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ROMANZO BREVE
Prima Parte

 
 
Adamo Bencivenga
LA GRANDE BELLEZZA
In una Roma decadente, tra emozioni contrastanti, desiderio, rimorso e un intreccio di legami familiari e ambiguità morali, si dipana la storia di Adelaide ed Edoardo, ufficialmente fratello e sorella.
 

 


 
Il tramonto si spalmava a strati sui tetti e le terrazze di Roma come un liquore rosso e vellutato versato male che colava lento su Villa Borghese tingendo di porpora e ambra le cupole lontane e i profili spigolosi dei pini marini.
La luce passita si insinuava tra i rami, accendendo riflessi di fuoco sulle vetrate della nostra terrazza al Pincio, dove il vetro catturava ogni sfumatura: dal cremisi profondo al rosa fragile di un petalo caduto. L’aria tiepida era colma d’odore di resina e gelsomino e sembrava trattenere il respiro della città, mentre il cielo si scioglieva in un abbraccio languido, come se Roma stessa si abbandonasse, per un istante, alla dolcezza di quella sera.

Io ero lì, sdraiato su una chaise longue di pelle bianca e, con bicchiere di Negroni in mano, guardavo con estremo interesse il ghiaccio che si scioglieva lento. Mia sorella passeggiava scalza sul marmo nero, facendo attenzione a non calpestare i fasci di luce che si irradiavano a raggiera sul pavimento. Quella luce morente accendeva il profilo dei suoi capelli castani, trasformandoli in fili d’oro. Il vestito di seta color champagne aderiva al suo corpo come una seconda pelle, accarezzandole le cosce e il ventre magro a ogni passo. Adelaide aveva trent’anni, due meno di me, ma il suo viso portava una stanchezza antica, un’ombra che il lusso non riusciva a cancellare. Mi persi a guardarla, come facevo sempre, senza sapere perché.

“Ti annoi, vero, Edoardo?” Disse lei fermandosi a pochi passi da me. Una sigaretta sottile tra le dita, il rossetto rosso che le screpolava le labbra come un frutto troppo maturo. La sua voce come seta sfiorò la mia pelle: “Mi annoio da quando siamo nati.” Risposi, posando il bicchiere sul tavolino di cristallo con un tintinnio che sembrò troppo forte nel silenzio. Poi aggiunsi: “È il prezzo della bellezza, no? Tutto questo che ci circonda non ti fa desiderare altro…” Dissi indicando il panorama, le statue neoclassiche nude che ci fissavano mute e i camerieri che scivolavano via come fantasmi.”

Lei rise, avvicinandosi si sedette sul bordo della mia chaise, abbastanza vicina da farmi sentire il suo profumo di tuberosa che mi stordiva ogni volta. Lo stesso di nostra madre, pensai, prima che sparisse con quel regista francese dai capelli unti. “Tu mi desideri ancora, fratellino, vero? Disse maliziosa, piegandosi verso di me. I suoi occhi verdi brillavano come vetri rotti. “Lo vedo.” Aggiunse. “Lì, sotto la tua pelle, che scalpita. Solo che non sai dargli un nome.”

“E tu lo sai, Adelaide?” Risposi con la voce roca, il Negroni che mi bruciava la gola. Mi mossi appena, abbastanza da sfiorarle il ginocchio. “Illuminami, ti prego. Cos’è che voglio, secondo te?”
“Me…” Disse, senza battere ciglio, con un’espressione femmina e pericolosa. Poi si chinò ancora, il suo respiro mi sfiorò il viso, caldo e dolce di gin. “O forse vuoi allontanarti da me? È sempre stato così, Edoardo. Mi giri intorno come un’ape, mi sfiori, mi circuisci ossa e ragione, ma non osi mai andare dove ti porterebbe il tuo piacere. In fin dei conti sei sempre stato un codardo sotto quell’apparente cinismo.”

