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RACCONTO
 
Adamo Bencivenga
LA STORIA DI GIOVANNA 2
“Mi chiesi più volte se altre donne avessero mai vissuto il mio strazio e come si fossero comportate. Non lo sapevo, ma ero certa di vivere una storia sbagliata, incredibile, sporca e il destino aveva scelto me tra le tante!”
 


 

 
Il giorno dopo, un lunedì, inventai una scusa a casa: un ricevimento in grande stile di un diplomatico dove era richiesta la mia presenza. Con Mauro avevamo deciso, per non destare sospetti di raggiungere il motel separatamente, ciascuno con il proprio mezzo, attenti a non lasciare tracce che potessero tradirci. Il posto era anonimo, appena fuori dalla Balduina, un edificio basso e sbiadito, con tende pesanti alle finestre, macchiate dal tempo, e un’insegna al neon intermittente che ronzava come un insetto fastidioso. Attraversai il piccolo parcheggio con passi incerti, intimorita e rassegnata, ma con una strana, inconfessabile eccitazione.

Mi ero vestita con cura, come se l’abbigliamento potesse in qualche modo giustificare o mascherare ciò che stavo facendo. Indossavo un abito nero aderente che mi fasciava i fianchi e si fermava appena sopra le ginocchia, lasciando intravedere la trama velata delle mie calze nere. Le décolleté argentate, con il tacco alto, ticchettavano sulla ghiaia del vialetto mentre mi avvicinavo all’entrata. Il trucco era studiato, discreto ma intenzionale: un velo di fondotinta, un tocco di mascara per allungare le ciglia, e un rossetto rosso scuro, quasi bordeaux, scelto con cura per non spegnere quella scintilla che avevo visto negli occhi di Mauro la sera prima. Mi ero guardata allo specchio prima di uscire di casa, incerta se quel rossetto fosse troppo audace, troppo dichiaratamente seducente, ma alla fine l’avevo lasciato, come un sigillo sulla mia decisione di andare fino in fondo. Mauro era lì ad aspettarmi. Entrammo.

Davanti al concierge, un uomo di mezza età con occhiali spessi e un’espressione impassibile, mi fermai per un istante, sentendo il suo sguardo su di me. Quegli occhi, freddi e indagatori, mi trafissero come se sapessero tutto: chi ero, perché ero lì, cosa stavo per fare. In quel momento, la consapevolezza di essere ufficialmente un’amante mi colpì come un pugno sul viso. Non ero più solo Giovanna, la moglie, la madre, la donna rispettabile. Ero qualcos’altro, qualcosa di segreto, di proibito, un oggetto sessuale che si prestava per fini poco nobili. Arrossii, abbassando lo sguardo, poi lui con un rapido cenno, ci porse la chiave, senza dire una parola, ma il suo silenzio era più eloquente di qualsiasi giudizio.

Entrammo nella stanza, l’aria era densa di un silenzio che pesava più delle parole non dette, un silenzio che sembrava avvolgere ogni cosa come una coltre invisibile. Non c’era spazio per esitazioni. Mauro non perse tempo, avvicinandosi con una determinazione che mi fece sentire piccola, ma anche desiderata. Le sue mani, calde e sicure, mi cinsero i fianchi, guidandomi verso il letto con una naturalezza che mi spiazzò. Mi lasciai andare completamente, spegnendo quella voce interiore che mi ricordava chi ero e cosa stavo rischiando. Il letto scricchiolava sotto di noi, mentre il mondo fuori, Roma, la mia casa, Armando, Beatrice, sembravano svanire in un angolo lontano della mia mente, ridotto a un’eco distante, priva di contorni.

