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RACCONTO
 
Adamo Bencivenga
LA STORIA DI GIOVANNA 4
“Mi chiesi più volte se altre donne avessero mai vissuto il mio strazio e come si fossero comportate. Non lo sapevo, ma ero certa di vivere una storia sbagliata, incredibile, sporca e il destino aveva scelto me tra le tante!”
 


 

 
Dopo giorni di tormenti e notti insonni, ero diventata l’ombra di me stessa e quella di Beatrice che seguivo passo passo senza farmi vedere nel tragitto da casa a scuola e viceversa. Ogni sera, sola al tavolo della sala da pranzo, fissavo le bollette. I silenzi di Armando e le accuse implicite di mia figlia pesavano come macigni. Non potevo più continuare così. Dovevo agire, fare qualsiasi cosa per salvare ciò che restava di noi.
Fu allora che, in un momento di disperazione mista a un pragmatismo che non mi riconoscevo, presi il telefono. Le mani tremavano, ma la mia voce era dura e determinata. “Mauro.” Dissi, senza dargli il tempo di parlare. “Mi hai detto che tieni a mia figlia come un padre e allora se vuoi che io torni, intesta metà dell’attività e del ristorante a Beatrice.” Poi aggiunsi: “Non è una questione di soldi, mia figlia non si compra, ma voglio vedere quanto tieni a lei. Prendere o lasciare.”

Ci fu un silenzio dall’altra parte, così lungo che sentii il mio cuore accelerare. Poi, Mauro parlò con la voce quasi incredula. “Sei seria, Giovanna?” Chiese, con un tono che tradiva un misto di sorpresa e cautela. “Certo che sono seria.” Risposi, stringendo il telefono come se fosse l’ultima ancora di salvezza. “Prendere o lasciare. Se accetti, potrai rivedere Bea ed io torno a lavorare da te. Altrimenti, è finita. Quindi pensaci e fammi sapere!” Riattaccai, il respiro corto, il petto stretto da un misto di paura e determinazione. Sapevo cosa stavo chiedendo: il ristorante era una miniera d’oro. Solo pochi mesi prima, una multinazionale americana aveva offerto oltre un milione e mezzo di euro per rilevarlo. Intestare metà dell’attività a Beatrice non era una proposta da poco, e Mauro lo sapeva.

Nel frattempo, cercavo di gestire Beatrice. Era ancora chiusa nel suo silenzio, il suo odio verso di me era palpabile ogni volta che ci incrociavamo in casa. “Bea, non sono una madre cattiva, sto solo pensando al tuo bene e al tuo futuro.” Le dissi una sera, mentre sparecchiava i piatti della cena con movimenti bruschi e svogliati. “Spero che capirai i dubbi di una madre, lui ha quasi il triplo dei tuoi anni! Fidati di me, sto cercando di fare la cosa giusta.” Lei mi guardò, gli occhi pieni di diffidenza, ma non rispose. Sapevo che non mi credeva, che il suo cuore era legato a Mauro, ai suoi regali, al suo “amore”. Ma non potevo dirle la verità, non ancora. Ogni parola era un passo su un filo sospeso, e io non potevo permettermi di cadere.

Due giorni dopo, Mauro mi richiamò. Ero in cucina. Non si perse in preamboli: “Va bene, Giovanna, hai vinto!” Mi disse, la voce calma, ma carica di un’intenzione che mi fece rabbrividire. “Intesterò metà dell’attività a Beatrice. Ma a una condizione: voglio entrambe.” Le sue parole furono come un pugno. Il sangue mi salì alla testa, la rabbia che esplodeva. “Devi scegliere tra me e lei!” Urlai con la voce rotta dalla rabbia. “Non puoi averci entrambe, sei un mostro!” Riattaccai, il telefono che tremava nelle mie mani, le lacrime che mi bruciavano gli occhi. Come poteva essere così spudorato? Come poteva pensare che avrei accettato una cosa del genere?

