|
HOME
CERCA
CONTATTI
COOKIE POLICY 
RACCONTO

Adamo Bencivenga
LA
STORIA DI GIOVANNA
“Mi chiesi più volte
se altre donne avessero mai vissuto il mio strazio e
come si fossero comportate. Non lo sapevo, ma ero
certa di vivere una storia sbagliata, incredibile,
sporca e il destino aveva scelto me tra le tante!”

Mi chiamo Giovanna, ho 48
anni e vivo a Roma. Dicono che io sia una donna
attraente e non lo nego: i miei capelli scuri
incorniciano un viso con un sorriso che Armando, mio
marito, definiva “disarmante”. È una parola che mi fa
sorridere, perché in quel sorriso c’è tutta la mia
storia: le gioie, i dolori, le speranze che non si sono
mai spente.
La mia vita ruotava attorno a mia
figlia Beatrice, allora diciassettenne, che era il mio
orgoglio e la mia ragione di vita. Nonostante lavorassi,
non le facevo mai mancare la mia presenza e il mio
affetto, aiutandola nello studio, confortandola nei suoi
momenti tristi e consigliandola nei suoi primi amori. La
mia vita con Armando era sempre stata tranquilla, un
matrimonio solido, costruito in quasi vent’anni di
sacrifici, risate e qualche lacrima che rendeva il
nostro legame ancora più forte. Lavoravo come segretaria
contabile in uno studio dentistico, un impiego che non
mi faceva sognare le stelle, ma che mi regalava la
serenità di una routine stabile e la sicurezza di un
tetto sopra la testa.
Ogni giorno, tra numeri,
fatture e appuntamenti, trovavo un equilibrio che mi
permetteva di essere la donna che ero: forte, ma con un
cuore che si commuoveva davanti alle piccole cose, come
il profumo del caffè al mattino, come il miagolio di un
gattino trovato per strada.
Ma tutto cambiò
quando Armando un giorno tornò a casa con gli occhi
spenti. Si sedette al tavolo in cucina e con lo sguardo
basso e le mani tra i capelli mi disse: “Mi hanno
licenziato, Giovanna. L’azienda è in crisi, hanno
tagliato metà del personale e tra questi ci sono anche
io... Proprio io che ho sacrificato la mia vita per
loro…” La sua voce tremava, e io sentii il pavimento
crollare sotto i piedi, ma in quel momento ebbi solo la
forza di rincuorarlo: “Tesoro, troverai un altro lavoro.
Non preoccuparti.” Gli risposi, cercando di sembrare
ottimista, ma dentro di me il panico cresceva. L’ho
abbracciato: “Ce la caveremo, come sempre, vedrai…”
Ma non ce la cavammo per niente! Il mutuo, la retta
della scuola di Beatrice, le bollette, la rata della
macchina: tutto pesava sulle mie spalle. I miei genitori
non c’erano più, e i suoceri pur volenterosi, non
avevano i mezzi per aiutarci. Armando, sempre più chiuso
in sé stesso, passava le giornate in casa, fissando il
vuoto o la televisione. Non era solo delusione, ma un
principio di depressione che a poco a poco lo scavò
dentro. Io facevo straordinari, ma i soldi non bastavano
mai e ogni sera tornando a casa sentivo il peso di una
vita che sembrava scivolarmi tra le dita.
Un
giorno però si aprì un piccolo spiraglio nella mia mente
quando, nello studio dentistico, si presentò Mauro, un
vecchio amico di Armando che avevo conosciuto al nostro
matrimonio. Aveva un forte mal di denti e, in attesa di
essere ricevuto dal medico, mi aveva chiesto del suo
amico che non vedeva da anni. Lui era il titolare di un
famoso ristorante alla Balduina e parlando mi disse che
stava cercando una cameriera per i weekend. Quando mi
salutò mi disse: “Con quel sorriso, saresti perfetta!”
