per lei. “Abbiamo passeggiato, parlato. Mi ha
fatto sentire speciale, mamma. E poi mi ha detto che non
devo avercela con te. Tu sei mia madre e pensi al mio
bene.” Poi, con un sorriso che mi trafisse, aggiunse:
“Mi ha dato questo.” Tirò fuori dalla borsa una
scatolina di velluto e la aprì. Dentro brillava un
braccialetto d’oro con un piccolo ciondolo a forma di
cuore. “Ha detto che è un pegno del suo amore.” Le sue
parole erano così sicure, così convinte, che per un
momento mi sembrò di vedere una donna, non la mia
bambina.
Mi morsi il labbro, il dolore che mi
esplodeva nel petto. “Vi siete baciati, insomma avete
fatto…” Non riuscii a finire la frase. Lei mi guardò,
sorpresa, poi rise piano, come se la mia domanda fosse
assurda. “Mamma, smettila di preoccuparti. So quello che
faccio e poi Mauro mi rispetta, mi ama. Non è solo…
quello.” Ma il modo in cui evitò il mio sguardo, il
leggero rossore sulle sue guance, mi disse più di quanto
volessi sapere. Mi alzai, incapace di restare seduta, e
andai verso il lavandino, fingendo di lavare una tazza.
“Sono contenta che tu sia felice.” Mentii, la voce
strozzata. “Ma devi essere prudente, Bea. Promettimelo.”
Lei si alzò, avvicinandosi a me, e per la prima volta
dopo settimane mi strinse forte. “Lo sono, mamma. Fidati
di me.” Il suo abbraccio era caldo, sincero, ma io mi
sentivo gelare. Mentre la stringevo, vedevo il riflesso
di noi due nella finestra della cucina, due donne unite
da un amore profondo, ma divise da un uomo che ci aveva
spezzate. La sua felicità era un coltello nel mio cuore,
perché sapevo che il prezzo di quella gioia era un
compromesso che mi avrebbe perseguitata per sempre.
Quella notte, mentre Roma dormiva, rimasi sveglia.
Avevo permesso a Beatrice di andare da Mauro, di vivere
il suo “amore”, per garantirle un futuro. Ma guardandola
così felice, così simile a me, non potevo fare a meno di
chiedermi se l’avessi salvata o condannata. E mentre le
lacrime mi rigavano il viso, silenziosamente, capii che
non avrei mai avuto una risposta.
******
Una settimana dopo, incontrai Mauro al motel.
L’aria odorava di incontri clandestini e amore a
pagamento, un promemoria di ogni compromesso che avevo
fatto. Mauro era lì, seduto su una sedia accanto a una
scrivania improvvisata, con una cartellina gialla di
documenti davanti a sé. Quando vidi il nome di Beatrice
scritto in cima a quelle carte – “Beatrice, erede del
50% del ristorante” – il mio cuore si strinse. Un’ondata
di emozioni mi travolse. Mi tremarono le gambe: mia
figlia avrebbe avuto una vita meno dura della mia anche
se quel foglio rappresentava la prova del prezzo che
avevo pagato e la vergogna, per ciò che ero diventata.
“Ce l’ho fatta.” Pensai, sedendomi sul bordo del
letto per nascondere il tremore. “Almeno lei sarà al
sicuro.” Mauro mi guardò, il suo sorriso caldo ma carico
di quella sfumatura manipolatoria che ormai conoscevo
fin troppo bene. “Giovanna.” Disse. “Tua figlia avrà
quello che mi hai chiesto. Metà del ristorante è suo. Ma
non voglio rinunciare a te.” Fece una pausa, i suoi
occhi che scivolavano su di me, come se stesse cercando
qualcosa. “Hai messo le mutandine rosse?” Quelle parole
mi colpirono come un pugno. Le avevo indossate, sì, come
un riflesso condizionato, un’ulteriore resa al suo
gioco. Il pizzo mi pizzicava la pelle sotto i jeans, a
tutti gli effetti una nota della mia debolezza. Pensai
all’incontro di lui con Beatrice, tutte e due con le
mutandine rosse! “Facciamo in modo che sia ufficiale.”
Dissi, la voce fredda, cercando di mantenere il
controllo. “Per Beatrice.” Aggiunsi.