Ma quella notte, sola nella mia stanza, il buio mi avvolse insieme ai dubbi. E se avessi perso tutto? Le parole di Armando mi tormentavano: “Tu hai un carattere schifoso, sono io che ho avuto la pazienza di sopportarti.” Per Mauro sembrava tutto così semplice, normale addirittura puro, lui non si vergognava affatto, ma come era possibile? Ero solo io che ci vedevo del marcio? Che mi stavo aggrappando ad una morale vecchia rifiutando il benessere di mia figlia?

Le bollette sul tavolo in cucina, la retta di Beatrice in ritardo, la casa che rischiavamo di perdere: tutto mi schiacciava. Pensai a Beatrice, al suo futuro, a quello che potevo ancora salvarle. Mi chiesi quanto avrei potuto ancora tenerla al guinzaglio. Tra non molto avrebbe compiuto diciotto anni ed i miei sforzi sarebbero stati vani. Pensai a Mauro, al suo potere, al suo denaro, alla sua capacità di tenere insieme i pezzi della mia vita. Mi odiavo per ciò che stavo considerando, ma la disperazione era più forte del disgusto. Il giorno dopo, con il cuore pesante come piombo, richiamai Mauro. “Ok.” Dissi con la voce ridotta a un sussurro. “Per il bene di mia figlia, accetto.”

Silenzio. Per alcuni istanti non parlammo e in quel silenzio sentii chiaramente tutti i compromessi che stavo accettando e che mi avrebbero distrutto l’anima. Alla fine Mauro parlò ignorando completamente la mia disperazione. Il suo tono era soddisfatto, gioioso, quasi trionfante. “Lo sapevo, Giovanna. Tu sei una donna intelligente. Non te ne pentirai di questa decisione.” Poi mi chiese di rivedere Beatrice il giorno dopo ed io accettai. Mentre riattaccavo, sentii un vuoto crescermi dentro. Mi guardai allo specchio, il viso scavato, gli occhi spenti. “Cosa sto facendo?” Avevo fatto un patto con il diavolo, non per me, ma per Beatrice. Ma a che prezzo? La mia anima era già in frantumi, e la mia famiglia, che avevo giurato di proteggere, sembrava più lontana che mai. Subito dopo andai nella stanza di Beatrice e le restituii il telefono. Lei mi guardò e sorrise, non ci fu bisogno di parole…

La mattina successiva il sole filtrava attraverso le tende della cucina. Ero in piedi appoggiata al lavandino, una tazza di caffè freddo tra le mani, quando sentii i passi di Beatrice andare in bagno. La seguii. indossava una gonna corta a pieghe nera, una camicetta bianca che le scivolava appena sulle spalle, le calze velate nere, i capelli sciolti che le incorniciavano il viso. Era radiosa, allegra con gli occhi che brillavano di un’energia che mi trafisse. Mi ricordava me stessa quando mi preparavo per incontrare Mauro. La stessa frenesia, lo stesso desiderio di piacere, lo stesso profumo dolce che ora impregnava l’aria. Mi guardava attraverso lo specchio, truccandosi con cura, proprio come facevo io, e canticchiava una canzone che non conoscevo. Era bellissima, e quella bellezza mi spezzava il cuore.

“Vai da lui, vero?” Chiesi. Lei annuì guardandomi mentre si spalmava un rossetto rosso sulle labbra. “Sì, mamma. Mi ha invitata a pranzo fuori al mare.” La sua voce era leggera, come se stesse parlando di un ragazzo della sua età, non di un uomo che avrebbe potuto essere suo padre. Mi avvicinai, sistemandole una ciocca di capelli ribelle. “Bea, sei sicura di quello che fai?” Domandai, cercando i suoi occhi. Lei si fermò, il rossetto sospeso a mezz’aria, e per un istante vidi un’ombra di dubbio attraversarle il viso. Poi sorrise, un sorriso che era insieme dolce e determinato. “Sì, mamma. Lo amo. E lui ama me. Non devi preoccuparti.” Le sue parole erano un coltello, ma il suo sorriso, così puro, così pieno di speranza, mi fece quasi cedere. Era felice, e quella felicità mi straziava.

