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ROMANZO BREVE Seconda Parte

Adamo Bencivenga
L'AMORE AL TEMPO
DELLE AGENZIE MATRIMONIALI

L’invito al Grand
Hotel e la cena vicino via del Corso Qualche
giorno dopo ricevetti una telefonata dalla signora
Adele. La sua voce era insolitamente entusiasta. “Signor
Martelli, ho una proposta speciale per lei. Sabato
pomeriggio, l’Agenzia Cuore d’Oro sarà premiata al Grand
Hotel di Roma. Siamo arrivati terzi in un concorso
nazionale per le agenzie matrimoniali che hanno
combinato più matrimoni nell’ultimo anno. Un bel
riconoscimento, non trova? Vorrei che venisse con me al
ricevimento. Ci saranno molte persone, coppie che si
sono conosciute grazie a noi… Voglio mostrarle che non
tutto è perduto, che c’è speranza anche per lei.”
Rimasi per un attimo sorpreso, ma l’idea di vedere il
frutto del lavoro di Adele mi incuriosiva, e lei era
così entusiasta che non me la sentii di deluderla. “Va
bene, ci sarò.” Risposi.
Sapendo che fosse una
serata di gala, mi presentai al Grand Hotel con un
completo grigio scuro comprato apposta per l’occasione,
la cravatta ben annodata e i capelli pettinati con cura.
Come avevo previsto l’atmosfera era sfarzosa ed
elegante. Lampadari di cristallo, camerieri in livrea,
un’orchestra che suonava melodie leggere. Adele era
magnifica, in un abito da sera color zaffiro che metteva
in risalto la sua eleganza senza tempo. Quando mi vide,
mi accolse con un sorriso radioso. “Signor Martelli, che
piacere! Sono contenta che sia qui!” Insolitamente mi
prese sotto braccio dicendomi: “Venga, venga che le
presento alcune delle nostre coppie felici.”
C’era un falegname di Trastevere che aveva sposato una
sarta, una bibliotecaria che aveva trovato l’amore con
un avvocato, persino un ex soldato che, dopo anni di
solitudine, aveva incontrato una vedova con cui ora
gestiva una piccola pensione a Ostia. Le loro storie
erano commoventi, ma invece di ispirarmi, mi avevano
fatto sentire ancora più fuori posto: “Perché io non ero
tra loro? Perché non ci riuscivo?” Ma la mia tristezza
non spense la contentezza di Adele che tra quelle coppie
si sentiva una benefattrice.
Poi, prima della
premiazione, un signore distinto e molto elegante,
salito sul piccolo palco, elogiando l’attività di tutti
coloro che avevano portato felicità in quelle coppie,
fece un po’ di storia ricordando che le prime agenzie
erano nate in Francia nel 1800, sotto forma di “agenzie
di lavoro” e offrivano una serie di servizi tra i quali
quello della conoscenza tra persone. La necessità di
tali agenzie era senza dubbio in parte legata all’esodo
rurale che allontanava i giovani dalle reti di
conoscenze delle loro famiglie nelle campagne e si
ritrovavano persi nelle grandi città in completa
solitudine. Poi ricordò un certo Claude Villiaume, da
sempre riconosciuto come l’inventore della prima agenzia
di questo tipo nel 1811, e il nobile M. de Foy, il primo
a creare nel 1825 la prima vera agenzia strettamente
“matrimoniale”. Il successo fu così assicurato che dopo
alcuni anni nella sola Parigi erano sorte più di 150
agenzie.
Finito il ricevimento, la signora Adele,
ancora sulle ali di una contentezza straripante, mi
propose di tornare in agenzia a piedi. “È una serata
troppo bella… Anzi, sa cosa le dico? Facciamo un giro un
po’ più largo.” E infilandoci i soprabiti uscimmo e
iniziammo a camminare in direzione di Via Veneto. Le
luci dei caffè, il brusio della città e l’allegria di
Adele non mi fecero sentire più leggero e, mentre
passeggiavamo, non riuscii a trattenere la mia
frustrazione. “Signora Adele, forse sono io il
problema.” Dissi, con un tono più amaro di quanto
volessi. “Tre incontri, e nessuna è stata quella giusta.
Forse non sono fatto per questo tipo di incontri. Forse
il destino ha deciso che debba passare il resto della
mia vita in completa solitudine.”
