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ROMANZO BREVE Prima Parte

Adamo Bencivenga
LA GRANDE BELLEZZA
In una Roma decadente, tra emozioni
contrastanti, desiderio, rimorso e un intreccio di legami familiari
e ambiguità morali, si dipana la storia di Adelaide ed Edoardo,
ufficialmente fratello e sorella.

Il tramonto si spalmava a
strati sui tetti e le terrazze di Roma come un liquore
rosso e vellutato versato male che colava lento su Villa
Borghese tingendo di porpora e ambra le cupole lontane e
i profili spigolosi dei pini marini. La luce passita
si insinuava tra i rami, accendendo riflessi di fuoco
sulle vetrate della nostra terrazza al Pincio, dove il
vetro catturava ogni sfumatura: dal cremisi profondo al
rosa fragile di un petalo caduto. L’aria tiepida era
colma d’odore di resina e gelsomino e sembrava
trattenere il respiro della città, mentre il cielo si
scioglieva in un abbraccio languido, come se Roma stessa
si abbandonasse, per un istante, alla dolcezza di quella
sera.
Io ero lì, sdraiato su una chaise longue di
pelle bianca e, con bicchiere di Negroni in mano,
guardavo con estremo interesse il ghiaccio che si
scioglieva lento. Mia sorella passeggiava scalza sul
marmo nero, facendo attenzione a non calpestare i fasci
di luce che si irradiavano a raggiera sul pavimento.
Quella luce morente accendeva il profilo dei suoi
capelli castani, trasformandoli in fili d’oro. Il
vestito di seta color champagne aderiva al suo corpo
come una seconda pelle, accarezzandole le cosce e il
ventre magro a ogni passo. Adelaide aveva trent’anni,
due meno di me, ma il suo viso portava una stanchezza
antica, un’ombra che il lusso non riusciva a cancellare.
Mi persi a guardarla, come facevo sempre, senza sapere
perché.
“Ti annoi, vero, Edoardo?” Disse lei
fermandosi a pochi passi da me. Una sigaretta sottile
tra le dita, il rossetto rosso che le screpolava le
labbra come un frutto troppo maturo. La sua voce come
seta sfiorò la mia pelle: “Mi annoio da quando siamo
nati.” Risposi, posando il bicchiere sul tavolino di
cristallo con un tintinnio che sembrò troppo forte nel
silenzio. Poi aggiunsi: “È il prezzo della bellezza, no?
Tutto questo che ci circonda non ti fa desiderare
altro…” Dissi indicando il panorama, le statue
neoclassiche nude che ci fissavano mute e i camerieri
che scivolavano via come fantasmi.”
Lei rise,
avvicinandosi si sedette sul bordo della mia chaise,
abbastanza vicina da farmi sentire il suo profumo di
tuberosa che mi stordiva ogni volta. Lo stesso di nostra
madre, pensai, prima che sparisse con quel regista
francese dai capelli unti. “Tu mi desideri ancora,
fratellino, vero? Disse maliziosa, piegandosi verso di
me. I suoi occhi verdi brillavano come vetri rotti. “Lo
vedo.” Aggiunse. “Lì, sotto la tua pelle, che scalpita.
Solo che non sai dargli un nome.”
“E tu lo sai,
Adelaide?” Risposi con la voce roca, il Negroni che mi
bruciava la gola. Mi mossi appena, abbastanza da
sfiorarle il ginocchio. “Illuminami, ti prego. Cos’è che
voglio, secondo te?” “Me…” Disse, senza battere
ciglio, con un’espressione femmina e pericolosa. Poi si
chinò ancora, il suo respiro mi sfiorò il viso, caldo e
dolce di gin. “O forse vuoi allontanarti da me? È sempre
stato così, Edoardo. Mi giri intorno come un’ape, mi
sfiori, mi circuisci ossa e ragione, ma non osi mai
andare dove ti porterebbe il tuo piacere. In fin dei
conti sei sempre stato un codardo sotto quell’apparente
cinismo.”