Mi appoggiai al muro, le braccia incrociate per nascondere il tremore. Ricordavo me stessa, in piedi davanti a quello stesso specchio, a scegliere con cura cosa indossare per Mauro, a sentirmi viva sotto il suo sguardo. Ora, guardavo mia figlia fare lo stesso, e ogni gesto era un’eco del mio passato, un riflesso di ciò che ero stata. Ma lei era così giovane, così indifesa, e io stavo permettendo che un uomo con il triplo dei suoi anni la portasse via. Mi chiesi se sotto quella gonna avesse indossato le mutandine rosse. Il peso della mia decisione mi schiacciava. Avevo accettato il patto con Mauro per garantirle un futuro, per darle la sicurezza economica che il ristorante avrebbe rappresentato, ma a che costo? Stavo sacrificando la sua innocenza, il suo diritto a una vita normale, per salvarla da un destino di povertà? O stavo solo giustificando la mia incapacità di oppormi a Mauro, di tagliare i ponti per sempre?

Bea mi salutò baciandomi e stringendomi forte. Ero nervosa e per non insospettire Armano decisi di uscire. Non potevo restare in casa. L’idea di sapere che Beatrice era con lui, di immaginarla ridere, parlare e quant’altro mi faceva impazzire. Era evidente che il pranzo al mare era solo la prima tappa! Presi la borsa, infilai le scarpe da ginnastica e uscii. Roma mi accolse con il suo caos familiare: il rumore dei clacson, il profumo di caffè che usciva dai bar, i turisti che affollavano le strade intorno a Piazza di Spagna. Camminai senza meta, i piedi che battevano sull’asfalto, come se ogni passo potesse allontanarmi dai miei pensieri. Attraversai il Tevere, il fiume che rispecchiava il sole di mezzogiorno, e mi ritrovai a Trastevere, tra i vicoli stretti e i panni stesi alle finestre.
Qui, tra i ristoranti affollati e le risate dei passanti, cercai di perdermi, di dimenticare. Ma ogni angolo di Roma sembrava ricordarmi qualcosa: la gelateria dove avevo portato Beatrice da bambina, il primo mio bacio dato ad un coetaneo, le passeggiate spensierate con le mie amiche. In quel momento ogni ricordo mi feriva.

Camminai per ore, il sudore che mi scivolava lungo la schiena, le gambe pesanti, ma la mente che non trovava pace. Pensavo a Beatrice, a come il suo viso si era illuminato mentre si preparava. Era felice, sì, ma era una felicità che mi terrorizzava. Mauro era un manipolatore, lo sapevo fin troppo bene, eppure lei lo vedeva come il suo salvatore, il suo amore. E io, io che avevo aperto la porta a quell’uomo, ero diventata complice di questa follia. Mi fermai in Piazza Santa Maria in Trastevere, sedendomi sui gradini della fontana. Intorno a me, la vita continuava: coppie che si tenevano per mano, bambini che correvano, un musicista di strada che suonava il suo sax. Ma io mi sentivo fuori posto, come se fossi intrappolata in un incubo che nessuno poteva vedere. Chiusi gli occhi, il rumore della fontana che mi avvolgeva, e per un istante desiderai di poter tornare indietro, a quando Beatrice era solo una bambina che mi teneva per mano, a quando Mauro non esisteva nella nostra vita.

Quando tornai a casa era già sera, ero esausta, la gola secca e il cuore pesante. La porta d’ingresso era socchiusa, e il suono della voce di Beatrice mi accolse prima ancora che entrassi. Era in cucina, stava parlando al telefono, ridendo piano. Quando mi vide, il suo sorriso si allargò. “Mamma, sei tornata!” Disse, chiudendo la chiamata. Indossava ancora la camicetta bianca, ma ora aveva un’aria diversa, più sicura, più adulta. Mi avvicinai, posando la borsa sul tavolo, cercando di nascondere il tumulto dentro di me. “Com’è andata, Bea?” Chiesi, la voce che suonava vuota persino alle mie orecchie. Lei si sedette, incrociando le gambe con un’eleganza che non le avevo mai visto. “Siamo andati a Ostia, abbiamo mangiato pesce in un posto bellissimo vicino al mare. Mauro è stato così dolce, mi ha raccontato un sacco di cose sul ristorante, su come vuole espanderlo. Dice che un giorno potrei aiutarlo a gestirlo, ma prima devo studiare.” I suoi occhi brillavano, e ogni parola era carica di un entusiasmo che mi spezzava. Mi sedetti di fronte a lei, cercando di mantenere la calma. “E… cos’altro avete fatto?” Chiesi, temendo la risposta, ma incapace di non farla.