La sera stessa a casa, mentre cenavamo, presi il
coraggio e dissi: “Armando, oggi in studio è venuto il
tuo amico Mauro per una visita urgente. Te lo ricordi?
Insomma mi ha detto che cercano una cameriera per il
weekend. Potrei provare. Tu che ne pensi?” Armando mi
guardò quasi sorpreso. “Tu? Cameriera? Non sei abituata,
Giovanna. E poi ti ammazzi già di lavoro… la casa, lo
studio, Beatrice…” Lo guardai sapendo che potevo
farcela: “Non importa. Abbiamo bisogno di soldi, no?”
Lui, sentendosi in colpa, annuì spostando il discorso su
Mauro e su quell’amicizia, sin dai tempi
dell’università, che il tempo aveva sbiadito.
******
Il ristorante di Mauro era una perla
molto elegante incastonata tra le colline della Balduina
con una vista mozzafiato su Roma. I tavoli erano
occupati da professionisti dell’alta borghesia, gente
dello spettacolo, coppie clandestine e turisti
facoltosi. Mauro, vedovo da poco più di un anno, era un
uomo sulla cinquantina, carismatico, con uno sguardo che
oscillava tra il gentile e l’intimidatorio. Quando mi
accolse, mi strinse la mano con calore. “Giovanna, sei
un salvagente. Vedrai, qui ti troverai bene.” E così
è successo. Imparai il mestiere in pochi giorni. Portare
vassoi e piatti, sorridere ai clienti, destreggiarmi tra
i tavoli: non era facile, ma ce la mettevo tutta.
Tornavo a casa stanca con i piedi doloranti e la schiena
a pezzi, ma soddisfatta. Per la prima volta dopo mesi,
sentivo di avere il controllo su qualcosa.
Dopo
qualche settimana però, notai un cambiamento in Mauro. I
suoi sguardi si fecero più lunghi, i suoi complimenti
più personali. Una sera mentre sistemavo i tavoli, mi
disse: “Sai, Giovanna, porti una luce diversa in questo
posto. Ma forse lo sai anche tu di essere una donna
speciale.” Sorrisi e un po’ imbarazzata risposi:
“Grazie, Mauro, ma sto solo cercando di fare il mio
lavoro.”
Non mi fu difficile intuire che i suoi
complimenti, sempre più insistenti, non riguardavano
solo il lavoro, e cercavo di districarmi facendo finta
di non capire, ma una sera, mentre chiudevamo il locale,
si avvicinò: “Giovanna, non giriamoci intorno. Sei una
donna bellissima. E io… vorrei qualcosa di più da te.”
Sentii un nodo allo stomaco: “Mauro, dai smettila. Sono
sposata e tra l’altro tu sei un vecchio amico di
Armando.” Lui sorrise: “Forse è proprio per questo che
mi sento in dovere di starti più vicino. Tesoro, guarda
in che situazione sei. La crisi, il mutuo, tuo marito e
poi hai una figlia da crescere… Non è facile trovare un
lavoro come questo, no?” Il velato ricatto mi colpì come
uno schiaffo. Sapevo che aveva ragione, ma non era
quello il modo per risolvere la mia situazione. “Mauro,
ti prego, non rendermi le cose più difficili.” Sussurrai
prima di allontanarmi.
Sapevo che sarebbe tornato
alla carica per cui nei weekend successivi cercavo di
non rimanere mai da sola con lui, ma una sera la mia
macchina non ne voleva sapere di partire. Era l’una di
notte e provai a chiamare Armando, ma non rispose.
Stanca, nevosa e sull’orlo delle lacrime chiesi a Mauro
di accompagnarmi e lui ovviamente, aprendo lo sportello
della sua BMW nera, non mi disse di no: “Giovanna, mica
ti lascio qui da sola.”
In macchina, iniziò a
parlarmi di sua moglie, scomparsa in soli tre mesi per
un male incurabile. “Sai, Giovanna, è passato un anno
intero, ma mi manca da morire. La casa è vuota, la vita
è vuota. Non è facile andare avanti da soli.” La sua
voce era rotta e sincera. “Ti capisco…” Dissi piano.