Non risposi subito. La guardai, le vene del suo meraviglioso collo lungo pulsavano appena sotto la pelle, un dettaglio che adoravo. Eravamo cresciuti in quel palazzo di specchi e ori, un mausoleo che nostro padre aveva riempito di amanti, champagne e tele di Caravaggio, fino a morire lasciandoci tutto: i soldi, i silenzi, la solitudine, la paura del mondo fuori e quel legame che ci stringeva come un nodo. Non eravamo mai stati solo fratello e sorella, tra noi c’era qualcosa di più, un’ombra che danzava nei nostri sguardi, nei bicchieri di vino, sui tappeti persiani, nelle dita che si cercavano al buio delle feste.
“Ti ricordi quella sera a Capri?” Chiese lei, spezzando il silenzio. Si chinò a prendere il mio Negroni, le sue dita che scivolarono sulle mie, lente, deliberate, lasciando una scia di fuoco sulla pelle.
“Quale delle tante?” Finsi, ma sapendo bene a cosa si riferisse. L’estate dei nostri vent’anni, la villa sul mare, la festa che si era dissolta lasciandoci soli sulla scogliera, il vento salato che ci spingeva l’uno contro l’altra. Forse per il troppo alcol lei si era spogliata lasciando alla mia vista il suo seno nudo e perfetto. Avevamo ballato, i corpi sudati e troppo vicini, le sue mani che mi stringevano il collo, il mio respiro che si perdeva nei suoi capelli. Non era successo niente, o forse tutto.

“Quella in cui mi hai detto che ero l’unica cosa bella di questa vita schifosa…” Rispose, bevendo un sorso dal mio bicchiere. Le sue labbra avvolsero il bicchiere come un bacio asincrono. Mi fissò sopra il bordo del cristallo: “Era una bugia?”
“No.” Dissi, la voce che mi tradiva, bassa, spezzata. “Ma non cambia niente. Siamo incastrati, Adelaide. Tu, io e questa gabbia d’oro.”
“Incastrati insieme!” Sussurrò inclinando leggermente la testa, poi aggiunse: “Non ti piace? Io che ti tengo al guinzaglio, tu che mi respiri addosso. Potremmo distruggerci ogni notte e ricomporci all’alba, come un rituale.”
“Un rituale perverso.” Dissi, alzandomi a sedere. “E chi vince, alla fine?”
“Nessuno.” Rispose lei: “O forse io, se ti facessi crollare per prima.” Già era una sfida, un maledetto gioco che andava avanti da anni, simile a quello da bambini quando fissandoci intensamente perdeva chi sorrideva per prima.

Adelaide a quel punto si alzò e con il vestito che frusciava leggero si avvicinò alla balaustra. Roma brillava sotto di noi. “Sai qual è il problema, Edoardo?” Disse, voltandosi appena e tenendo stretta tra le dita la sigaretta che le danzava come un’amante. “Il dubbio! Quel desiderio eterno che non sappiamo identificare ed a cui non diamo un nome. Tu mi ami ed anche io ti amo, ma non come fratello e sorella. Ci nutriamo e ci saziamo dei nostri sguardi, così intensi, esclusivi e pieni di quel convincimento che non ne troveremo negli occhi di altri. E tutto ciò rimane sospeso, come una piuma che danza leggera nell’aria e mai cade, perché quell’eterno volteggio è esattamente il nostro dubbio.”

“Non dire cazzate!” Replicai, ma mi alzai, attirato da lei come sempre. Le presi la sigaretta, la accesi con l’accendino d’argento di papà, e gliela restituii. Le mie dita indugiarono sulle sue, sfiorandole i polpastrelli. “Sei Adelaide. La mia regina decaduta. Non hai bisogno di me per brillare.”
“E tu sei Edoardo…” Disse, tirando una boccata di fumo che le velò il viso come un bacio. “Il principe che mi guarda come se fossi carne da divorare o un’icona da adorare. Dimmi la verità: cosa vuoi da me? Dimmelo, ora. Ammettilo! Anzi dillo a te stesso!”
“Non lo so, Adelaide!” Ammisi. “Ti guardo e vedo tutto: la bambina che mi tormentava, la ragazza a seno nudo che mi stringeva a Capri, la donna che ora mi sta davanti. Voglio toccarti, Adelaide. Voglio sentire se sei reale o solo un sogno che mi fotte la testa.”