Adele si fermò
e con aria severa disse: “Signor Martelli, non dica
sciocchezze. Lei è un uomo sensibile, con un cuore
grande. Non è colpa sua se non ha ancora trovato la
persona giusta. L’amore non è una gara, è un viaggio.”
Poi, con un sorriso più morbido, aggiunse: “Senta, la
vedo triste ed io stasera non ho voglia di tornare
subito a casa. Conosco un piccolo ristorante qui vicino,
di un caro amico. Di solito ci ceno da sola, ma mi
farebbe piacere se mi accompagnasse. Che ne dice? Lei ha
qualche impegno?” Non avevo nulla da fare e,
sorpreso, ma anche lusingato, accettai. Il
ristorante, nascosto in una stretta traversa di Via del
Corso, era un luogo familiare e accogliente, con
tovaglie a quadri e candele sui tavoli. Ci sedemmo in un
angolo tranquillo, e il proprietario, un uomo corpulento
con un grembiule macchiato, salutò Adele con un
abbraccio caloroso. “La solita bottiglia di Chianti,
Adele?” Chiese strizzandole l’occhio.
La cena con
fettuccine al ragù, un’insalata di pomodori freschi e un
bicchiere di vino rosso fu semplice, ma deliziosa. La
conversazione, minuto dopo minuto, prese un tono sempre
più confidenziale. Adele si lasciò andare ai suoi
ricordi di come aveva aperto l’agenzia e, dopo la morte
di Vittorio di come il lavoro le desse uno scopo, ma
anche una certa malinconia. “Sa, Giovanni… aiutare gli
altri a trovare l’amore è una gioia, ma a volte mi
ricorda cosa ho perso.”
La guardavo, incantato.
La luce della candela accendeva riflessi nei suoi occhi,
e il suo modo di parlare, così sincero e appassionato,
mi faceva dimenticare la differenza d’età. C’era una
sensualità discreta in lei, non ostentata, ma profonda,
mescolata a un calore materno che mi faceva sentire
protetto. Senza pensarci troppo, dissi: “Signora Adele,
se lei fosse nel catalogo dell’agenzia, non avrei dubbi.
Sceglierei lei.” Il silenzio che seguì fu pesante.
Adele, sorpresa e imbarazzata, sorrise nervosamente.
“Giovanni, lei è un uomo pericoloso con le parole…” E
giocherellando con l’anello al dito proseguì. “Sono
lusingata, davvero. Ma tra noi ci sono… beh, molti anni
di differenza. Lei ha bisogno di una donna giovane,
qualcuno con cui costruire una famiglia, crescere dei
figli. Io… io ho già vissuto quella stagione.”
In
quel momento mi sentii a disagio, perché, chissà per
quale motivo o forse per l’atmosfera che si era creata
tra noi, avevo creduto che una confidenza in più fosse
possibile o che in qualche modo le mie parole avessero
avuto un altro effetto. Con un sapore di amaro in bocca,
dissi: “Forse ha ragione, ma lei è una donna speciale,
Adele. Non lo dico per fare il galante. Lo penso
davvero.” Lei mi guardò a lungo, con un’espressione
che non riuscii a decifrare. Poi, posando una mano sulla
mia, ma allo stesso tempo allontanandomi con
discrezione, sospirò: “Grazie, Giovanni. La sua
sincerità è un dono raro. E le prometto una cosa:
troveremo la donna giusta per lei. Non mi arrenderò.”
La cena si concluse con il sapore dolceamaro del
Chianti ancora sulle labbra e un silenzio che non era
solo imbarazzo, ma carico di qualcosa di indefinito.
Quando uscimmo dal ristorante, Roma ci accolse con la
sua bellezza senza tempo, come una donna sensuale che,
pur con gli anni, non smetteva mai di ammaliare. La
notte era tiepida, l’aria profumava di gelsomino. Le
luci dei lampioni si riflettevano sul Tevere, che
scorreva lento e placido, come se anche il fiume si
fosse fermato a contemplare la città.
Passeggiavamo lentamente e Adele si strinse nel
soprabito. “Facciamo un tratto a piedi, Giovanni.”