“Anche io non sto vivendo un momento facile, sai.
Armando… non è più lo stesso. Da quando ha perso il
lavoro, è depresso, non parla quasi più. È come se fossi
sola a portare avanti tutto.” Lui guardandomi di
traverso disse: “Chissà se due solitudini fanno
un’amicizia?” La domanda rimase sospesa nell’aria e
percorremmo l’ultimo tratto in assoluto silenzio.
Arrivati sotto casa mia fermò la macchina e
improvvisamente, prendendomi alla sprovvista, poggiò le
sue labbra sulle mie. Forse per timore non reagii e lo
lasciai fare anche quando sentii la sua lingua
insinuarsi nella mia bocca. Fu un bacio timido, ma vero,
come due amanti. Poi un barlume di coscienza mi fece
aprire lo sportello e scappare verso casa. Non mi voltai
e non lo salutai.
Mi guardai nello specchio
dell’ascensore: forse ero stanca, o forse, in quel
momento, avevo un bisogno disperato di sentirmi
desiderata, di sentirmi viva. La mia vita, che fino a
pochi mesi prima scorreva con le sue certezze, si era
trasformata in un mare di insicurezze, costringendomi a
interrogarmi sul mio futuro. Quel bacio, inaspettato e
sbagliato, aveva acceso in me un conflitto che non
riuscivo a zittire. Non era stato solo un momento di
debolezza; era il riflesso di una parte di me che avevo
soffocato per troppo tempo. Mi sentivo come una candela
che brucia da entrambe le estremità: da un lato, la
dedizione totale alla mia famiglia, dall’altro, il
desiderio di ritrovare me stessa, quella Giovanna che un
tempo rideva senza pensieri, che sognava, che si sentiva
viva.
Armando, con il suo silenzio e la sua
apatia, non mi vedeva più. O forse ero io a non vedere
più lui, persa com’ero nel vortice delle mie
responsabilità. Facendo finta di nulla mi distesi senza
spogliarmi nel letto accanto a lui. Lui con gli occhi
fissi alla tv mi guardò appena ed io mi chiesi chi fossi
diventata. La donna che aveva permesso a Mauro di
baciarla non era la Giovanna che avevo sempre
conosciuto. Quella Giovanna era forte, leale, una madre
e una moglie che non si sarebbe mai lasciata tentare.
Eppure, in quella macchina, sotto quel velo di
dolore condiviso, avevo abbassato la guardia. Non era
stato solo per paura di perdere il lavoro, anche se
quella paura era reale, tangibile, come un nodo che mi
stringeva la gola ogni volta che pensavo alle scadenze
da pagare. Era stato anche per quel bisogno profondo,
quasi primordiale, di sentirmi ancora una donna che
qualcuno potesse desiderare, non solo per ciò che
faceva, ma per ciò che era.
Cercai di scacciare
quei pensieri e strinsi forte il braccio di Armando
nella speranza di lavare quel bacio con il suo affetto.
Ma lui quasi infastidito mi disse: “Non ora, Giovanna!”
Quella risposta fredda fu come un coltello che affondava
in una ferita già aperta. Non era solo il rifiuto di
un’intimità fisica; era il rifiuto di vedermi, di
capirmi, di condividere il peso che entrambi portavamo.
Nel buio della notte, con il respiro di Armando
accanto a me, mi sentii sola. Sola con i miei pensieri,
con i miei errori, con le mie paure. Eppure, in fondo al
cuore, c’era ancora una scintilla di quella Giovanna che
non si arrendeva. Sapevo che dovevo trovare un modo per
rialzarmi, per ricostruire ciò che si era incrinato, non
solo con Armando, ma anche dentro di me. Sì ovvio era
stato solo uno stupido bacio, ma dovevo capire se fosse
stato un momento di smarrimento o il segnale di qualcosa
di più profondo, di un bisogno che non potevo più
ignorare. E mentre Roma dormiva fuori dalla mia
finestra, giurai a me stessa che avrei trovato una
risposta, non solo per la mia famiglia, ma per me
stessa, per quella donna che, nonostante tutto, meritava
ancora di vivere onestamente senza sotterfugi.