“Allora fallo!” Sussurrò lei, il fumo che le usciva dalle labbra come un invito. Si avvicinò, il suo seno che sfiorava il mio petto, il vestito che si tendeva sul suo corpo. “Toccami. Spezzami. Baciami. Ma non guardarmi così inconcludente. Mi uccide, Edoardo.”
“Lo so che stai giocando, sai che mai lo farei, ma se ora non mi fermassi?” Chiesi, la mano che saliva al suo viso, le dita che le sfioravano la guancia, tremando. “Se passo quel confine? Che sarà di noi, dopo?”

Rise: “Ma non è questo che ti tormenta Edo. So che ti stai chiedendo chi in caso avrebbe vinto e chi perso!” I suoi occhi si chiusero per un istante, le sue labbra a forma di bacio divennero sempre più invitanti. “Se non fossi mia sorella, ti avrei già strappato quel bicchiere e ti avrei presa qui, su questa terrazza, fino a farti urlare...”
Mi fissò: “Ma sono tua sorella! E questo ti mangia vivo. Ed è proprio questo il bello, il limite, il proibito, perché se fossi una delle tue tante sciacquette sarei un confine incustodito senza dogana.”

Era vero, ma cercai di andare oltre: “Conosci i giochi di ruolo vero? Potremmo fingere di essere altro…” Mi guardò perplessa: “Ma siamo noi, al cuore non si mente…” La incalzai: “E se per un attimo non fossi tuo fratello? Ci hai mai pensato veramente?” Chiesi con la mia mia mano che scivolava lungo il suo collo, il battito della sua vena sotto le dita.
“Lo sei, non farmi queste domande! Non posso vederti altro, ma ti seguirei…” Disse, premendosi contro di me con le sue labbra a un respiro dalle mie.

Restammo lì con i corpi intrecciati senza toccarci, il fumo della sua sigaretta che ci avvolgeva come un sudario. La sera come un sipario di velluto si stava chiudendo su di noi e la grande bellezza di questa città ci avvolgeva sospesi tra il desiderio e la caduta, come amanti mai confessati. Eravamo ricchi, vuoti, e disperatamente vivi, fratello e sorella,
Adelaide si era allontanata dalla balaustra, io ero rimasto fermo, con quelle parole che mi bruciavano ancora nella mente: “Se non fossi mia sorella…” Praticamente un coltello, affilato e seducente, che ci teneva incatenati a un confine che non osavamo valicare. Ma non era la prima volta che ci trovavamo così vicini al bordo di quel precipizio. E non sarebbe stata l’ultima.

Adelaide era stata sempre così, spontanea e possessiva con quel fuoco dentro che ardeva ed usava ad arte per essere sempre al centro dell’attenzione, per essere sempre la prima, la più bella. Quando mi presentavo a casa con qualche compagnia femminile lei non diceva mai nulla di esplicito, ma il suo sguardo, affilato come una lama, diceva tutto. Faceva la sua apparizione in sala con la sua aria trasognante e un calice di rosso in mano: “Oh, non sapevo avessimo ospiti…” Diceva, con quel tono morbido che nascondeva un veleno sottile. Le ragazze si sentivano subito fuori posto, come intruse in un regno che apparteneva solo a lei. Bastavano pochi minuti della sua presenza, un commento tagliente, mascherato da gentilezza, un sorriso abbozzato, e loro sparivano, inventando scuse, lasciando dietro di sé solo il profumo di Chanel e il mio silenzio.

Ma il vero inferno era stato quando mi ero fidanzato con Giulia. Era diversa dalle altre: una restauratrice d’arte che non si lasciava intimidire dal nostro mondo di cristalli. Per la prima volta, avevo pensato che fosse quella giusta. Adelaide lo aveva capito subito. All’inizio, era stata gentile, troppo gentile. Invitava Giulia alle nostre cene, le faceva complimenti sui suoi restauri, le offriva champagne Krug come se fosse acqua. Ma io vedevo il modo in cui stringeva il bicchiere, le unghie laccate sempre un po’ più lunghe e un po’ più rosse della rivale. Vedevo il modo in cui si muoveva, l’aria lasciva e i gesti studiati per attirare l’attenzione di Giulia, per farla sentire inadeguata e comunque non alla sua altezza.