Propose indicando il Lungotevere. “È una serata troppo
bella per chiudersi in un taxi.” Accettai senza
esitazione, e ci incamminammo lungo il fiume. I platani
che costeggiavano il marciapiede formavano un arco di
foglie sopra di noi, e il suono dell’acqua si confondeva
ai nostri respiri. Roma era viva, e in quel momento
sembrava appartenerci: le cupole illuminate in
lontananza, il profilo di Castel Sant’Angelo che si
stagliava contro il cielo stellato, le risate di una
coppia che passava in vespa. Tutto era perfetto, quasi
troppo, e io mi sentivo come un personaggio di un film,
intrappolato in una scena che non avevo il coraggio di
vivere fino in fondo.
Adele, accanto a me, ogni
tanto vacillava leggermente: i sanpietrini sconnessi del
Lungotevere non erano il terreno ideale per le sue
eleganti décolleté. A un certo punto la vidi inciampare
e io, d’istinto, per sostenerla, la afferrai per i
fianchi. La sua pelle era calda sotto il tessuto leggero
del soprabito e quel contatto, anche per un solo
istante, mi lasciò una sensazione che non riuscivo a
ignorare. “Grazie, Giovanni. Questi tacchi sono
un’idea terribile per le strade di Roma. Ma una donna
deve pur soffrire per l’eleganza, no?”
Mentre
proseguivamo, la conversazione si fece più leggera.
Parlammo di Roma, delle sue contraddizioni, di come
fosse capace di farti sentire al centro del mondo e allo
stesso tempo così piccolo. Adele raccontava aneddoti
della sua giovinezza, di serate danzanti al Gianicolo e
di passeggiate notturne come questa, quando la città
sembrava promettere che tutto fosse possibile. Io
ascoltavo, ma una parte di me era altrove, persa in
pensieri che non avrei dovuto avere. La guardavo,
ammirando la morbidezza dei suoi capelli, il profilo del
suo viso, ancora bello nonostante gli anni, il modo in
cui gesticolava con grazia mentre parlava. Era così
diversa dalle donne che avevo incontrato all’agenzia,
così viva, così reale. E più camminavamo, più sentivo
crescere un desiderio assurdo, irrazionale: volevo
abbracciarla. Non per un gesto galante o per consolarla,
ma perché in quel momento, sotto quella luce, con il
Tevere che scintillava e Roma che ci avvolgeva, mi
sembrava l’unica cosa giusta da fare.
Ma era una
follia. Lo sapevo. Lei era la titolare dell’agenzia, una
donna che aveva vissuto una vita intera, che aveva amato
e perso, che mi vedeva come un cliente o, alla meglio,
come un figlio. Io, Giovanni Martelli, impiegato di
banca, trentadue anni e un gatto come unica compagnia,
chi ero per pensare una cosa del genere? Eppure, quel
pensiero non mi lasciava. Ogni volta che i nostri
sguardi si incrociavano, ogni volta che lei rideva o mi
sfiorava il braccio per sottolineare un punto, ogni
volta che sentivo il suo profumo, il desiderio si faceva
più insistente, come una melodia che non smetteva di
suonarmi in testa. Vorrei prenderla per la vita,
pensavo, attirarla a me, sentire il suo calore contro il
mio petto. Vorrei dirle che non m’importa degli anni,
che non m’importa di niente, solo di questo momento. Ma
poi, soffermandomi sulla sua grazia, su quei modi
gentili, su quell’allure quasi regale, mi sentivo
piccolo e ridicolo. Era una situazione assurda, un sogno
da ragazzo, non da uomo. E tuttavia, quel tormento non
si quietava.
Arrivammo troppo presto sotto il suo
portone, un palazzo d’epoca in una stradina tranquilla
vicino a Piazza Cavour. Adele si fermò, frugando nella
borsa per cercare le chiavi. “Eccoci.” Disse sospirando
e alzando lo sguardo verso di me. “Grazie, Giovanni. È
stata una serata… speciale.” Il suo sorriso era caldo,
sincero, e per un istante mi parve di vedere qualcosa
nei suoi occhi, un’ombra di ciò che provavo io. Ma forse
era solo la mia immaginazione, il riflesso della mia
sciocca speranza. “Grazie a lei, Adele… Non so come
faccia a rendere tutto così… facile.” Lei scosse la
testa. “Non è mai facile, Giovanni, mi creda, ma a
volte, vale la pena provarci.”
