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ROMANZO BREVE
Seconda Parte

 
 
Adamo Bencivenga
L'AMORE AL TEMPO
DELLE AGENZIE MATRIMONIALI

 

 


 
L’invito al Grand Hotel e la cena vicino via del Corso
Qualche giorno dopo ricevetti una telefonata dalla signora Adele. La sua voce era insolitamente entusiasta. “Signor Martelli, ho una proposta speciale per lei. Sabato pomeriggio, l’Agenzia Cuore d’Oro sarà premiata al Grand Hotel di Roma. Siamo arrivati terzi in un concorso nazionale per le agenzie matrimoniali che hanno combinato più matrimoni nell’ultimo anno. Un bel riconoscimento, non trova? Vorrei che venisse con me al ricevimento. Ci saranno molte persone, coppie che si sono conosciute grazie a noi… Voglio mostrarle che non tutto è perduto, che c’è speranza anche per lei.”
Rimasi per un attimo sorpreso, ma l’idea di vedere il frutto del lavoro di Adele mi incuriosiva, e lei era così entusiasta che non me la sentii di deluderla. “Va bene, ci sarò.” Risposi.

Sapendo che fosse una serata di gala, mi presentai al Grand Hotel con un completo grigio scuro comprato apposta per l’occasione, la cravatta ben annodata e i capelli pettinati con cura.
Come avevo previsto l’atmosfera era sfarzosa ed elegante. Lampadari di cristallo, camerieri in livrea, un’orchestra che suonava melodie leggere. Adele era magnifica, in un abito da sera color zaffiro che metteva in risalto la sua eleganza senza tempo. Quando mi vide, mi accolse con un sorriso radioso. “Signor Martelli, che piacere! Sono contenta che sia qui!” Insolitamente mi prese sotto braccio dicendomi: “Venga, venga che le presento alcune delle nostre coppie felici.”

C’era un falegname di Trastevere che aveva sposato una sarta, una bibliotecaria che aveva trovato l’amore con un avvocato, persino un ex soldato che, dopo anni di solitudine, aveva incontrato una vedova con cui ora gestiva una piccola pensione a Ostia. Le loro storie erano commoventi, ma invece di ispirarmi, mi avevano fatto sentire ancora più fuori posto: “Perché io non ero tra loro? Perché non ci riuscivo?” Ma la mia tristezza non spense la contentezza di Adele che tra quelle coppie si sentiva una benefattrice.

Poi, prima della premiazione, un signore distinto e molto elegante, salito sul piccolo palco, elogiando l’attività di tutti coloro che avevano portato felicità in quelle coppie, fece un po’ di storia ricordando che le prime agenzie erano nate in Francia nel 1800, sotto forma di “agenzie di lavoro” e offrivano una serie di servizi tra i quali quello della conoscenza tra persone. La necessità di tali agenzie era senza dubbio in parte legata all’esodo rurale che allontanava i giovani dalle reti di conoscenze delle loro famiglie nelle campagne e si ritrovavano persi nelle grandi città in completa solitudine. Poi ricordò un certo Claude Villiaume, da sempre riconosciuto come l’inventore della prima agenzia di questo tipo nel 1811, e il nobile M. de Foy, il primo a creare nel 1825 la prima vera agenzia strettamente “matrimoniale”. Il successo fu così assicurato che dopo alcuni anni nella sola Parigi erano sorte più di 150 agenzie.

Finito il ricevimento, la signora Adele, ancora sulle ali di una contentezza straripante, mi propose di tornare in agenzia a piedi. “È una serata troppo bella… Anzi, sa cosa le dico? Facciamo un giro un po’ più largo.” E infilandoci i soprabiti uscimmo e iniziammo a camminare in direzione di Via Veneto.
Le luci dei caffè, il brusio della città e l’allegria di Adele non mi fecero sentire più leggero e, mentre passeggiavamo, non riuscii a trattenere la mia frustrazione. “Signora Adele, forse sono io il problema.” Dissi, con un tono più amaro di quanto volessi. “Tre incontri, e nessuna è stata quella giusta. Forse non sono fatto per questo tipo di incontri. Forse il destino ha deciso che debba passare il resto della mia vita in completa solitudine.”