Non mi spogliò. Mi lasciò in lingerie dicendomi che ero bella così e quando lo accolsi, fu diverso da tutto ciò che conoscevo. Con Armando, l’amore era sempre stato rassicurante, familiare, protettivo, come un rituale consolidato dal tempo, fatto di gesti prevedibili e di una tenerezza che, pur sincera, si era ormai incrostata di abitudine. Con Mauro, invece, c’era qualcosa di selvaggio, di urgente e peccaminoso. Le sue mani esploravano il mio corpo con una curiosità che mi faceva sentire nuova, come se fossi una terra sconosciuta, da scoprire centimetro dopo centimetro. Ogni tocco era elettrico, ogni bacio un’esplosione di calore che mi attraversava la pelle, lasciandomi senza fiato. Era piacevole, sì, ma in un modo che mi disorientava: non c’era la sicurezza di Armando, la dolcezza prevedibile dei suoi gesti. C’era, invece, un’intensità che mi spaventava e mi attirava allo stesso tempo, un misto di desiderio e pericolo che mi faceva tremare.

Concentrato su ogni mio respiro, lui iniziò a baciarmi tra le gambe con una maestria che alternava ritmi veloci e lenti, intervallati da pause strategiche che amplificavano il mio desiderio. Ogni bacio era un’esplorazione attenta, come se lui stesse decifrando ogni mia reazione, ogni fremito del mio corpo. Nulla era casuale, ma un gioco sapiente che accendeva i miei sensi, creando un’attesa quasi insostenibile. Sentivo il mio respiro farsi più corto, mentre un calore avvolgente si diffondeva dal centro del mio essere.

La mia mente si arrese al piacere, lasciando spazio solo all’istinto e a un desiderio puro. Lentamente, mi abbandonai a quel vortice di sensazioni con il mio corpo sempre più in sintonia con i suoi movimenti. Il desiderio cresceva, intenso e irresistibile, fino a sorprendermi: fui io, con un sussurro carico di emozione e urgenza, a chiedergli di farmi sua, e fu come liberare una parte di me che non sapevo esistesse.

Quando i nostri corpi si unirono, mi sentii viva in un modo che avevo dimenticato, come se stessi riscoprendo una parte di me che avevo sepolto sotto anni di doveri e routine. Eppure, in fondo al cuore, una piccola crepa si apriva: la consapevolezza che quel piacere, così intenso e travolgente, era anche il prezzo di un tradimento, un segreto che avrei dovuto portare con me, come un’ombra nascosta dietro il rossetto rosso e l’abito nero.

Mentre facevamo l’amore, Mauro si fermò un istante, il respiro affannoso, gli occhi fissi nei miei. “Giovanna.” Sussurrò, la voce incrinata da un’emozione che non mi aspettavo. “Sono innamorato di te. Non voglio perderti, per nessuna ragione al mondo.” Le sue parole mi colpirono come un fulmine. Non era solo desiderio, non era solo un gioco di potere, lui il padrone ed io la cameriera. C’era qualcosa di sincero, quasi disperato, nel modo in cui lo disse. Ma invece di sentirmi sollevata, provai un vuoto. Quindi non era solo un momento, una serata, una scopata! Sapevo che, accettando tutto questo, stavo salvando il mio lavoro, e con esso la mia famiglia. Ogni bacio, ogni carezza era un patto silenzioso per tenere insieme i pezzi della mia vita. Eppure, il senso di colpa mi mordeva.

“Dici sul serio?” Mormorai, cercando nei suoi occhi una risposta che mi desse un appiglio. Lui annuì, sfiorandomi il viso. “Non sono mai stato più serio, Giovanna. Tu sei… diversa. Voglio che tu stia bene, che non debba preoccuparti di niente.” Le sue parole erano miele, ma avevano un retrogusto amaro. Sapevo che non era amore, non come lo intendevo io. Era un legame nato dalla mia disperazione e dal suo bisogno di controllo. Ma annuii, forzando un sorriso. “Va bene, Mauro. Ma non lasciarmi sola, promesso?” Lui sorrise, un sorriso che era insieme rassicurante e possessivo. “Mai.” Disse e mi baciò di nuovo, come a sigillare un contratto.