Beatrice alzò le spalle, un gesto che sembrava troppo maturo per lei. “Abbiamo passeggiato, parlato. Mi ha fatto sentire speciale, mamma. E poi mi ha detto che non devo avercela con te. Tu sei mia madre e pensi al mio bene.” Poi, con un sorriso che mi trafisse, aggiunse: “Mi ha dato questo.” Tirò fuori dalla borsa una scatolina di velluto e la aprì. Dentro brillava un braccialetto d’oro con un piccolo ciondolo a forma di cuore. “Ha detto che è un pegno del suo amore.” Le sue parole erano così sicure, così convinte, che per un momento mi sembrò di vedere una donna, non la mia bambina.

Mi morsi il labbro, il dolore che mi esplodeva nel petto. “Vi siete baciati, insomma avete fatto…” Non riuscii a finire la frase. Lei mi guardò, sorpresa, poi rise piano, come se la mia domanda fosse assurda. “Mamma, smettila di preoccuparti. So quello che faccio e poi Mauro mi rispetta, mi ama. Non è solo… quello.” Ma il modo in cui evitò il mio sguardo, il leggero rossore sulle sue guance, mi disse più di quanto volessi sapere. Mi alzai, incapace di restare seduta, e andai verso il lavandino, fingendo di lavare una tazza. “Sono contenta che tu sia felice.” Mentii, la voce strozzata. “Ma devi essere prudente, Bea. Promettimelo.” Lei si alzò, avvicinandosi a me, e per la prima volta dopo settimane mi strinse forte. “Lo sono, mamma. Fidati di me.” Il suo abbraccio era caldo, sincero, ma io mi sentivo gelare. Mentre la stringevo, vedevo il riflesso di noi due nella finestra della cucina, due donne unite da un amore profondo, ma divise da un uomo che ci aveva spezzate. La sua felicità era un coltello nel mio cuore, perché sapevo che il prezzo di quella gioia era un compromesso che mi avrebbe perseguitata per sempre.

Quella notte, mentre Roma dormiva, rimasi sveglia. Avevo permesso a Beatrice di andare da Mauro, di vivere il suo “amore”, per garantirle un futuro. Ma guardandola così felice, così simile a me, non potevo fare a meno di chiedermi se l’avessi salvata o condannata. E mentre le lacrime mi rigavano il viso, silenziosamente, capii che non avrei mai avuto una risposta.


******


Una settimana dopo, incontrai Mauro al motel. L’aria odorava di incontri clandestini e amore a pagamento, un promemoria di ogni compromesso che avevo fatto. Mauro era lì, seduto su una sedia accanto a una scrivania improvvisata, con una cartellina gialla di documenti davanti a sé. Quando vidi il nome di Beatrice scritto in cima a quelle carte – “Beatrice, erede del 50% del ristorante” – il mio cuore si strinse. Un’ondata di emozioni mi travolse. Mi tremarono le gambe: mia figlia avrebbe avuto una vita meno dura della mia anche se quel foglio rappresentava la prova del prezzo che avevo pagato e la vergogna, per ciò che ero diventata.

“Ce l’ho fatta.” Pensai, sedendomi sul bordo del letto per nascondere il tremore. “Almeno lei sarà al sicuro.” Mauro mi guardò, il suo sorriso caldo ma carico di quella sfumatura manipolatoria che ormai conoscevo fin troppo bene. “Giovanna.” Disse. “Tua figlia avrà quello che mi hai chiesto. Metà del ristorante è suo. Ma non voglio rinunciare a te.” Fece una pausa, i suoi occhi che scivolavano su di me, come se stesse cercando qualcosa. “Hai messo le mutandine rosse?” Quelle parole mi colpirono come un pugno. Le avevo indossate, sì, come un riflesso condizionato, un’ulteriore resa al suo gioco. Il pizzo mi pizzicava la pelle sotto i jeans, a tutti gli effetti una nota della mia debolezza. Pensai all’incontro di lui con Beatrice, tutte e due con le mutandine rosse! “Facciamo in modo che sia ufficiale.” Dissi, la voce fredda, cercando di mantenere il controllo. “Per Beatrice.” Aggiunsi.