Adele si fermò e con aria severa disse: “Signor Martelli, non dica sciocchezze. Lei è un uomo sensibile, con un cuore grande. Non è colpa sua se non ha ancora trovato la persona giusta. L’amore non è una gara, è un viaggio.” Poi, con un sorriso più morbido, aggiunse: “Senta, la vedo triste ed io stasera non ho voglia di tornare subito a casa. Conosco un piccolo ristorante qui vicino, di un caro amico. Di solito ci ceno da sola, ma mi farebbe piacere se mi accompagnasse. Che ne dice? Lei ha qualche impegno?”
Non avevo nulla da fare e, sorpreso, ma anche lusingato, accettai.
Il ristorante, nascosto in una stretta traversa di Via del Corso, era un luogo familiare e accogliente, con tovaglie a quadri e candele sui tavoli. Ci sedemmo in un angolo tranquillo, e il proprietario, un uomo corpulento con un grembiule macchiato, salutò Adele con un abbraccio caloroso. “La solita bottiglia di Chianti, Adele?” Chiese strizzandole l’occhio.

La cena con fettuccine al ragù, un’insalata di pomodori freschi e un bicchiere di vino rosso fu semplice, ma deliziosa. La conversazione, minuto dopo minuto, prese un tono sempre più confidenziale. Adele si lasciò andare ai suoi ricordi di come aveva aperto l’agenzia e, dopo la morte di Vittorio di come il lavoro le desse uno scopo, ma anche una certa malinconia. “Sa, Giovanni… aiutare gli altri a trovare l’amore è una gioia, ma a volte mi ricorda cosa ho perso.”

La guardavo, incantato. La luce della candela accendeva riflessi nei suoi occhi, e il suo modo di parlare, così sincero e appassionato, mi faceva dimenticare la differenza d’età. C’era una sensualità discreta in lei, non ostentata, ma profonda, mescolata a un calore materno che mi faceva sentire protetto. Senza pensarci troppo, dissi: “Signora Adele, se lei fosse nel catalogo dell’agenzia, non avrei dubbi. Sceglierei lei.”
Il silenzio che seguì fu pesante. Adele, sorpresa e imbarazzata, sorrise nervosamente. “Giovanni, lei è un uomo pericoloso con le parole…” E giocherellando con l’anello al dito proseguì. “Sono lusingata, davvero. Ma tra noi ci sono… beh, molti anni di differenza. Lei ha bisogno di una donna giovane, qualcuno con cui costruire una famiglia, crescere dei figli. Io… io ho già vissuto quella stagione.”

In quel momento mi sentii a disagio, perché, chissà per quale motivo o forse per l’atmosfera che si era creata tra noi, avevo creduto che una confidenza in più fosse possibile o che in qualche modo le mie parole avessero avuto un altro effetto. Con un sapore di amaro in bocca, dissi: “Forse ha ragione, ma lei è una donna speciale, Adele. Non lo dico per fare il galante. Lo penso davvero.”
Lei mi guardò a lungo, con un’espressione che non riuscii a decifrare. Poi, posando una mano sulla mia, ma allo stesso tempo allontanandomi con discrezione, sospirò: “Grazie, Giovanni. La sua sincerità è un dono raro. E le prometto una cosa: troveremo la donna giusta per lei. Non mi arrenderò.”

La cena si concluse con il sapore dolceamaro del Chianti ancora sulle labbra e un silenzio che non era solo imbarazzo, ma carico di qualcosa di indefinito. Quando uscimmo dal ristorante, Roma ci accolse con la sua bellezza senza tempo, come una donna sensuale che, pur con gli anni, non smetteva mai di ammaliare. La notte era tiepida, l’aria profumava di gelsomino. Le luci dei lampioni si riflettevano sul Tevere, che scorreva lento e placido, come se anche il fiume si fosse fermato a contemplare la città.