******
Il sabato successivo tornai al
ristorante con un peso sul cuore. Mi ripetevo: “Giovanna
è stato solo un bacio. Un errore. Non succederà più.” Ma
gli sguardi di Mauro erano sempre più insistenti, come
se quel momento in macchina gli avesse dato un tacito
permesso. Ogni volta che mi passava vicino, il suo
sorriso era una sfida come se calcolasse il tempo che mi
fosse rimasto prima di cedere. Mi sentivo intrappolata.
Quel lavoro mi serviva: ogni euro che guadagnavo era un
giorno in più senza la paura di perdere la casa, di non
pagare la retta di Beatrice.
Quella sera, decisi
di affrontarlo. Aspettai che il ristorante si svuotasse,
il brusio dei clienti sostituito dal silenzio della sala
illuminata solo dalle luci di emergenza. Lui era al
bancone, a controllare gli incassi. “Mauro, possiamo
parlare?” Chiesi, con la voce più ferma che potevo. Lui
alzò lo sguardo, un sopracciglio sollevato. “Certo,
Giovanna. Dimmi pure.” Mi avvicinai, stringendo le mani
per nascondere il tremore. “Voglio essere chiara. Quello
che è successo l’altra sera… è stato un errore. Non
succederà più. Io sono qui per lavorare, nient’altro. Ho
una famiglia, una figlia. Non voglio complicazioni.”
Mauro mi fissò per un lungo momento, il suo sorriso
svanì lentamente. “Capisco.” Disse, ma il tono era
ambiguo, come se stesse soppesando le mie parole. “Sei
una donna forte, Giovanna. Lo rispetto. Ma sai com’è
questo mondo… a volte, per andare avanti, bisogna fare
qualche compromesso.” Si alzò, avvicinandosi. “Non sto
parlando solo di noi. Pensa al tuo lavoro, alla tua
situazione. Io posso aiutarti, lo sai.” Il suo tono,
gentile, ma tagliente, mi fece rabbrividire. Era
un’offerta, ma anche una minaccia. “Non ho bisogno di
quel tipo di aiuto.” Risposi, sostenendo il suo sguardo.
“Voglio solo fare il mio lavoro e portare a casa uno
stipendio. È tutto.” Mi voltai, ignorando il battito
accelerato del mio cuore e uscii dal ristorante. L’aria
fresca della notte romana mi colpì il viso, ma non bastò
a calmare l’ansia. Sapevo che non sarebbe finita lì.
Mauro non era tipo da lasciar perdere. E io? Io dovevo
trovare un modo per proteggere la mia famiglia, senza
perdere me stessa.
Ero stata determinata, ma
dentro di me cresceva un’insicurezza che mi logorava. A
peggiorare le cose poi c’era stata la confidenza di un
collega, Davide, un ragazzo che lavava i piatti in
cucina: “Sai, Giovanna, gira voce che Mauro voglia
esternalizzare alcuni servizi. Tipo le pulizie, forse
anche parte del personale di sala. C’è rischio di
tagli.” Le sue parole mi gelarono. Perdere quel lavoro
sarebbe stato un disastro. Guardai Beatrice in una foto
sul mio telefono: il suo sorriso, i suoi occhi pieni di
fiducia. “E se sto sbagliando tutto?” Pensai.
Nei
giorni successivi, il mio cuore era un groviglio di
paure. Ogni mattina, mentre preparavo la colazione per
Beatrice, sentivo il peso delle bollette sparse sul
tavolo. Armando poi non dava segni di ripresa. Con il
pretesto che lo svegliavo quando tornavo tardi si era
trasferito nella stanza degli ospiti e, sbattuto su quel
lettino, rispondeva a monosillabi, perso in un mondo che
non mi apparteneva più.