Non risposi subito. La guardai, le vene
del suo meraviglioso collo lungo pulsavano appena sotto
la pelle, un dettaglio che adoravo. Eravamo cresciuti in
quel palazzo di specchi e ori, un mausoleo che nostro
padre aveva riempito di amanti, champagne e tele di
Caravaggio, fino a morire lasciandoci tutto: i soldi, i
silenzi, la solitudine, la paura del mondo fuori e quel
legame che ci stringeva come un nodo. Non eravamo mai
stati solo fratello e sorella, tra noi c’era qualcosa di
più, un’ombra che danzava nei nostri sguardi, nei
bicchieri di vino, sui tappeti persiani, nelle dita che
si cercavano al buio delle feste. “Ti ricordi quella
sera a Capri?” Chiese lei, spezzando il silenzio. Si
chinò a prendere il mio Negroni, le sue dita che
scivolarono sulle mie, lente, deliberate, lasciando una
scia di fuoco sulla pelle. “Quale delle tante?”
Finsi, ma sapendo bene a cosa si riferisse. L’estate dei
nostri vent’anni, la villa sul mare, la festa che si era
dissolta lasciandoci soli sulla scogliera, il vento
salato che ci spingeva l’uno contro l’altra. Forse per
il troppo alcol lei si era spogliata lasciando alla mia
vista il suo seno nudo e perfetto. Avevamo ballato, i
corpi sudati e troppo vicini, le sue mani che mi
stringevano il collo, il mio respiro che si perdeva nei
suoi capelli. Non era successo niente, o forse tutto.
“Quella in cui mi hai detto che ero l’unica cosa
bella di questa vita schifosa…” Rispose, bevendo un
sorso dal mio bicchiere. Le sue labbra avvolsero il
bicchiere come un bacio asincrono. Mi fissò sopra il
bordo del cristallo: “Era una bugia?” “No.” Dissi, la
voce che mi tradiva, bassa, spezzata. “Ma non cambia
niente. Siamo incastrati, Adelaide. Tu, io e questa
gabbia d’oro.” “Incastrati insieme!” Sussurrò
inclinando leggermente la testa, poi aggiunse: “Non ti
piace? Io che ti tengo al guinzaglio, tu che mi respiri
addosso. Potremmo distruggerci ogni notte e ricomporci
all’alba, come un rituale.” “Un rituale perverso.”
Dissi, alzandomi a sedere. “E chi vince, alla fine?”
“Nessuno.” Rispose lei: “O forse io, se ti facessi
crollare per prima.” Già era una sfida, un maledetto
gioco che andava avanti da anni, simile a quello da
bambini quando fissandoci intensamente perdeva chi
sorrideva per prima.
Adelaide a quel punto si
alzò e con il vestito che frusciava leggero si avvicinò
alla balaustra. Roma brillava sotto di noi. “Sai qual è
il problema, Edoardo?” Disse, voltandosi appena e
tenendo stretta tra le dita la sigaretta che le danzava
come un’amante. “Il dubbio! Quel desiderio eterno che
non sappiamo identificare ed a cui non diamo un nome. Tu
mi ami ed anche io ti amo, ma non come fratello e
sorella. Ci nutriamo e ci saziamo dei nostri sguardi,
così intensi, esclusivi e pieni di quel convincimento
che non ne troveremo negli occhi di altri. E tutto ciò
rimane sospeso, come una piuma che danza leggera
nell’aria e mai cade, perché quell’eterno volteggio è
esattamente il nostro dubbio.”
“Non dire
cazzate!” Replicai, ma mi alzai, attirato da lei come
sempre. Le presi la sigaretta, la accesi con l’accendino
d’argento di papà, e gliela restituii. Le mie dita
indugiarono sulle sue, sfiorandole i polpastrelli. “Sei
Adelaide. La mia regina decaduta. Non hai bisogno di me
per brillare.” “E tu sei Edoardo…” Disse, tirando una
boccata di fumo che le velò il viso come un bacio. “Il
principe che mi guarda come se fossi carne da divorare o
un’icona da adorare. Dimmi la verità: cosa vuoi da me?