Passeggiavamo lentamente e Adele si strinse nel soprabito. “Facciamo un tratto a piedi, Giovanni.” Propose indicando il Lungotevere. “È una serata troppo bella per chiudersi in un taxi.” Accettai senza esitazione, e ci incamminammo lungo il fiume. I platani che costeggiavano il marciapiede formavano un arco di foglie sopra di noi, e il suono dell’acqua si confondeva ai nostri respiri. Roma era viva, e in quel momento sembrava appartenerci: le cupole illuminate in lontananza, il profilo di Castel Sant’Angelo che si stagliava contro il cielo stellato, le risate di una coppia che passava in vespa. Tutto era perfetto, quasi troppo, e io mi sentivo come un personaggio di un film, intrappolato in una scena che non avevo il coraggio di vivere fino in fondo.

Adele, accanto a me, ogni tanto vacillava leggermente: i sanpietrini sconnessi del Lungotevere non erano il terreno ideale per le sue eleganti décolleté. A un certo punto la vidi inciampare e io, d’istinto, per sostenerla, la afferrai per i fianchi. La sua pelle era calda sotto il tessuto leggero del soprabito e quel contatto, anche per un solo istante, mi lasciò una sensazione che non riuscivo a ignorare.
“Grazie, Giovanni. Questi tacchi sono un’idea terribile per le strade di Roma. Ma una donna deve pur soffrire per l’eleganza, no?”

Mentre proseguivamo, la conversazione si fece più leggera. Parlammo di Roma, delle sue contraddizioni, di come fosse capace di farti sentire al centro del mondo e allo stesso tempo così piccolo. Adele raccontava aneddoti della sua giovinezza, di serate danzanti al Gianicolo e di passeggiate notturne come questa, quando la città sembrava promettere che tutto fosse possibile. Io ascoltavo, ma una parte di me era altrove, persa in pensieri che non avrei dovuto avere.
La guardavo, ammirando la morbidezza dei suoi capelli, il profilo del suo viso, ancora bello nonostante gli anni, il modo in cui gesticolava con grazia mentre parlava. Era così diversa dalle donne che avevo incontrato all’agenzia, così viva, così reale. E più camminavamo, più sentivo crescere un desiderio assurdo, irrazionale: volevo abbracciarla. Non per un gesto galante o per consolarla, ma perché in quel momento, sotto quella luce, con il Tevere che scintillava e Roma che ci avvolgeva, mi sembrava l’unica cosa giusta da fare.

Ma era una follia. Lo sapevo. Lei era la titolare dell’agenzia, una donna che aveva vissuto una vita intera, che aveva amato e perso, che mi vedeva come un cliente o, alla meglio, come un figlio. Io, Giovanni Martelli, impiegato di banca, trentadue anni e un gatto come unica compagnia, chi ero per pensare una cosa del genere? Eppure, quel pensiero non mi lasciava. Ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano, ogni volta che lei rideva o mi sfiorava il braccio per sottolineare un punto, ogni volta che sentivo il suo profumo, il desiderio si faceva più insistente, come una melodia che non smetteva di suonarmi in testa.
Vorrei prenderla per la vita, pensavo, attirarla a me, sentire il suo calore contro il mio petto. Vorrei dirle che non m’importa degli anni, che non m’importa di niente, solo di questo momento. Ma poi, soffermandomi sulla sua grazia, su quei modi gentili, su quell’allure quasi regale, mi sentivo piccolo e ridicolo. Era una situazione assurda, un sogno da ragazzo, non da uomo. E tuttavia, quel tormento non si quietava.

Arrivammo troppo presto sotto il suo portone, un palazzo d’epoca in una stradina tranquilla vicino a Piazza Cavour. Adele si fermò, frugando nella borsa per cercare le chiavi. “Eccoci.” Disse sospirando e alzando lo sguardo verso di me. “Grazie, Giovanni. È stata una serata… speciale.” Il suo sorriso era caldo, sincero, e per un istante mi parve di vedere qualcosa nei suoi occhi, un’ombra di ciò che provavo io. Ma forse era solo la mia immaginazione, il riflesso della mia sciocca speranza.
“Grazie a lei, Adele… Non so come faccia a rendere tutto così… facile.”
Lei scosse la testa. “Non è mai facile, Giovanni, mi creda, ma a volte, vale la pena provarci.”