Da sola nel letto
matrimoniale mi chiedevo: “E se Mauro avesse deciso di
licenziarmi?” La voce dei tagli al personale mi
ossessionava. Davide mi aveva detto che il ristorante
faceva gola ad una multinazionale. “Se perdo questo
lavoro, cosa faccio?” Ormai era diventato un pensiero
fisso, quando mi svegliavo, quando lavavo i piatti o
piegavo il bucato, con Beatrice accanto che smanettava
il suo telefono, ignara delle mie angosce.
Ero
combattuta. Le sere quando andavo al ristorante, sentivo
gli occhi di Mauro su di me. I suoi complimenti non si
fermavano: “Sei un raggio di sole, Giovanna.” Diceva,
passandomi vicino. Cercavo di essere fredda,
professionale, ma la paura mi logorava. “E se mi sbaglio
a tenerlo a distanza? Se perdo tutto?” Una sera, mentre
sparecchiavo, Mauro mi sfiorò la mano. Trasalii, ma non
mi ritrassi subito. Il suo tocco, per un istante, mi
fece sentire meno insicura, come se comunque fosse
andata avrei avuto un paracadute a disposizione.
“Smettila di combattere, Giovanna.” Disse piano. “Non
vuoi una vita più facile?” Quelle parole si insinuarono
dentro di me, come un veleno dolce.
Tornando a
casa, mi guardai allo specchio. Ero stanca, con le mie
occhiaie che raccontavano notti insonni. Pensai a
Beatrice, che mi aveva chiesto un nuovo zaino per la
scuola. “Mamma, il mio è tutto rotto.” Aveva detto, con
quel tono innocente che mi spezzava. Pensai ad Armando,
chiuso nella stanza degli ospiti, che non mi toccava
più, che non mi vedeva più. Pensai alle tante
responsabilità. E poi pensai a Mauro: il suo potere di
rendere la mia vita più semplice, come se con uno
schiocco di dita tutto improvvisamente sarebbe diventato
più facile.
Un sabato sera, mentre chiudevamo il
locale, Mauro si avvicinò di nuovo. “Giovanna, smettila
di tormentarti. Non voglio farti del male. Mettimi alla
prova.” Il suo tono era morbido, quasi sincero. Mi
guardava come se fossi l’unica persona al mondo. E io,
esausta, schiacciata dal peso di tutto, non lo respinsi.
“Va bene, Mauro.” Sussurrai. “Ma non chiedermi troppo.
Almeno non subito.” Lui sorrise, posandomi una mano sul
braccio. “Tranquilla. Andremo piano.” Uscii dal
ristorante con il cuore in gola, sapendo che avevo
oltrepassato una linea. Non era più solo un bacio. Era
una resa. Per Beatrice, per la casa, per una vita che
non potevo più sostenere da sola. Ma dentro di me, una
voce gridava: “Cosa stai diventando, Giovanna?” Non
l’ascoltai perché una parte di me era già crollata.
La domenica lasciai di proposito la macchina a casa.
Presi l’autobus per andare al ristorante. Era un gioco
pericoloso, ma non vedevo alternative. Quando entrai nel
locale, Mauro, vedendomi arrivare tutta trafelata, mi
intercettò subito. Stava sistemando una bottiglia di
vino al bancone, il suo sguardo come sempre acuto,
pronto a cogliere ogni dettaglio. “Ehi, tutto bene,
Giovanna? Dove hai lasciato la macchina?” Chiese, con
quel tono che mescolava curiosità e una punta di
divertimento. Sapevo che avrebbe notato la mia
agitazione, e avevo preparato la risposta. “Stasera, non
è partita, solita sfortuna!” Mentii. “Ho preso
l’autobus, ma ho sbagliato a calcolare i tempi. Mi sono
messa a correre e ora sono tutta sudata…” Aprii il
soprabito con un gesto studiato. Sotto, avevo messo un
tubino nero che avevo scelto con cura prima di uscire,
delle calze autoreggenti e un paio di tacchi alti che
non indossavo da anni. Speravo che Mauro attento ai
dettagli e all’eleganza notasse, ma allo stesso tempo
temevo che lo facesse.