Poi pian piano era passata al contrattacco. “Dimenticava” di avvisarmi quando Giulia chiamava, lasciava in giro foto di me con altre donne, raccontava aneddoti delle mie notti folli come se fossero storielle innocenti e di poco conto, ridendo con quella voce che era seta e spine. Una sera, durante una cena, aveva versato “sbadatamente” del vino rosso sul vestito bianco di Giulia, scusandosi con un’esagerazione che puzzava di teatro. “Oh, tesoro, sono così maldestra!” Aveva detto, mentre Giulia, mortificata, cercava di tamponare la macchia. Non era stato un incidente. Lo sapevo. Giulia lo sapeva. E quando, poche settimane dopo, mi aveva lasciato, citando “differenze inconciliabili”, avevo visto Adelaide sorridere, un sorriso trionfante, mentre mescolava il suo Martini.

“Sei libero, fratellino.” Mi disse quella sera, posandomi una mano sulla spalla fingendo di consolarmi. “Meglio così, no? Non era alla tua altezza. Spero che lo considererai un favore…” Non avevo risposto. Non ce n’era bisogno. Adelaide aveva vinto, come sempre. Ma quella vittoria aveva un prezzo: ogni volta che distruggeva qualcosa di mio, un pezzo di lei si spezzava. Lo vedevo nei suoi occhi, in quel lampo di dolore che nascondeva dietro il rossetto e il suo cinismo. Era gelosa, sì, ma non solo di me. Era gelosa del nostro essere, benessere o malessere che fosse, di chiunque minacciasse di portarmi via dal nostro mondo, dal nostro limbo dorato, dal nostro amore malato.

Lei era la regina assoluta di quella terrazza e di quel palazzo e certamente nostro padre Umberto era il suo re decaduto. Il loro rapporto era stato per me un autentico enigma, una tela intrecciata di amore e ambiguità. Lui era stato un uomo magnetico, un produttore cinematografico con mani grandi e occhi che promettevano il mondo. Le donne cadevano ai suoi piedi, e lui le raccoglieva come fiori, una dopo l’altra, senza mai guardarsi indietro. Nostra madre, Beatrice, lo sapeva, del resto lui non era un uomo da una donna sola. Lei con i capelli ebano e un’eleganza che faceva voltare le teste continuava a suonare il suo pianoforte a coda al centro della sala.

Livia Virginia Adelaide era nata in una tempesta di seta e champagne, seconda figlia di Umberto e Beatrice, due anni dopo di me, in una clinica privata affacciata sul Tevere. Era il 1992, e Roma era un vortice di eccessi, di feste che duravano fino all’alba, di promesse sussurrate tra i tavoli dei caffè di Piazza Navona. Nostra madre, Beatrice, era una pianista di fama, con dita che danzavano su tasti d’avorio e occhi che sembravano vedere oltre il mondo. Nostro padre, Umberto, era il suo opposto: un produttore cinematografico con un sorriso da predatore, un uomo che costruiva sogni e li vendeva al miglior offerente. Adelaide era arrivata come un fulmine, con un pianto che aveva fatto tremare i cristalli del lampadario nella sala d’attesa. “È perfetta!” Aveva detto mio padre, tenendola tra le braccia, e già allora, in quel primo sguardo, c’era qualcosa di possessivo, di esclusivo.

La nostra infanzia era stata un quadro di Caravaggio: luci abbaglianti e ombre profonde. Vivevamo in un palazzo con veduta sul Pincio, un labirinto di stanze con soffitti affrescati, tappeti persiani e tele di maestri rinascimentali appese come trofei. Adelaide era la luce di quel mondo. A tre anni, già camminava con la grazia di una ballerina, i capelli castani che le cadevano in onde perfette, gli occhi verdi che catturavano chiunque la guardasse. Io ero il fratello maggiore, il principe silenzioso, ma lei era la regina, anche allora. Nostro padre la adorava in un modo che non riservava a me. La portava con sé ovunque: negli studi cinematografici, dove lei giocava tra i riflettori, o alle cene con attori e registi, dove sedeva sulle sue ginocchia, rubando olive dai piatti degli ospiti. Già, a lei era tutto concesso.