Ci guardammo troppo a lungo. Il silenzio era pesante, carico di tutte le cose che non potevo dire. Avrei voluto fare un passo avanti, stringerla, addirittura baciarla, lasciare che Roma facesse il resto. Ma le mie mani rimasero ferme, infilate nelle tasche del cappotto.
“Buonanotte, Giovanni.” Si avvicinò stringendomi il braccio e sfiorandomi la guancia con un bacio leggero, come una madre, come un’amica, come una parente... “Ci vediamo presto.”
“Buonanotte.” Risposi restando lì, immobile, guardandole le gambe fasciate da un nero velato di calze, mentre lei apriva il portone e spariva nell’androne.

Sotto le stelle di Roma il pensiero di Adele mi tormentava, una parte di me si chiedeva se l’amore, quello vero, fosse proprio questo: desiderare ciò che non puoi avere, e continuare a cercarlo comunque. Ripensavo comunque alle sue parole. Adele aveva ragione: l’amore che cercavo era altrove, in una donna che ancora non conoscevo. Ma quella serata, aveva lasciato dentro di me una traccia profonda, un misto di speranza e nostalgia che non riuscivo a scrollarmi di dosso.

Da mia madre
La domenica successiva, come ogni settimana, presi l’autobus per andare a trovare mia madre in Prati. Il cielo era limpido, con un sole che rendeva Roma ancora più viva, ma dentro di me portavo il peso della serata con Adele. L’immagine di lei sul Lungotevere, il suono dei suoi tacchi, il bacio sulla guancia mi tornavano in mente senza sosta.
Mia madre, Teresa, mi accolse con il solito profumo di ragù che si spandeva dalla cucina. A sessant’anni, era una donna energica, con i capelli grigi e un grembiule che sembrava parte di lei. L’appartamento modesto era pieno di ricordi, foto di famiglia incorniciate, un crocifisso sopra la porta, il tavolo apparecchiato con la tovaglia buona che usava solo la domenica.

Appena mi vide, immancabilmente disse: “Giovanni, sei sciupato.” E subito dopo: “Tu non mangi abbastanza. Siediti, che il pranzo è quasi pronto.”
Sapendo quanto fosse inutile protestare, mi sedetti. Durante il pranzo parlammo: del suo vicino che si lamentava del rumore, della messa della mattina, delle rose sul suo balcone che finalmente stavano fiorendo. Ma sentivo che il discorso sarebbe presto scivolato sul solito argomento, e infatti, mentre serviva il caffè, mi fissò con quell’espressione che conoscevo bene.
“Allora, Giovanni… Nessuna novità? Ancora niente fidanzata?”
Arrossii, abbassando lo sguardo sulla tovaglia. Di solito liquidavo la domanda con una battuta o un “Non c’è fretta, mamma”, ma quel giorno qualcosa mi spinse a essere sincero. Forse era il peso di quella settimana, o forse il bisogno di condividere con qualcuno ciò che mi frullava in testa.
“Mamma…” Esitai girando più volte il cucchiaino nel caffè. “Ho fatto una cosa… di cui mi vergogno. Mi sono iscritto a un’agenzia matrimoniale.”
Incredula, rispose: “Un’agenzia matrimoniale? Tu, Giovanni Martelli, mio figlio, sei andato a pagare per trovarti una moglie?” Il suo tono era un misto di paternale e rimprovero, ma nei suoi occhi c’era anche una curiosità che non riusciva a nascondere.

“Non è come pensi… È una cosa seria, discreta. L’agenzia si chiama Cuore d’Oro, è gestita da una signora molto professionale. Ho pensato… beh, che magari poteva aiutarmi. Non è facile, sai, conoscere qualcuno a Roma.”
Lei incrociò le braccia: “Non ci posso credere!” Poi, curiosa, mi chiese: “E quindi? Com’è andata? Hai conosciuto qualche ragazza perbene, almeno?”
Deglutii, cercando le parole. “Ci sono stati tre incontri finora. La prima, Rosetta, era… troppo pratica, non avevamo niente in comune. La seconda, Teresa, era dolce, ma sembrava più spaventata dalla vita che pronta a viverla. E poi c’è stata Laura, un’insegnante… lei è speciale, mamma. Ama il cinema, la letteratura, ma vuole viaggiare, vedere il mondo. Io non sono così, non posso darle quello che cerca.”