Ci guardammo
troppo a lungo. Il silenzio era pesante, carico di tutte
le cose che non potevo dire. Avrei voluto fare un passo
avanti, stringerla, addirittura baciarla, lasciare che
Roma facesse il resto. Ma le mie mani rimasero ferme,
infilate nelle tasche del cappotto. “Buonanotte,
Giovanni.” Si avvicinò stringendomi il braccio e
sfiorandomi la guancia con un bacio leggero, come una
madre, come un’amica, come una parente... “Ci vediamo
presto.” “Buonanotte.” Risposi restando lì, immobile,
guardandole le gambe fasciate da un nero velato di
calze, mentre lei apriva il portone e spariva
nell’androne.
Sotto le stelle di Roma il pensiero
di Adele mi tormentava, una parte di me si chiedeva se
l’amore, quello vero, fosse proprio questo: desiderare
ciò che non puoi avere, e continuare a cercarlo
comunque. Ripensavo comunque alle sue parole. Adele
aveva ragione: l’amore che cercavo era altrove, in una
donna che ancora non conoscevo. Ma quella serata, aveva
lasciato dentro di me una traccia profonda, un misto di
speranza e nostalgia che non riuscivo a scrollarmi di
dosso.
Da mia madre La
domenica successiva, come ogni settimana, presi
l’autobus per andare a trovare mia madre in Prati. Il
cielo era limpido, con un sole che rendeva Roma ancora
più viva, ma dentro di me portavo il peso della serata
con Adele. L’immagine di lei sul Lungotevere, il suono
dei suoi tacchi, il bacio sulla guancia mi tornavano in
mente senza sosta. Mia madre, Teresa, mi accolse con
il solito profumo di ragù che si spandeva dalla cucina.
A sessant’anni, era una donna energica, con i capelli
grigi e un grembiule che sembrava parte di lei.
L’appartamento modesto era pieno di ricordi, foto di
famiglia incorniciate, un crocifisso sopra la porta, il
tavolo apparecchiato con la tovaglia buona che usava
solo la domenica.
Appena mi vide, immancabilmente
disse: “Giovanni, sei sciupato.” E subito dopo: “Tu non
mangi abbastanza. Siediti, che il pranzo è quasi
pronto.” Sapendo quanto fosse inutile protestare, mi
sedetti. Durante il pranzo parlammo: del suo vicino che
si lamentava del rumore, della messa della mattina,
delle rose sul suo balcone che finalmente stavano
fiorendo. Ma sentivo che il discorso sarebbe presto
scivolato sul solito argomento, e infatti, mentre
serviva il caffè, mi fissò con quell’espressione che
conoscevo bene. “Allora, Giovanni… Nessuna novità?
Ancora niente fidanzata?” Arrossii, abbassando lo
sguardo sulla tovaglia. Di solito liquidavo la domanda
con una battuta o un “Non c’è fretta, mamma”, ma quel
giorno qualcosa mi spinse a essere sincero. Forse era il
peso di quella settimana, o forse il bisogno di
condividere con qualcuno ciò che mi frullava in testa.
“Mamma…” Esitai girando più volte il cucchiaino nel
caffè. “Ho fatto una cosa… di cui mi vergogno. Mi sono
iscritto a un’agenzia matrimoniale.” Incredula,
rispose: “Un’agenzia matrimoniale? Tu, Giovanni
Martelli, mio figlio, sei andato a pagare per trovarti
una moglie?” Il suo tono era un misto di paternale e
rimprovero, ma nei suoi occhi c’era anche una curiosità
che non riusciva a nascondere.
“Non è come pensi…
È una cosa seria, discreta. L’agenzia si chiama Cuore
d’Oro, è gestita da una signora molto professionale. Ho
pensato… beh, che magari poteva aiutarmi. Non è facile,
sai, conoscere qualcuno a Roma.” Lei incrociò le
braccia: “Non ci posso credere!” Poi, curiosa, mi
chiese: “E quindi? Com’è andata? Hai conosciuto qualche
ragazza perbene, almeno?” Deglutii, cercando le
parole. “Ci sono stati tre incontri finora. La prima,
Rosetta, era… troppo pratica, non avevamo niente in
comune. La seconda, Teresa, era dolce, ma sembrava più
spaventata dalla vita che pronta a viverla. E poi c’è
stata Laura, un’insegnante… lei è speciale, mamma. Ama
il cinema, la letteratura, ma vuole viaggiare, vedere il
mondo. Io non sono così, non posso darle quello che
cerca.”