Lui sorrise. “Stai
benissimo, sudata o no.” Disse, con una voce che mi fece
rabbrividire. Non risposi, limitandomi a un mezzo
sorriso, e mi misi al lavoro. Ma durante la serata,
sentivo i suoi occhi su di me. Ogni volta che passavo
con un vassoio, che servivo un tavolo, che mi chinavo
per raccogliere una posata caduta, sapevo che stava
osservando le mie gambe. Era come se il ristorante, con
i suoi tavoli eleganti e il panorama di Roma che
scintillava oltre le vetrate, fosse diventato un
palcoscenico per un gioco che non volevo giocare, ma che
non potevo evitare. All’ora di chiusura, ormai pronta
per uscire, Mauro si avvicinò. “Stasera ti accompagno
io, Giovanna.” Disse, appoggiando una mano sul bancone,
il tono fermo, senza spazio per discussioni. “Non voglio
scuse.”
Mi fermai ad osservarlo. Una parte di me
voleva rifiutare, correre fuori, prendere un altro
autobus, ma l’altra, quella che aveva preparato il
piano, rispose: “Va bene, Grazie.” Lui annuì,
soddisfatto, e mi indicò la porta sul retro. “Aspettami,
finisco qui e andiamo.” Mentre lo aspettavo fuori,
l’aria fresca della notte romana mi colpì il viso. Le
strade della Balduina erano silenziose, rotte solo dal
rumore lontano di qualche auto di passaggio. Mi strinsi
nel cappotto con il tubino nero che mi aderiva alla
pelle come una seconda colpa. “Cosa sto facendo?”
Pensai, per l’ennesima volta. Ma la paura di perdere
tutto era più forte del senso di colpa. Quando Mauro
uscì, con le chiavi della sua BMW che tintinnavano in
mano, mi guardò con un’intensità che mi fece sentire
nuda. “Andiamo.” Disse, aprendomi la portiera. Salii con
un’emozione diversa sapendo che ogni passo che facevo mi
allontanava da chi ero stata, ma dentro di me ero
decisa.
L’abitacolo odorava di un leggero profumo
maschile, il suo. Le luci della Balduina sfrecciavano
fuori dal finestrino, frammenti di Roma che si perdevano
nella notte. Avevo lasciato la macchina a casa di
proposito, avevo scelto quell’outfit sapendo cosa
avrebbe scatenato. Ma ora, seduta lì, con Mauro che
guidava in silenzio, sentivo un nodo allo stomaco. “Devo
essere più leggera.” Pensai e allora incrociai le gambe,
un gesto lento e calcolato. Lo feci una seconda volta,
lasciando che il fruscio delle calze rompesse il
silenzio. Vidi il suo sguardo scivolare verso di me,
rapido, prima di tornare sulla strada. Il suo respiro
cambiò, più pesante. Non disse nulla, ma la tensione
nell’aria era palpabile, come un filo teso pronto a
spezzarsi. Mi morsi il labbro, combattuta. Una parte di
me voleva scendere, correre via, tornare alla Giovanna
che non avrebbe mai permesso tutto questo. Ma l’altra
parte, mi teneva inchiodata al sedile.
All’improvviso, Mauro svoltò in uno spiazzo isolato sul
Lungotevere dove i lampioni non arrivavano. Spense il
motore, e il silenzio ci avvolse, rotto solo dal
ticchettio dell’auto che si raffreddava. Si voltò verso
di me, gli occhi accesi di un desiderio che non cercava
più di nascondere. “Giovanna, non ce la faccio più.” Si
avvicinò, il suo viso a pochi centimetri dal mio. Mi
baciò, e questa volta non fu il bacio timido dell’altra
sera. Profondo, urgente, carico di un’intenzione che mi
fece tremare. Le sue mani trovarono il mio viso, le mie
spalle per poi scivolare lungo il tubino, seguendo le
curve che avevo volutamente messo in mostra. Non fermai
quelle mani. Le sue dita sfiorarono le calze, indugiando
sul bordo, e il mio cuore batté più forte, un misto di
paura, vergogna e una strana, colpevole eccitazione.