Da quella notte, iniziò la nostra relazione. Ci vedevamo due volte a settimana dopo il lavoro, sempre al motel o in angoli nascosti della città, lontano da occhi indiscreti. Mauro era sempre più preso, i suoi gesti pieni di un’attenzione che mi lusingava e mi spaventava allo stesso tempo. Cominciò a regalarmi cose: calze autoreggenti di seta, un reggicalze nero e una serie di mutandine rosse, la sua vera ossessione, che sceglieva con cura. “Indossale solo per me, ok?” Mi diceva, con un tono che oscillava tra la supplica e l’ordine. Io lo accontentavo, infilando quei capi con le mani tremanti, guardandomi allo specchio e chiedendomi chi fosse la donna che vedevo. Ogni regalo era il prezzo che stavo pagando, ma anche una promessa di stabilità. “Non mi abbandonerà. Non so stancherà di me.” Mi ripetevo, cercando di soffocare il senso di colpa che mi svegliava di notte, sola in quel grande letto matrimoniale, con mio marito nell’altra stanza che russava ignaro di tutto.


******


Mauro mantenne la sua parola, andando oltre ogni mia aspettativa. Una sera, mentre eravamo al motel, mi prese la mano e disse: “So che sei preoccupata per Armando. Ho un amico, un bravo psicologo, uno specialista. Posso organizzare tutto, per i soldi non devi preoccuparti. Voglio che tu sia serena e che ti dedichi a me, anima e corpo!” Lo guardai, sorpresa. “Perché fai tutto questo per me?” Chiesi. Lui scrollò le spalle: “Perché sono solo, perché tengo a te. E perché so che, senza di me, la tua vita sarebbe maledettamente più complicata.” Quelle parole mi trafissero. Era la verità, e la odiavo per questo.

Comunque accettai l’offerta, non perché credessi che Armando sarebbe tornato l’uomo di un tempo, ma perché non potevo permettermi di rifiutare. Quando tornai a casa quella notte, mi sedetti al tavolo della cucina, Beatrice parlava al telefono con una sua amica. “Lo sto facendo per lei.” Mi dissi, ma la mia voce tremava. Mi guardai le mani, ancora profumate del sapone del motel, e sentii un nodo in gola. “Chi sono diventata?”

La sera stessa dissi ad Armando l’offerta di Mauro e lui da quel giorno iniziò a parlare di Mauro con una frequenza che mi metteva in allarme. “Sai, Giovanna, mi farebbe piacere rivederlo.” Diceva, con un’ombra di nostalgia negli occhi. “È un sacco che non ci vediamo, dai tempi dell’università. Chissà com’è diventato.” Le sue parole erano un coltello che girava nella piaga. Ogni volta che nominava Mauro, sentivo il peso del mio segreto, il motel, i regali, le calze, i tacchi esageratamente alti e le mutandine rosse che indossavo per lui in gran segreto. Ma non potevo dirgli di no. Non potevo rischiare che sospettasse qualcosa. Così, una sera, presi il coraggio a due mani e chiesi a Mauro di venire a casa nostra. “Solo per una cena.” Gli dissi al telefono, la voce bassa per non farmi sentire da Armando. “Fallo per il mio bene, Mauro. Armando vuole vederti.”

Mauro accettò senza esitazione, e da quella prima cena iniziò a frequentare casa nostra con una regolarità che mi spaventava e mi rassicurava allo stesso tempo. Arrivava sempre con qualcosa in mano: una bottiglia di Barolo pregiato, un mazzo di fiori per me, regali per Beatrice – una collanina d’oro con un piccolo cuore, un ciondolo a forma di stella, persino un iPhone ultimo modello che fece illuminare gli occhi di mia figlia. Armando, che non rideva da mesi, sembrava rinato in sua presenza. Dopo cena passavano ore seduti in salotto davanti ad una bottiglia di Courvoisier o una grappa pregiata. “Mauro, sei un dono del cielo!” Gli diceva, battendogli una mano sulla spalla mentre ricordavano pezzi di vita passata. La sua risata, così rara ormai, mi spezzava il cuore. Era la risata dell’uomo che avevo sposato, ma ogni suo sorriso era un promemoria del mio tradimento.