Il suo
sorriso si allargò, un ghigno che diceva che aveva
vinto, ancora una volta. Fece un passo avanti, le sue
mani che sfioravano i miei fianchi, e io non mi opposi.
Forse era la stanchezza, la disperazione, il peso di
sapere che senza di lui non avrei avuto nulla, né soldi,
né futuro per Beatrice. In quel momento, mentre le sue
dita slacciavano i miei jeans, mi resi conto dell’abisso
in cui ero caduta. Stavo tradendo non solo Armando,
chiuso nella sua stanza, ignaro di tutto, ma anche
Beatrice, mia figlia, la ragazza che avevo giurato di
proteggere. Ogni tocco di Mauro era un tradimento, una
pugnalata al cuore di ciò che restava di me.
Cercai di allontanarlo. “Non ce la faccio, penso a te e
a Beatrice. Dove siete andati dopo Ostia? Avete fatto
l’amore?” Lui scosse la testa. “Perché fai così,
Giovanna? Lasciati andare… in fin dei conti hai ottenuto
quello che volevi…” Disse mentre mi spogliava con una
lentezza che sembrava voler prolungare il mio tormento.
“Non vuoi questo? Non vuoi che siamo una famiglia?” Le
sue mani si fermarono sul pizzo rosso, un sorriso
compiaciuto che mi fece venir voglia di urlare.
“Smettila.” Sussurrai, ma la mia voce era debole, priva
di forza. Non mi opposi. Il mio corpo era lì, ma la mia
mente era altrove, intrappolata in un vortice di
disgusto e senso di colpa. Pensai a Beatrice, al suo
affetto per quell’uomo che ora mi stava spogliando,
sapevo che ogni gesto, ogni respiro, era un altro pezzo
di me che si sgretolava. Mi disse di voltarmi e subito
dopo lo sentii scivolare nella mia intimità. Non riuscii
a non pensare a me e a Beatrice nella stessa posizione
con le stesse mutandine rosse e lui trionfante che
godeva del suo potere.
Urlai: “L’ha presa così?”
E subito dopo: “Dimmi cosa provi?” Lui preso dalla
passione non rispose ed io insistetti: “Lo voglio
sapere, dimmelo!” A quel punto sussurrò: “Tesoro, siete
diverse, lei è nel fiore dei suoi anni e tu nel pieno
della tua femminilità, ma io provo la stessa intensità,
te lo giuro!” Ero al culmine dell’orgasmo, piacere e
dolore misto a rabbia e istintivamente pronunciai la
frase che mai avrei voluto dire: “Cazzo, dimmelo, chi
preferisci?” Lui non rispose e in quel silenzio, mentre
mi abbandonavo al piacere, sentii tutta la sua vittoria:
stavo rivaleggiando con mia figlia e lui aveva fatto in
modo di metterci in competizione!
Quando finì, mi
rivestii in silenzio, il rumore della cerniera dei jeans
che sembrava assordante nella stanza. Mauro si appoggiò
al letto, accendendo una sigaretta, il fumo che si
mescolava all’odore stantio del motel. “Non fare quella
faccia, Giovanna.” Disse, soffiando una nuvola di fumo.
“Abbiamo fatto la cosa giusta per Beatrice. E per noi.”
Non risposi. Presi la cartellina con i documenti e
uscii, sbattendo la porta. Mi vergognavo di me stessa,
per quello che gli avevo chiesto: “Nessuno mai mi
avrebbe divisa da mia figlia!” Pensai scendendo le
scale. Mi fermai accanto alla macchina, le mani che
tremavano, le lacrime che scorrevano silenziose. “Per
Beatrice.” Sussurrai, ma quelle parole erano vuote.
Avevo dato a mia figlia un futuro, ma a costo di
tradirla con lo stesso uomo che l’aveva sedotta. E in
quel momento, sotto il bagliore dei lampioni, mi sentii
più sola che mai.