Mia madre ascoltò attentamente come se stesse valutando ogni parola. “E allora? Non c’è nessuna che ti ha fatto battere il cuore?”
Fu allora che, senza volerlo, dissi: “Beh… c’è la signora Adele…” Le parole mi uscivano da sole, come un fiume in piena. “È la titolare dell’agenzia, mamma. Una donna incredibile. Elegante, intelligente, con una sensibilità che… non so spiegarlo. Quando parla, quando ti ascolta, capisci? Ha vissuto tanto, ha una storia, ma è così viva, così… affascinante. L’altra sera abbiamo cenato insieme, dopo un ricevimento. Non so, mamma, è come se con lei tutto avesse senso.”

Mentre parlavo, il mio viso si era illuminato, e me ne resi conto troppo tardi. Mia madre mi fissava, la bocca leggermente aperta, come se non credesse alle sue orecchie. “Adele?” Disse, con un tono che oscillava tra lo sconcerto e il sospetto. “E quanti anni ha questa… signora?”
Esitai sentendo il terreno franarmi sotto i piedi. “Beh… sulla cinquantina, credo. È vedova, ha due figli grandi…”
“Cinquanta?! Giovanni, ma sei impazzito? Una donna di cinquant’anni, con figli grandi, che gestisce un’agenzia matrimoniale? E tu ti sei messo in testa di… cosa? Di corteggiarla?”
“No, no, non è così.” Balbettai. “Non dico che voglio corteggiarla, solo che… mi piace, mi colpisce. È speciale, mamma.”
“Speciale un corno!” A quel punto alzandosi e sparecchiando nervosamente aggiunse: “Giovanni, ascoltami bene. Tu hai trentadue anni, sei un uomo perbene, con un buon lavoro. Devi trovarti una ragazza seria, della tua età o più giovane, una che voglia mettere su famiglia, avere figli, costruire una casa con te. Non una donna che potrebbe essere… quasi tua madre!”
Sapevo che aveva ragione, ma sentirlo dire così, con quella durezza, mi ferì. “Non è che provo qualcosa di… sbagliato… È solo che… con lei mi sento diverso. Mi sento capito.” Tentavo di spiegarmi, ma la toppa era peggio del buco.

Sospirando, mi prese la mano: “Giovanni, figlio mio, lo capisco che sei solo, che cerchi qualcosa di vero. Ma questa Adele, per quanto sia una gran donna, non è per te. Tu hai bisogno di una compagna per la vita, non di un sogno che non può durare. Torna in quell’agenzia, d’accordo, ma per trovare una ragazza come si deve. Promettimelo.”
Annuii più per vederla rasserenata che per convinzione. “Va bene, mamma. Te lo prometto.”
Quando mi salutò sulla porta, mi strinse forte: “Pensa al tuo futuro, Giovanni. Non lasciarti confondere.”

Tornando a casa, con l’autobus che sobbalzava sui sampietrini, ero dispiaciuto per averla delusa. Del resto aveva ragione: Adele non poteva essere la risposta ai miei desideri. Eppure, il pensiero di lei, del suo sorriso, della sua voce, continuava a tormentarmi. E mentre guardavo la città scorrere fuori dal finestrino, mi chiesi se l’amore fosse davvero una questione di età, o se, forse, fosse qualcosa di più grande, qualcosa che nessuna regola poteva contenere.

Il dialogo con Adele
Qualche giorno dopo la serata sul Lungotevere, ricevetti una lettera dall’Agenzia Cuore d’Oro. La calligrafia ordinata della signora Adele annunciava un nuovo incontro, ma chiedeva anche di passare in agenzia il giorno prima per “discutere alcuni dettagli”. Non era usuale, e la cosa mi incuriosì, anche se una parte di me temeva che fosse un modo per mantenere le distanze dopo la serata al ristorante.