Io, seduta al tavolo della nostra piccola cucina, cercavo di nascondere il mio disagio. Ogni regalo di Mauro era un nodo che si stringeva intorno al mio stomaco. Una sera, mentre sparecchiavo e Armando era in bagno, presi Mauro da parte vicino alla porta della cucina. “È troppo, Mauro.” Sussurrai, indicando la scatola dell’iPhone ancora aperta sul tavolo. “Tutti questi regali… Armando potrebbe sospettare qualcosa. Non è normale, capisci?” Lui mi guardò, il suo sorriso caldo, ma con quella sfumatura che conoscevo troppo bene, quella che mi ricordava chi aveva il controllo. “Giovanna, rilassati.” Disse, abbassando la voce. “Sono solo, lo sai. Non ho una famiglia, non ho figli, non ho nessuno. Per me voi siete… come una seconda famiglia. Voglio solo prendermi cura di te, di loro. Vedi come è contenta Beatrice? Ogni suo sorriso è un dono del cielo e lo stesso dovrebbe essere per te…”

Le sue parole erano gentili, ma mi gelavano. C’era una verità in quello che diceva – la sua solitudine, il vuoto lasciato dalla moglie – ma anche un calcolo che non potevo ignorare. Ogni regalo, ogni gesto, era un filo che mi legava più stretta a lui. “Non dirlo così.” Mormorai, distogliendo lo sguardo. “Sai che non è solo questo... Loro non sanno il vero motivo…” Lui si avvicinò fissandomi: “Sai alle volte è meglio non sapere…” Poi sfiorandomi il braccio aggiunse: “Giovanna, fidati di me. E poi, guarda Armando, grazie a quello specialista sta meglio, no? Non è questo che volevi?” Annuii, incapace di ribattere. Aveva ragione. Lo psicologo che Mauro aveva pagato stava aiutando Armando, anche se i progressi erano lenti. Ma ogni passo avanti di mio marito era un altro pezzo di me che si sgretolava.

Tornai in salotto, dove Beatrice stava provando il nuovo iPhone. “Mamma, guarda che figo!” Disse, gli occhi pieni di gioia. Sorrisi, ma il mio cuore era un groviglio di emozioni. Mi sedetti accanto a lei cercando di perdermi nel suo entusiasmo, ma sentivo gli occhi di Mauro su di me, anche dall’altra parte della stanza e mi chiesi: “Cosa sto facendo a questa famiglia?” Ogni risata di Armando, ogni sorriso di Beatrice, era una vittoria pagata con un pezzo della mia anima.


******


Per qualche mese, sembrò tutto un sogno ed addirittura ringraziavo quel giorno quando in quel motel mi ero lasciata andare. Certo i miei conflitti interni rimanevano: “Ma può una donna concedersi senza amore?” Provavo per Mauro affetto, stima, gratitudine, riconoscenza e una grande paura di perderlo, ma non era amore. A lavoro mi aveva raddoppiato la paga e, grazie a lui, i soldi non erano più un problema. Mi aveva anche cambiato le mansioni, ora non servivo più ai tavoli, ero diventata la responsabile della gestione del servizio, del contatto con i clienti e della presa delle ordinazioni, occupandomi anche di dirigere e coordinare il personale di sala.

Ormai quella nuova mansione al ristorante richiedeva la mia piena disponibilità per cui d’accordo con Mauro e Armando decisi di lavorare a tempo pieno e non solo nei week end. A malincuore lasciai lo studio dentistico lavorando al ristorante nei giorni di apertura ossia dal giovedì alla domenica. Rispetto a prima avevo più tempo a disposizione e soprattutto guadagnavo il doppio dello stipendio. Beh sì anche se sapevo che quella scelta mi avrebbe legata mani e piedi a Mauro, non smettevo mai di ringraziarlo. E lui ogni volta rispondeva: “Giovanna, sono io che devo ringraziare te!”

Anche Armando lo considerava un benefattore. Spesso mi chiedeva: “Ma Mauro quando viene a trovarci?” Ignorando, chissà quanto inconsapevolmente, i nostri sguardi complici, i miei abiti sempre più provocanti e quel rossetto rosso fuoco che era diventato ormai la mia seconda pelle. Anche Beatrice non faceva che chiedere quando sarebbe tornato, aspettandosi l’ennesimo regalo. Lei cresceva a vista d’occhio, era diventata sempre più esigente e consapevole della sua femminilità. Quando la osservavo truccarsi nel piccolo specchio della sua stanza mi perdevo nei pensieri: quanti ragazzi della sua età avrebbero perso la testa per lei? A quanti aveva già detto di no e quanti le avevano strappato un timido sì. Mi somigliava tanto, e questo mi riempiva d’orgoglio.