Il suo sorriso si allargò, un ghigno che diceva che aveva vinto, ancora una volta. Fece un passo avanti, le sue mani che sfioravano i miei fianchi, e io non mi opposi. Forse era la stanchezza, la disperazione, il peso di sapere che senza di lui non avrei avuto nulla, né soldi, né futuro per Beatrice. In quel momento, mentre le sue dita slacciavano i miei jeans, mi resi conto dell’abisso in cui ero caduta. Stavo tradendo non solo Armando, chiuso nella sua stanza, ignaro di tutto, ma anche Beatrice, mia figlia, la ragazza che avevo giurato di proteggere. Ogni tocco di Mauro era un tradimento, una pugnalata al cuore di ciò che restava di me.

Cercai di allontanarlo. “Non ce la faccio, penso a te e a Beatrice. Dove siete andati dopo Ostia? Avete fatto l’amore?” Lui scosse la testa. “Perché fai così, Giovanna? Lasciati andare… in fin dei conti hai ottenuto quello che volevi…” Disse mentre mi spogliava con una lentezza che sembrava voler prolungare il mio tormento. “Non vuoi questo? Non vuoi che siamo una famiglia?” Le sue mani si fermarono sul pizzo rosso, un sorriso compiaciuto che mi fece venir voglia di urlare. “Smettila.” Sussurrai, ma la mia voce era debole, priva di forza. Non mi opposi. Il mio corpo era lì, ma la mia mente era altrove, intrappolata in un vortice di disgusto e senso di colpa. Pensai a Beatrice, al suo affetto per quell’uomo che ora mi stava spogliando, sapevo che ogni gesto, ogni respiro, era un altro pezzo di me che si sgretolava. Mi disse di voltarmi e subito dopo lo sentii scivolare nella mia intimità. Non riuscii a non pensare a me e a Beatrice nella stessa posizione con le stesse mutandine rosse e lui trionfante che godeva del suo potere.

Urlai: “L’ha presa così?” E subito dopo: “Dimmi cosa provi?” Lui preso dalla passione non rispose ed io insistetti: “Lo voglio sapere, dimmelo!” A quel punto sussurrò: “Tesoro, siete diverse, lei è nel fiore dei suoi anni e tu nel pieno della tua femminilità, ma io provo la stessa intensità, te lo giuro!” Ero al culmine dell’orgasmo, piacere e dolore misto a rabbia e istintivamente pronunciai la frase che mai avrei voluto dire: “Cazzo, dimmelo, chi preferisci?” Lui non rispose e in quel silenzio, mentre mi abbandonavo al piacere, sentii tutta la sua vittoria: stavo rivaleggiando con mia figlia e lui aveva fatto in modo di metterci in competizione!

Quando finì, mi rivestii in silenzio, il rumore della cerniera dei jeans che sembrava assordante nella stanza. Mauro si appoggiò al letto, accendendo una sigaretta, il fumo che si mescolava all’odore stantio del motel. “Non fare quella faccia, Giovanna.” Disse, soffiando una nuvola di fumo. “Abbiamo fatto la cosa giusta per Beatrice. E per noi.” Non risposi. Presi la cartellina con i documenti e uscii, sbattendo la porta. Mi vergognavo di me stessa, per quello che gli avevo chiesto: “Nessuno mai mi avrebbe divisa da mia figlia!” Pensai scendendo le scale.
Mi fermai accanto alla macchina, le mani che tremavano, le lacrime che scorrevano silenziose. “Per Beatrice.” Sussurrai, ma quelle parole erano vuote. Avevo dato a mia figlia un futuro, ma a costo di tradirla con lo stesso uomo che l’aveva sedotta. E in quel momento, sotto il bagliore dei lampioni, mi sentii più sola che mai.