Nostra madre, era un’ombra in quei momenti. Amava Adelaide, certo, ma il suo amore era distante, come se temesse di spezzarla con un abbraccio troppo forte. Spesso era in tournée, le sue mani impegnate a suonare Chopin in teatri lontani, e quando tornava, trovava Adelaide sempre più legata a Umberto. Ricordo una sera, avevo sedici anni, quando li ho sorpresi nel salone: Adelaide, in un vestito di pizzo bianco, ballava un valzer improvvisato con nostro padre, ridendo mentre lui la faceva girare. Mia madre era sulla porta, il viso pallido, un bicchiere di vino in mano. “È la tua principessa, vero?” Aveva detto, con un sorriso che non era un sorriso. Lui aveva riso, ma non aveva risposto. Quella notte, avevo sentito i loro litigi attraverso le pareti, parole come “ossessione” e “inappropriato” che allora non capivo.

Quando Adelaide compì quindici anni, mia madre sparì. Un biglietto lasciato sul pianoforte: “Non posso più vivere così. Perdonatemi.” Era partita con un regista francese. Da quel momento, Adelaide si era aggrappata a nostro padre con una devozione che rasentava il culto. Umberto, forse per colpa, forse per debolezza, l’aveva accolta nel suo mondo senza riserve. La portava a eventi dove le donne lo guardavano con invidia e gli uomini con qualcosa di più oscuro. Adelaide non era solo sua figlia; era la sua compagna di scena, la sua luce in un mondo che stava iniziando a sgretolarsi sotto il peso dei debiti e degli scandali. Io, invece, ero relegato al ruolo di spettatore, geloso di quel legame, ma troppo giovane per capire cosa mi disturbasse davvero.

La maggiore età di Adelaide fu un’esplosione di bellezza e ribellione. A diciotto anni, era già una donna, con il suo corpo aggraziato che attirava gli sguardi e un sorriso che prometteva guai. Mio padre la trattava come un trofeo, presentandola a registi e produttori come “la futura star del cinema italiano”. Lei, però, non voleva recitare. Voleva vivere. Si buttava nelle feste, nei locali esclusivi di Roma, nelle notti che finivano all’alba con il mascara colato e il sapore di gin sulle labbra. Io la seguivo, a volte per proteggerla, a volte perché non potevo fare a meno di lei. Eravamo legati da un filo invisibile, un misto di amore fraterno e qualcosa di più pericoloso, che si accendeva nei momenti sbagliati, come quella sera a Capri, quando i nostri corpi si erano sfiorati troppo a lungo.

Ma il rapporto con nostro padre restava il centro del suo universo. Adelaide era la sua ombra, sempre al suo fianco alle prime dei film, alle cene con i divi, ai gala in cui il suo vestito brillava più delle stelle. Lui la guardava con un orgoglio che non era solo paterno. C’era qualcosa di più, qualcosa che mi faceva stringere i pugni sotto il tavolo. La chiamava “la mia musa”, le accarezzava la guancia in pubblico, le copriva le spalle, le comprava gioielli come fosse un’amante.

Lui era invecchiato, il suo fascino appannato dagli anni, dalle attricette e dal whisky, ma per Adelaide era ancora un Dio. Passavano ore nel suo studio, a parlare di film, di arte, di sogni che non si sarebbero mai realizzati. A volte, li trovavo troppo vicini sospesi in un’intimità che mi faceva ribollire il sangue. Una notte, avevo circa ventidue anni, li avevo spiati dalla porta socchiusa. Adelaide era seduta sulla scrivania, un bicchiere di vino in mano, mio padre di fronte a lei, che le parlava a voce bassa, le dita che le sfioravano il polso, un gesto troppo intimo, troppo morbido. Non avevo sentito le parole, ma il modo in cui si guardavano mi aveva fatto sentire un intruso, un escluso. Non avevo detto nulla, ma quella scena mi aveva scavato dentro. Il dubbio si era insinuato in me. “E se Adelaide non fosse solo la figlia prediletta? E se avesse preso il posto di nostra madre?” No, no non avrei potuto accettarlo!