******

Col passare del tempo quelle domande scomode che mi tormentavano l’anima si erano affievolite, come un’eco che si spegneva lentamente. Accettavo i nostri incontri al motel come una necessità, un rituale che, pur nella sua trasgressione, sembrava indispensabile per la mia sopravvivenza. Eppure, non potevo negare a me stessa quanto quelle braccia capienti, che mi stringevano con un misto di forza e considerazione, mi facessero sentire protetta, viva, e soprattutto donna. Ogni incontro era un gioco di equilibri sottili, un intreccio di desideri che si alimentavano a vicenda, un rituale condiviso che si arricchiva ogni volta di dettagli carichi di significato.

Lui aveva un lato feticistico che non nascondeva, un’ossessione per i dettagli che trasformava ogni nostro incontro in una danza di seduzione studiata. Gli piaceva guardarmi, scrutarmi, come se volesse catturare ogni sfumatura del mio corpo e dei miei gesti. E io, consapevole di quel desiderio che gli accendeva gli occhi, mi preparavo per lui con cura, scegliendo con attenzione ogni elemento del mio abbigliamento. Le autoreggenti nere, quelle con il bordo di pizzo alto, erano il suo punto debole. E poi, le mutandine rosse, audaci, che scivolavano sulla pelle come un sussurro. Sapevo che indossarle era come accendere un fuoco che bruciava lento, ma inesorabile.

La luce soffusa della stanza del motel rendeva tutto più intimo, quasi surreale. Quando entravo, lui era già lì, seduto sul bordo del letto, con un bicchiere di whiskey in mano, lo sguardo che mi cercava come un predatore paziente. Mi fermavo sulla soglia, lasciando che il suo sguardo mi avvolgesse. Le autoreggenti incorniciavano le mie cosce, il pizzo che contrastava con la pelle chiara, e la trasparenza rossa delle mutandine brillava appena sotto l’orlo della gonna corta che avevo sceglievo per lui. Ero orgogliosa di me, del mio sesso in mostra che offrivo sfacciatamente ai suoi occhi e alla sua passione. “Vieni qui tesoro, sei un incanto.” Sussurrava ogni volta posando il bicchiere senza mai distogliere gli occhi da me. Io facevo qualche passo verso di lui, lentamente, lasciando che il suono dei miei tacchi sul pavimento e il fruscio del nylon riempisse il silenzio. “Dimmi che ti piaccio tanto.” Chiedevo con un sorriso che giocava tra malizia e provocazione. Sapevo che ogni parola, ogni movimento, alimentava il suo desiderio. Lui si alzava, avvicinandosi, e le sue mani scivolavano lungo il mio corpo, soffermandosi sul bordo delle calze. “Non hai idea.” Mormorava sfiorando e scostando le mutandine. “Rosse! Sai che non posso fare a meno di questo colore. Le hai messe per me, vero?”
“Forse.” Rispondevo ogni volta. “Mi piace pensare che non riesci a smettere di guardarmi.” E tutte le volte replicava: “Non smetterò mai, mai Giovanna!”


******

Ma non fu così! Con il passare delle settimane e subito dopo che mi ero legata a lui firmando quel contratto a tempo pieno, Mauro iniziò a saltare qualche incontro al motel e a diradare le visite a casa. Le cene, che un tempo erano un appuntamento quasi settimanale, si ridussero a incontri sporadici, come se qualcosa in lui si fosse incrinato. Quello che avevo sempre temuto si stava avverando… Forse si era stancato di giocare oppure ero io che non riuscivo ad essere coinvolta. Ero la sua amante, e anche se mi aveva dato tutto – soldi, regali, un lavoro migliore – forse desiderava qualcosa che non potevo offrirgli: un amore che non sentivo, un posto stabile nella mia vita che non potevo concedergli senza distruggere la mia famiglia.