Sentivo le sue dita calde e decise, che si muovevano
esperte quasi a testare i limiti del mio consenso ed
ogni centimetro della mia pelle guadagnato era un altro
centimetro da conquistare.
Il mio respiro si
fece corto, intrappolato tra il desiderio di
abbandonarmi e il tumulto di pensieri che mi gridavano
di fermarmi. Ma lo lasciai fare anche quando quelle dita
raggiunsero l’orlo della mia biancheria e si insinuarono
oltre, con una delicatezza che contrastava con la
passione dei suoi baci. Il mio corpo reagì prima della
mia mente: un fremito, un’arcata involontaria della
schiena. La mia intimità rispose al suo tocco, tradendo
ogni resistenza. Istintivamente presi la sua mano e
la strinsi forte contro di me e l’eccitazione mi avvolse
come un fuoco che non potevo spegnere, lasciandomi
sospesa tra il piacere e il peso di ciò che stavo
permettendo.
Emisi un lungo e sottile gemito e
ansimando, lo guardai: volevo dirgli che ero stata bene,
ma aspettavo la sua richiesta, sapendo benissimo che
avrei dovuto ricambiare, ma Mauro come al solito mi
sorprese. Si fermò. Si tirò indietro, il respiro
affannoso: “Sei stata bene tesoro?” Annuii e lui:
“Giovanna. Tu sei una donna che merita di più di un
parcheggio squallido come questo.” Mi guardò, gli occhi
che cercavano i miei nella penombra. “Fermiamoci qui.
Domani sera… c’è un motel vicino al ristorante. Dimmi
che verrai. Ti prego.” Le sue parole erano un misto di
supplica e comando. Mi sentii nuda, ma anche
intrappolata in un gioco che avevo iniziato io stessa.
Un motel sarebbe stato altro, qualcosa di serio, voluto
e impegnativo. Pensai, ma oramai ero in gioco: “Va
bene.” Sussurrai, la voce così debole che quasi non la
riconobbi. “Ci sarò.” Mauro sorrise: “Brava.” Disse
piano, posandomi una mano sulla calza. “Ti porto a casa
ora.” Riavviò il motore, e il viaggio verso casa mia fu
un silenzio pesante. Mi guardavo le mani, strette in
grembo, mentre Roma scorreva fuori, indifferente. Per la
prima volta avevo aperto le gambe ad un uomo che non era
mio marito, lui mi aveva fatto godere e se avesse
voluto, quella sera, sarei anche andata oltre! Il senso
di colpa mi soffocava, ma c’era anche una strana
rassegnazione. “È per Beatrice.” Mi ripetevo, come un
mantra. “È per tenere tutto insieme. Loro mi
perdoneranno.”
|
CONTINUA LA LETTURA
Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale. IMMAGINE GENERATA DA
IA
© All rights
reserved Adamo Bencivenga
LEGGI GLI ALTRI RACCONTI
© Tutti i diritti riservati
Il presente racconto è tutelato dai diritti d'autore.
L'utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma, senza il consenso
dell'autore



Tutte
le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi
autori. Qualora l'autore ritenesse
improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione
verrà ritirata immediatamente. (All
images and materials are copyright protected and are the
property of their respective authors.and are the
property of their respective authors.If the
author deems improper use, they will be deleted from our
site upon notification.) Scrivi a
liberaeva@libero.it
COOKIE
POLICY
TORNA SU (TOP)
LiberaEva Magazine
Tutti i diritti Riservati
Contatti

|
|