Mia madre ascoltò attentamente come se
stesse valutando ogni parola. “E allora? Non c’è nessuna
che ti ha fatto battere il cuore?” Fu allora che,
senza volerlo, dissi: “Beh… c’è la signora Adele…” Le
parole mi uscivano da sole, come un fiume in piena. “È
la titolare dell’agenzia, mamma. Una donna incredibile.
Elegante, intelligente, con una sensibilità che… non so
spiegarlo. Quando parla, quando ti ascolta, capisci? Ha
vissuto tanto, ha una storia, ma è così viva, così…
affascinante. L’altra sera abbiamo cenato insieme, dopo
un ricevimento. Non so, mamma, è come se con lei tutto
avesse senso.”
Mentre parlavo, il mio viso si era
illuminato, e me ne resi conto troppo tardi. Mia madre
mi fissava, la bocca leggermente aperta, come se non
credesse alle sue orecchie. “Adele?” Disse, con un tono
che oscillava tra lo sconcerto e il sospetto. “E quanti
anni ha questa… signora?” Esitai sentendo il terreno
franarmi sotto i piedi. “Beh… sulla cinquantina, credo.
È vedova, ha due figli grandi…” “Cinquanta?!
Giovanni, ma sei impazzito? Una donna di cinquant’anni,
con figli grandi, che gestisce un’agenzia matrimoniale?
E tu ti sei messo in testa di… cosa? Di corteggiarla?”
“No, no, non è così.” Balbettai. “Non dico che voglio
corteggiarla, solo che… mi piace, mi colpisce. È
speciale, mamma.” “Speciale un corno!” A quel punto
alzandosi e sparecchiando nervosamente aggiunse:
“Giovanni, ascoltami bene. Tu hai trentadue anni, sei un
uomo perbene, con un buon lavoro. Devi trovarti una
ragazza seria, della tua età o più giovane, una che
voglia mettere su famiglia, avere figli, costruire una
casa con te. Non una donna che potrebbe essere… quasi
tua madre!” Sapevo che aveva ragione, ma sentirlo
dire così, con quella durezza, mi ferì. “Non è che provo
qualcosa di… sbagliato… È solo che… con lei mi sento
diverso. Mi sento capito.” Tentavo di spiegarmi, ma la
toppa era peggio del buco.
Sospirando, mi prese
la mano: “Giovanni, figlio mio, lo capisco che sei solo,
che cerchi qualcosa di vero. Ma questa Adele, per quanto
sia una gran donna, non è per te. Tu hai bisogno di una
compagna per la vita, non di un sogno che non può
durare. Torna in quell’agenzia, d’accordo, ma per
trovare una ragazza come si deve. Promettimelo.”
Annuii più per vederla rasserenata che per convinzione.
“Va bene, mamma. Te lo prometto.” Quando mi salutò
sulla porta, mi strinse forte: “Pensa al tuo futuro,
Giovanni. Non lasciarti confondere.”
Tornando a
casa, con l’autobus che sobbalzava sui sampietrini, ero
dispiaciuto per averla delusa. Del resto aveva ragione:
Adele non poteva essere la risposta ai miei desideri.
Eppure, il pensiero di lei, del suo sorriso, della sua
voce, continuava a tormentarmi. E mentre guardavo la
città scorrere fuori dal finestrino, mi chiesi se
l’amore fosse davvero una questione di età, o se, forse,
fosse qualcosa di più grande, qualcosa che nessuna
regola poteva contenere.
Il dialogo con
Adele Qualche giorno dopo la serata sul
Lungotevere, ricevetti una lettera dall’Agenzia Cuore
d’Oro. La calligrafia ordinata della signora Adele
annunciava un nuovo incontro, ma chiedeva anche di
passare in agenzia il giorno prima per “discutere alcuni
dettagli”. Non era usuale, e la cosa mi incuriosì, anche
se una parte di me temeva che fosse un modo per
mantenere le distanze dopo la serata al ristorante.
Quando varcai la porta dell’agenzia, il campanello
tintinnò come sempre, e Adele mi accolse dalla sua
scrivania con un sorriso cortese. Indossava un tailleur
grigio perla e nero, i capelli come al solito raccolti,
ma c’era qualcosa di insolito nel suo sguardo.