A casa, quasi ogni sera, Armando mi chiedeva di lui con un’insistenza che mi faceva male: “Quand’è che torna? È un pezzo che non lo vediamo.” Quelle domande, così innocenti, erano un altro colpo al mio cuore già pesante di segreti. Mi chiedevo cosa stesse succedendo. Era possibile che Mauro, nonostante la sua generosità, si sentisse a disagio in quel quadretto familiare che avevamo creato? Forse, pensavo, quelle cene, con le risate di Armando e l’entusiasmo di Beatrice, gli ricordavano ciò che non aveva: una famiglia sua, un calore che non poteva comprare con i suoi gesti magnanimi. O forse, più semplicemente, si stava stancando di quel gioco pericoloso.

Eppure, non potevo ignorare il vuoto che la sua assenza cominciava a lasciare. Non era amore, no, ma una sorta di dipendenza. Mauro aveva riempito i buchi della mia vita – le bollette pagate, il sorriso ritrovato di Armando, i sogni di Beatrice che si realizzavano con ogni nuovo regalo. Senza di lui, temevo che tutto sarebbe crollato di nuovo. Ogni volta che Armando nominava Mauro, sentivo il peso del mio tradimento, ma anche una paura nuova: e se Mauro avesse deciso di sparire del tutto? Cosa sarebbe stato di noi? Mi guardavo allo specchio e mi chiedevo se quel rossetto, quelle calze velate, quei tacchi alti non fossero abbastanza.

Una sera, dopo l’ennesima domanda di Armando su Mauro, decisi che non potevo più sopportare l’incertezza ed aspettare fino al giorno dopo per cui presi il telefono e lo chiamai. Quando la sua voce calda risuonò dall’altra parte, mi sentii quasi sollevata. “Mauro, dobbiamo parlare.” Dissi, tenendo la voce bassa per non farmi sentire da Armando, che era in salotto a guardare la televisione. “Armando continua a chiedere di te, e… beh, anch’io mi sto chiedendo che succede. Perché ti stai allontanando?” Ci fu un silenzio dall’altra parte, lungo abbastanza da farmi temere che non avrebbe risposto. Poi, con un tono più serio del solito, disse: “Giovanna, non è facile per me. Venire a casa vostra, vedere te, Armando, Beatrice… è come vivere un sogno che non mi appartiene. Mi piace, non fraintendermi, ma ogni volta che sono lì, mi ricordo che non sono davvero parte di tutto questo. Tu sei sua, non mia.”

Le sue parole mi colpirono come uno schiaffo. “Mauro, io… ho accettato la situazione, ma non ti ho mai promesso niente di più.” Balbettai. “Lo sai. Faccio tutto questo per loro, per Beatrice, per Armando. Tu lo sapevi dall’inizio.”
“Lo so.” Rispose, la voce più morbida ora, ma con una punta di amarezza. “E non ti sto chiedendo di lasciare tutto per me. Ma non è facile guardarti sparecchiare la tavola, vedere Armando, Beatrice… È una tortura, Giovanna. Voglio aiutarti, lo voglio davvero, ma a volte mi chiedo se ne valga la pena.”

Mi sentii gelare. Per la prima volta lo sentii distante. “Mi stai dicendo che vuoi smettere? Che vuoi lasciarci?” Chiesi. Non volevo ammetterlo, ma l’idea mi terrorizzava. Non era solo per i soldi o i regali, ma per il fragile equilibrio che Mauro aveva portato nella mia vita.
“No, non voglio smettere.” Disse dopo un altro silenzio. “Ma ho bisogno di un po’ di spazio. Non posso continuare a venire a casa vostra come se fosse tutto normale…”
“Ma lo è stato fino a qualche settimana fa…” Risposi d’impeto. “Mauro cosa è cambiato? Cosa succede?”
“Niente Giovanna, tranquilla. Devo solo riflettere, alle volte la vita ci mette di fronte altri scenari, non so come dirtelo…” Mi gelai, non risposi. Quando riattaccai, mi sedetti al tavolo della cucina, e sentii di nuovo quel nodo in gola. “Cosa sta succedendo?” Chiedendomi quali fossero questi scenari… Ripensai agli ultimi tempi e misi in fila i nostri momenti insieme.




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Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.
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