E quel momento non fu l’unico. La nostra casa era sempre piena di gente e si trasformava spesso in un palcoscenico, con lampadari che scintillavano come stelle e il profumo di champagne che saturava l’aria. Avevo ventidue anni, i capelli ancora ribelli e l’arroganza di chi si crede invincibile. La festa era per il lancio di un film di papà, un melodramma che nessuno avrebbe ricordato, ma che quella sera sembrava il centro dell’universo. Gli ospiti si muovevano come ombre tra i tavoli, mentre un valzer lento avvolgeva il salone. Mi ero ritirato in un angolo, un bicchiere di whisky in mano, osservando la scena come un estraneo. Poi li vidi. Adelaide indossava un vestito di seta nera e ballava con nostro padre al centro della sala. Umberto, con il suo smoking impeccabile, la teneva stretta, troppo stretta, una mano sulla sua vita, l’altra che le sfiorava la schiena nuda. Ridevano complici e i loro movimenti così fluidi sembravano un unico corpo. Gli occhi di Adelaide brillavano, non per il riflesso dei lampadari, ma per lui, per il modo in cui Umberto la guardava: come se fosse l’unica donna al mondo, la sua musa, la sua creazione.
Non potevo distogliere lo sguardo. La sua mano, quella di papà, scivolò più in basso, appena sopra il bordo del vestito, un gesto che sarebbe potuto sembrare innocente, ma che a me parve un’invasione. Lei non si ritrasse. Anzi, inclinò la testa all’indietro, ridendo, i capelli che ondeggiavano come un sipario, e lui le sussurrò qualcosa all’orecchio, qualcosa che la fece arrossire, che le fece mordere il labbro. Gli ospiti intorno sorridevano, qualcuno applaudiva, ma io vedevo solo loro: un quadro che non capivo, ma che mi tagliava dentro come un coltello. Mi avvicinai, spinto da un impulso che non sapevo nominare, ma Adelaide mi notò. Mi lanciò uno sguardo, breve, affilato, come a dire: Non qui, Edoardo. Questo è il mio momento. Umberto non si accorse di me, o forse non gli importava. Continuò a guidarla nel valzer, il suo pollice che accarezzava il fianco di lei, un gesto troppo intimo, troppo possessivo. Ero geloso, sì, ma non solo di lei. Ero geloso di lui, del potere che aveva su di lei, della luce che lei riservava solo a lui. In quel momento, capii che non ero solo suo fratello; ero un rivale, condannato a guardarla da lontano mentre lei si perdeva in un uomo che non avrebbe mai dovuto guardarla così.

Più tardi, quando la musica si spense e gli ospiti iniziarono a diradarsi, la trovai sola sulla terrazza, un bicchiere di champagne in mano, lo sguardo perso su Roma. “Ti sei divertito, fratellino?” Mi chiese, con quella voce che era seta e veleno. Non risposi. Non potevo. Il dubbio si era insinuato in me, un veleno lento: e se Adelaide non fosse solo la figlia prediletta? E se quel valzer fosse stato qualcosa di più, un preludio o peggio una consacrazione a un’intimità che non potevo accettare? Lei lo sapeva, lo vedevo nel modo in cui mi guardava, come se mi sfidasse a chiedere, a spezzare il silenzio. Ma non lo feci. Eppure, quel momento rimase incastrato in me, una spina che non potevo estirpare, una gelosia che mi avrebbe spinto, anni dopo, a volerla per me, a strapparla a lui, a quel ricordo che ancora ci teneva prigionieri.

Quel dubbio mi aveva tormentato per anni. Non avevo mai avuto il coraggio di chiederglielo, ma ogni volta che Umberto le comprava un gioiello sentivo una fitta di gelosia, un misto di rabbia e disgusto, perché quel gioiello rappresentava qualcosa di più, come il prezzo che si paga ad un’amante dopo una notte d’amore.

Ero geloso, lo ammetto. Di nostro padre, ma soprattutto di ciò che Adelaide diventava con lui. Quando erano insieme, io sparivo. Lei rideva più forte, parlava con una sicurezza che non aveva con me, si muoveva come se il mondo le appartenesse. Mi chiedevo continuamente, con un nodo in gola, se Adelaide avesse davvero preso il posto di nostra madre non solo nel cuore di mio padre, ma anche nel suo letto. Quel pensiero era un veleno, una spina che non potevo estirpare. Non avevo prove, solo dubbi, ma i dubbi erano abbastanza per farmi odiare mio padre, Adelaide invece l’amavo, l’avevo sempre amata.




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Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.


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