******
Un mese dopo,
esattamente il giorno del compleanno di Beatrice, ci
ritrovammo nello studio di un notaio, un ufficio
elegante nel cuore di Roma, con pareti di mogano e il
rumore attutito del traffico di Piazza Mazzini che
filtrava dalle finestre. Beatrice era accanto a me, il
suo viso pallido, le mani che tremavano mentre stringeva
una penna. Il notaio lesse l’atto, le parole che
sancivano il trasferimento del 50% del ristorante a mia
figlia risuonavano nella stanza come una promessa e una
condanna. E quando Beatrice firmò, non mi sentii
sollevata sapendo che quello era il prezzo della mia
anima. Dopo la firma, Beatrice si voltò verso di me, i
suoi occhi cercarono i miei, pieni di un’emozione. Mi
strinse forte, con il suo corpo esile che tremava contro
il mio. “Grazie, mamma.” In quel momento, capii che
aveva compreso, almeno in parte, ciò che avevo fatto per
lei. Non il tradimento, non il motel, non le mutandine
rosse, ma il sacrificio. Era felice, o almeno sollevata,
e per un istante mi sentii meno sola. Ma subito dopo si
voltò verso Mauro e lo baciò in bocca. Sprofondai.
Mi alzai e lasciai lo studio, Mauro e Beatrice
ancora dentro, intenti a parlare con il notaio. Non
potevo restare. Salii in macchina, le strade di Roma che
si snodavano davanti a me, la cupola di San Pietro
illuminata in lontananza.
Tornai a casa, dove
Armando era chiuso nella sua stanza, ignaro di tutto. Mi
sedetti al tavolo della cucina, la foto di Beatrice sul
frigo che mi guardava con quel sorriso di bambina che
sembrava appartenere a un’altra vita. Avevo dato a
Beatrice un pezzo di quel ristorante che valeva milioni,
una sicurezza che io non avevo mai avuto. Ogni fibra di
me cercava di convincermi che avevo fatto l’unica cosa
possibile, l’unico modo per tenere insieme i pezzi della
mia casa. Ma la verità mi schiacciava: per salvare
Beatrice, l’avevo tradita. Avevo accettato di
condividere lo stesso uomo che aveva preso tutto da me:
la mia dignità, la mia anima e ora anche mia figlia.
Andai in camera e mi spogliai guardandomi allo
specchio con quelle mutandine rosse che erano diventate
la mia seconda pelle, il sigillo di un patto infernale.
“Per Beatrice” Mi ripetevo, come un mantra che avrebbe
dovuto darmi pace. Ma non c’era pace. Come potevo essere
scesa così in basso? Come potevo aver accettato di
tornare da lui, sapendo che era l’amante di mia figlia?
Il pensiero mi faceva venire la nausea, un nodo che mi
stringeva la gola. Ero sua madre, avrei dovuto
proteggerla, tenerla lontana da lui. Invece, l’avevo
consegnata a Mauro, come un’offerta sacrificale, pur di
garantirle quel maledetto ristorante.
Eppure, una
parte di me si aggrappava a quella firma, a quell’atto
notarile che dava a Beatrice una via d’uscita, un futuro
che non dipendesse dalle bollette, dalla depressione di
Armando, dai miei errori. Quando mi aveva abbracciata
nello studio del notaio, il suo “Grazie, mamma” era
stato un raggio di luce in questo buio. Ma anche quel
momento era macchiato. Del resto Beatrice non conosceva
tutta la verità, non sapeva che sua madre si era piegata
allo stesso uomo che lei chiamava “il mio uomo”. Il
pensiero che un giorno potesse scoprirlo mi
terrorizzava. E se mi avesse odiata ancora di più? E se
quel futuro che le avevo dato fosse stato solo un altro
modo di incatenarla a Mauro, proprio come lo ero io?
Mi alzai, camminai avanti e indietro per casa. Mi
fermai davanti al piccolo specchio appeso al muro in
corridoio. Il mio riflesso era quello di una sconosciuta
con l’espressione di chi aveva perso se stessa. Avevo
fatto tutto per Beatrice, per Armando, per questa casa.
Ma il prezzo era troppo alto. Avevo tradito mia figlia
non solo con il mio silenzio, ma con il mio corpo,
tornando da Mauro, indossando quelle mutandine rosse,
accettando il suo gioco perverso. Ogni bacio, ogni
tocco, era un tradimento, non solo verso di lei, ma
verso la donna che ero stata.
Fuori, Roma
continuava a vivere, indifferente, con i suoi rumori e
le sue luci, ma dentro di me c’era solo silenzio.
|
FINE
Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale. IMMAGINE GENERATA DA
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