“Buongiorno, signor Martelli.” Disse, posando la penna.
“Si accomodi, prego. Per non fallire di nuovo, ho
pensato fosse utile parlare un momento prima del
prossimo appuntamento.” Mi sedetti sulla poltroncina
davanti alla scrivania, un po’ a disagio. Cercando
inutilmente di decifrare il suo tono domandai. “C’è
qualcosa che non va?” Lei scosse la testa, ma le sue
mani, di solito così sicure, tormentavano una graffetta
sulla scrivania. “No, nulla di sbagliato. È solo che…
dopo la nostra chiacchierata l’altra sera, ho riflettuto
molto su di lei, su ciò che cerca. La sua confessione al
ristorante “Se lei fosse nel catalogo, sceglierei lei.”
Non lo nego mi ha colpita soprattutto perché l’ho
sentita vera.” Fece una pausa, come se cercasse le
parole giuste. “Sa, Giovanni, questo lavoro mi ha
insegnato che l’amore è una cosa complicata. Quando ero
giovane, dopo la guerra, credevo che fosse un rifugio,
un modo per ricostruire ciò che il mondo aveva
distrutto. Con mio marito, Vittorio… beh, l’ho trovato,
per un po’. Ma poi la vita ti insegna che non basta
volerlo, l’amore. Ci vuole anche il coraggio di
lasciarlo andare, a volte.”
La guardavo,
sorpreso dalla sua premessa. “Cosa intende? Che sono un
tipo irrecuperabile?” Adele sorrise, ma era un sorriso
distante. “Intendo che a volte ci si affeziona alle
persone sbagliate, o al momento sbagliato. Dopo
Vittorio, ho smesso di credere che gli uomini potessero
sorprendermi ancora. Negli anni, ho ricevuto avances,
complimenti, persino proposte velate, ma le ho sempre
respinte con un sorriso cortese. Troppo spesso vogliono
solo ciò che conviene o ciò che brilla di più. Ma lei…
lei è diverso, Giovanni. È sincero, e questo mi ha
spiazzata.”
Le sue parole mi colpirono come un
raggio di sole fisso negli occhi, ma prima che potessi
rispondere, lei si raddrizzò, tornando al suo tono
professionale. “Per questo ho scelto con cura la
prossima persona che incontrerà diversa dai profili che
le ho presentato finora. Ho sbagliato, mi perdoni.
Credevo finora che il profilo adatto a lei fosse una
ragazza con la quale crescere insieme e mettere su
famiglia. Insomma il prossimo incontro sarà con Claudia,
ha quarant’anni, è vedova, come me. È una donna
affascinante, colta, che sa cosa significa amare e
perdere, ma anche come prendere la vita o cogliere
l’attimo. Credo che, dopo averla conosciuta meglio,
possa essere ciò che cerca, ma è anche molto estroversa
e sicura di sé e soprattutto ha imparato dopo diverse
delusioni a vivere alla giornata.”
Così dicendo
mi porse un foglio con il profilo di Claudia, ma i suoi
occhi evitarono i miei, come se temesse di rivelare
troppo. “Perché una donna matura, stavolta?” Chiesi,
incapace di trattenermi. “Dopo Laura, pensavo avrebbe
scelto qualcuna più… giovane.” Adele esitò, poi
rispose, con una voce più bassa. “Perché credo che lei
abbia bisogno di qualcuno che capisca la vita vera,
Giovanni, che la trascini letteralmente. Qualcuno che
dia un senso ai suoi sogni. Protettiva e materna, ma che
abbia già vissuto per essere quel poco e quel tanto
disinibita da non cedere a facili moralismi. E
soprattutto, perché voglio che lei trovi ciò che merita.
Questo è il mio lavoro, no?”
Il suo sorriso era
teso, e per un istante mi sembrò di cogliere una nota di
rammarico, come se quelle parole le costassero più di
quanto volesse ammettere. Non chiesi oltre anche se la
mia mente era un turbine di pensieri e domande. Mi
alzai, stringendo il foglio, e la ringraziai, ma mentre
uscivo dall’agenzia, sentii che quel dialogo aveva
lasciato un segno. Adele aveva detto più di quanto
intendesse, e io, sciocco com’ero, non potevo fare a
meno di chiedermi se quel “lasciar andare” fosse rivolto
a me, o a se stessa.
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Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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