Dimmelo, ora. Ammettilo! Anzi dillo a te stesso!”
“Non lo so, Adelaide!” Ammisi. “Ti guardo e vedo tutto:
la bambina che mi tormentava, la ragazza a seno nudo che
mi stringeva a Capri, la donna che ora mi sta davanti.
Voglio toccarti, Adelaide. Voglio sentire se sei reale o
solo un sogno che mi fotte la testa.”
“Allora
fallo!” Sussurrò lei, il fumo che le usciva dalle labbra
come un invito. Si avvicinò, il suo seno che sfiorava il
mio petto, il vestito che si tendeva sul suo corpo.
“Toccami. Spezzami. Baciami. Ma non guardarmi così
inconcludente. Mi uccide, Edoardo.” “Lo so che stai
giocando, sai che mai lo farei, ma se ora non mi
fermassi?” Chiesi, la mano che saliva al suo viso, le
dita che le sfioravano la guancia, tremando. “Se passo
quel confine? Che sarà di noi, dopo?”
Rise: “Ma
non è questo che ti tormenta Edo. So che ti stai
chiedendo chi in caso avrebbe vinto e chi perso!” I suoi
occhi si chiusero per un istante, le sue labbra a forma
di bacio divennero sempre più invitanti. “Se non fossi
mia sorella, ti avrei già strappato quel bicchiere e ti
avrei presa qui, su questa terrazza, fino a farti
urlare...” Mi fissò: “Ma sono tua sorella! E questo
ti mangia vivo. Ed è proprio questo il bello, il limite,
il proibito, perché se fossi una delle tue tante
sciacquette sarei un confine incustodito senza dogana.”
Era vero, ma cercai di andare oltre: “Conosci i
giochi di ruolo vero? Potremmo fingere di essere altro…”
Mi guardò perplessa: “Ma siamo noi, al cuore non si
mente…” La incalzai: “E se per un attimo non fossi tuo
fratello? Ci hai mai pensato veramente?” Chiesi con la
mia mia mano che scivolava lungo il suo collo, il
battito della sua vena sotto le dita. “Lo sei, non
farmi queste domande! Non posso vederti altro, ma ti
seguirei…” Disse, premendosi contro di me con le sue
labbra a un respiro dalle mie.
Restammo lì con i
corpi intrecciati senza toccarci, il fumo della sua
sigaretta che ci avvolgeva come un sudario. La sera come
un sipario di velluto si stava chiudendo su di noi e la
grande bellezza di questa città ci avvolgeva sospesi tra
il desiderio e la caduta, come amanti mai confessati.
Eravamo ricchi, vuoti, e disperatamente vivi, fratello e
sorella, Adelaide si era allontanata dalla
balaustra, io ero rimasto fermo, con quelle parole che
mi bruciavano ancora nella mente: “Se non fossi mia
sorella…” Praticamente un coltello, affilato e
seducente, che ci teneva incatenati a un confine che non
osavamo valicare. Ma non era la prima volta che ci
trovavamo così vicini al bordo di quel precipizio. E non
sarebbe stata l’ultima.
Adelaide era stata sempre
così, spontanea e possessiva con quel fuoco dentro che
ardeva ed usava ad arte per essere sempre al centro
dell’attenzione, per essere sempre la prima, la più
bella. Quando mi presentavo a casa con qualche compagnia
femminile lei non diceva mai nulla di esplicito, ma il
suo sguardo, affilato come una lama, diceva tutto.
Faceva la sua apparizione in sala con la sua aria
trasognante e un calice di rosso in mano: “Oh, non
sapevo avessimo ospiti…” Diceva, con quel tono morbido
che nascondeva un veleno sottile. Le ragazze si
sentivano subito fuori posto, come intruse in un regno
che apparteneva solo a lei. Bastavano pochi minuti della
sua presenza, un commento tagliente, mascherato da
gentilezza, un sorriso abbozzato, e loro sparivano,
inventando scuse, lasciando dietro di sé solo il profumo
di Chanel e il mio silenzio.