Quando varcai la porta dell’agenzia, il campanello tintinnò come sempre, e Adele mi accolse dalla sua scrivania con un sorriso cortese. Indossava un tailleur grigio perla e nero, i capelli come al solito raccolti, ma c’era qualcosa di insolito nel suo sguardo. “Buongiorno, signor Martelli.” Disse, posando la penna. “Si accomodi, prego. Per non fallire di nuovo, ho pensato fosse utile parlare un momento prima del prossimo appuntamento.”
Mi sedetti sulla poltroncina davanti alla scrivania, un po’ a disagio. Cercando inutilmente di decifrare il suo tono domandai. “C’è qualcosa che non va?”
Lei scosse la testa, ma le sue mani, di solito così sicure, tormentavano una graffetta sulla scrivania. “No, nulla di sbagliato. È solo che… dopo la nostra chiacchierata l’altra sera, ho riflettuto molto su di lei, su ciò che cerca. La sua confessione al ristorante “Se lei fosse nel catalogo, sceglierei lei.” Non lo nego mi ha colpita soprattutto perché l’ho sentita vera.” Fece una pausa, come se cercasse le parole giuste. “Sa, Giovanni, questo lavoro mi ha insegnato che l’amore è una cosa complicata. Quando ero giovane, dopo la guerra, credevo che fosse un rifugio, un modo per ricostruire ciò che il mondo aveva distrutto. Con mio marito, Vittorio… beh, l’ho trovato, per un po’. Ma poi la vita ti insegna che non basta volerlo, l’amore. Ci vuole anche il coraggio di lasciarlo andare, a volte.”

La guardavo, sorpreso dalla sua premessa. “Cosa intende? Che sono un tipo irrecuperabile?” Adele sorrise, ma era un sorriso distante. “Intendo che a volte ci si affeziona alle persone sbagliate, o al momento sbagliato. Dopo Vittorio, ho smesso di credere che gli uomini potessero sorprendermi ancora. Negli anni, ho ricevuto avances, complimenti, persino proposte velate, ma le ho sempre respinte con un sorriso cortese. Troppo spesso vogliono solo ciò che conviene o ciò che brilla di più. Ma lei… lei è diverso, Giovanni. È sincero, e questo mi ha spiazzata.”

Le sue parole mi colpirono come un raggio di sole fisso negli occhi, ma prima che potessi rispondere, lei si raddrizzò, tornando al suo tono professionale. “Per questo ho scelto con cura la prossima persona che incontrerà diversa dai profili che le ho presentato finora. Ho sbagliato, mi perdoni. Credevo finora che il profilo adatto a lei fosse una ragazza con la quale crescere insieme e mettere su famiglia. Insomma il prossimo incontro sarà con Claudia, ha quarant’anni, è vedova, come me. È una donna affascinante, colta, che sa cosa significa amare e perdere, ma anche come prendere la vita o cogliere l’attimo. Credo che, dopo averla conosciuta meglio, possa essere ciò che cerca, ma è anche molto estroversa e sicura di sé e soprattutto ha imparato dopo diverse delusioni a vivere alla giornata.”

Così dicendo mi porse un foglio con il profilo di Claudia, ma i suoi occhi evitarono i miei, come se temesse di rivelare troppo. “Perché una donna matura, stavolta?” Chiesi, incapace di trattenermi. “Dopo Laura, pensavo avrebbe scelto qualcuna più… giovane.”
Adele esitò, poi rispose, con una voce più bassa. “Perché credo che lei abbia bisogno di qualcuno che capisca la vita vera, Giovanni, che la trascini letteralmente. Qualcuno che dia un senso ai suoi sogni. Protettiva e materna, ma che abbia già vissuto per essere quel poco e quel tanto disinibita da non cedere a facili moralismi. E soprattutto, perché voglio che lei trovi ciò che merita. Questo è il mio lavoro, no?”

Il suo sorriso era teso, e per un istante mi sembrò di cogliere una nota di rammarico, come se quelle parole le costassero più di quanto volesse ammettere. Non chiesi oltre anche se la mia mente era un turbine di pensieri e domande. Mi alzai, stringendo il foglio, e la ringraziai, ma mentre uscivo dall’agenzia, sentii che quel dialogo aveva lasciato un segno. Adele aveva detto più di quanto intendesse, e io, sciocco com’ero, non potevo fare a meno di chiedermi se quel “lasciar andare” fosse rivolto a me, o a se stessa.




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Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.


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