******

Un mese dopo, esattamente il giorno del compleanno di Beatrice, ci ritrovammo nello studio di un notaio, un ufficio elegante nel cuore di Roma, con pareti di mogano e il rumore attutito del traffico di Piazza Mazzini che filtrava dalle finestre. Beatrice era accanto a me, il suo viso pallido, le mani che tremavano mentre stringeva una penna. Il notaio lesse l’atto, le parole che sancivano il trasferimento del 50% del ristorante a mia figlia risuonavano nella stanza come una promessa e una condanna. E quando Beatrice firmò, non mi sentii sollevata sapendo che quello era il prezzo della mia anima. Dopo la firma, Beatrice si voltò verso di me, i suoi occhi cercarono i miei, pieni di un’emozione. Mi strinse forte, con il suo corpo esile che tremava contro il mio. “Grazie, mamma.” In quel momento, capii che aveva compreso, almeno in parte, ciò che avevo fatto per lei. Non il tradimento, non il motel, non le mutandine rosse, ma il sacrificio. Era felice, o almeno sollevata, e per un istante mi sentii meno sola. Ma subito dopo si voltò verso Mauro e lo baciò in bocca. Sprofondai.

Mi alzai e lasciai lo studio, Mauro e Beatrice ancora dentro, intenti a parlare con il notaio. Non potevo restare. Salii in macchina, le strade di Roma che si snodavano davanti a me, la cupola di San Pietro illuminata in lontananza.

Tornai a casa, dove Armando era chiuso nella sua stanza, ignaro di tutto. Mi sedetti al tavolo della cucina, la foto di Beatrice sul frigo che mi guardava con quel sorriso di bambina che sembrava appartenere a un’altra vita.
Avevo dato a Beatrice un pezzo di quel ristorante che valeva milioni, una sicurezza che io non avevo mai avuto. Ogni fibra di me cercava di convincermi che avevo fatto l’unica cosa possibile, l’unico modo per tenere insieme i pezzi della mia casa. Ma la verità mi schiacciava: per salvare Beatrice, l’avevo tradita. Avevo accettato di condividere lo stesso uomo che aveva preso tutto da me: la mia dignità, la mia anima e ora anche mia figlia.

Andai in camera e mi spogliai guardandomi allo specchio con quelle mutandine rosse che erano diventate la mia seconda pelle, il sigillo di un patto infernale. “Per Beatrice” Mi ripetevo, come un mantra che avrebbe dovuto darmi pace. Ma non c’era pace. Come potevo essere scesa così in basso? Come potevo aver accettato di tornare da lui, sapendo che era l’amante di mia figlia? Il pensiero mi faceva venire la nausea, un nodo che mi stringeva la gola. Ero sua madre, avrei dovuto proteggerla, tenerla lontana da lui. Invece, l’avevo consegnata a Mauro, come un’offerta sacrificale, pur di garantirle quel maledetto ristorante.

Eppure, una parte di me si aggrappava a quella firma, a quell’atto notarile che dava a Beatrice una via d’uscita, un futuro che non dipendesse dalle bollette, dalla depressione di Armando, dai miei errori. Quando mi aveva abbracciata nello studio del notaio, il suo “Grazie, mamma” era stato un raggio di luce in questo buio. Ma anche quel momento era macchiato. Del resto Beatrice non conosceva tutta la verità, non sapeva che sua madre si era piegata allo stesso uomo che lei chiamava “il mio uomo”. Il pensiero che un giorno potesse scoprirlo mi terrorizzava. E se mi avesse odiata ancora di più? E se quel futuro che le avevo dato fosse stato solo un altro modo di incatenarla a Mauro, proprio come lo ero io?

Mi alzai, camminai avanti e indietro per casa. Mi fermai davanti al piccolo specchio appeso al muro in corridoio. Il mio riflesso era quello di una sconosciuta con l’espressione di chi aveva perso se stessa. Avevo fatto tutto per Beatrice, per Armando, per questa casa. Ma il prezzo era troppo alto. Avevo tradito mia figlia non solo con il mio silenzio, ma con il mio corpo, tornando da Mauro, indossando quelle mutandine rosse, accettando il suo gioco perverso. Ogni bacio, ogni tocco, era un tradimento, non solo verso di lei, ma verso la donna che ero stata.

Fuori, Roma continuava a vivere, indifferente, con i suoi rumori e le sue luci, ma dentro di me c’era solo silenzio.




FINE








Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.
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