Ma il vero inferno
era stato quando mi ero fidanzato con Giulia. Era
diversa dalle altre: una restauratrice d’arte che non si
lasciava intimidire dal nostro mondo di cristalli. Per
la prima volta, avevo pensato che fosse quella giusta.
Adelaide lo aveva capito subito. All’inizio, era stata
gentile, troppo gentile. Invitava Giulia alle nostre
cene, le faceva complimenti sui suoi restauri, le
offriva champagne Krug come se fosse acqua. Ma io vedevo
il modo in cui stringeva il bicchiere, le unghie laccate
sempre un po’ più lunghe e un po’ più rosse della
rivale. Vedevo il modo in cui si muoveva, l’aria lasciva
e i gesti studiati per attirare l’attenzione di Giulia,
per farla sentire inadeguata e comunque non alla sua
altezza.
Poi pian piano era passata al
contrattacco. “Dimenticava” di avvisarmi quando Giulia
chiamava, lasciava in giro foto di me con altre donne,
raccontava aneddoti delle mie notti folli come se
fossero storielle innocenti e di poco conto, ridendo con
quella voce che era seta e spine. Una sera, durante una
cena, aveva versato “sbadatamente” del vino rosso sul
vestito bianco di Giulia, scusandosi con un’esagerazione
che puzzava di teatro. “Oh, tesoro, sono così
maldestra!” Aveva detto, mentre Giulia, mortificata,
cercava di tamponare la macchia. Non era stato un
incidente. Lo sapevo. Giulia lo sapeva. E quando, poche
settimane dopo, mi aveva lasciato, citando “differenze
inconciliabili”, avevo visto Adelaide sorridere, un
sorriso trionfante, mentre mescolava il suo Martini.
“Sei libero, fratellino.” Mi disse quella sera,
posandomi una mano sulla spalla fingendo di consolarmi.
“Meglio così, no? Non era alla tua altezza. Spero che lo
considererai un favore…” Non avevo risposto. Non ce
n’era bisogno. Adelaide aveva vinto, come sempre. Ma
quella vittoria aveva un prezzo: ogni volta che
distruggeva qualcosa di mio, un pezzo di lei si
spezzava. Lo vedevo nei suoi occhi, in quel lampo di
dolore che nascondeva dietro il rossetto e il suo
cinismo. Era gelosa, sì, ma non solo di me. Era gelosa
del nostro essere, benessere o malessere che fosse, di
chiunque minacciasse di portarmi via dal nostro mondo,
dal nostro limbo dorato, dal nostro amore malato.
Lei era la regina assoluta di quella terrazza e di
quel palazzo e certamente nostro padre Umberto era il
suo re decaduto. Il loro rapporto era stato per me un
autentico enigma, una tela intrecciata di amore e
ambiguità. Lui era stato un uomo magnetico, un
produttore cinematografico con mani grandi e occhi che
promettevano il mondo. Le donne cadevano ai suoi piedi,
e lui le raccoglieva come fiori, una dopo l’altra, senza
mai guardarsi indietro. Nostra madre, Beatrice, lo
sapeva, del resto lui non era un uomo da una donna sola.
Lei con i capelli ebano e un’eleganza che faceva voltare
le teste continuava a suonare il suo pianoforte a coda
al centro della sala.
Livia Virginia Adelaide
era nata in una tempesta di seta e champagne, seconda
figlia di Umberto e Beatrice, due anni dopo di me, in
una clinica privata affacciata sul Tevere. Era il 1992,
e Roma era un vortice di eccessi, di feste che duravano
fino all’alba, di promesse sussurrate tra i tavoli dei
caffè di Piazza Navona. Nostra madre, Beatrice, era una
pianista di fama, con dita che danzavano su tasti
d’avorio e occhi che sembravano vedere oltre il mondo.
Nostro padre, Umberto, era il suo opposto: un produttore
cinematografico con un sorriso da predatore, un uomo che
costruiva sogni e li vendeva al miglior offerente.
Adelaide era arrivata come un fulmine, con un pianto che
aveva fatto tremare i cristalli del lampadario nella
sala d’attesa. “È perfetta!” Aveva detto mio padre,
tenendola tra le braccia, e già allora, in quel primo
sguardo, c’era qualcosa di possessivo, di esclusivo.
La nostra infanzia era stata un quadro di
Caravaggio: luci abbaglianti e ombre profonde. Vivevamo
in un palazzo con veduta sul Pincio, un labirinto di
stanze con soffitti affrescati, tappeti persiani e tele
di maestri rinascimentali appese come trofei. Adelaide
era la luce di quel mondo. A tre anni, già camminava con
la grazia di una ballerina, i capelli castani che le
cadevano in onde perfette, gli occhi verdi che
catturavano chiunque la guardasse. Io ero il fratello
maggiore, il principe silenzioso, ma lei era la regina,
anche allora. Nostro padre la adorava in un modo che non
riservava a me. La portava con sé ovunque: negli studi
cinematografici, dove lei giocava tra i riflettori, o
alle cene con attori e registi, dove sedeva sulle sue
ginocchia, rubando olive dai piatti degli ospiti. Già, a
lei era tutto concesso.
Nostra madre, era
un’ombra in quei momenti. Amava Adelaide, certo, ma il
suo amore era distante, come se temesse di spezzarla con
un abbraccio troppo forte. Spesso era in tournée, le sue
mani impegnate a suonare Chopin in teatri lontani, e
quando tornava, trovava Adelaide sempre più legata a
Umberto. Ricordo una sera, avevo sedici anni, quando li
ho sorpresi nel salone: Adelaide, in un vestito di pizzo
bianco, ballava un valzer improvvisato con nostro padre,
ridendo mentre lui la faceva girare. Mia madre era sulla
porta, il viso pallido, un bicchiere di vino in mano. “È
la tua principessa, vero?” Aveva detto, con un sorriso
che non era un sorriso. Lui aveva riso, ma non aveva
risposto. Quella notte, avevo sentito i loro litigi
attraverso le pareti, parole come “ossessione” e
“inappropriato” che allora non capivo.
Quando
Adelaide compì quindici anni, mia madre sparì. Un
biglietto lasciato sul pianoforte: “Non posso più vivere
così. Perdonatemi.” Era partita con un regista francese.
Da quel momento, Adelaide si era aggrappata a nostro
padre con una devozione che rasentava il culto. Umberto,
forse per colpa, forse per debolezza, l’aveva accolta
nel suo mondo senza riserve. La portava a eventi dove le
donne lo guardavano con invidia e gli uomini con
qualcosa di più oscuro. Adelaide non era solo sua
figlia; era la sua compagna di scena, la sua luce in un
mondo che stava iniziando a sgretolarsi sotto il peso
dei debiti e degli scandali. Io, invece, ero relegato al
ruolo di spettatore, geloso di quel legame, ma troppo
giovane per capire cosa mi disturbasse davvero.
La maggiore età di Adelaide fu un’esplosione di bellezza
e ribellione. A diciotto anni, era già una donna, con il
suo corpo aggraziato che attirava gli sguardi e un
sorriso che prometteva guai. Mio padre la trattava come
un trofeo, presentandola a registi e produttori come “la
futura star del cinema italiano”. Lei, però, non voleva
recitare. Voleva vivere. Si buttava nelle feste, nei
locali esclusivi di Roma, nelle notti che finivano
all’alba con il mascara colato e il sapore di gin sulle
labbra. Io la seguivo, a volte per proteggerla, a volte
perché non potevo fare a meno di lei. Eravamo legati da
un filo invisibile, un misto di amore fraterno e
qualcosa di più pericoloso, che si accendeva nei momenti
sbagliati, come quella sera a Capri, quando i nostri
corpi si erano sfiorati troppo a lungo.
Ma il
rapporto con nostro padre restava il centro del suo
universo. Adelaide era la sua ombra, sempre al suo
fianco alle prime dei film, alle cene con i divi, ai
gala in cui il suo vestito brillava più delle stelle.
Lui la guardava con un orgoglio che non era solo
paterno. C’era qualcosa di più, qualcosa che mi faceva
stringere i pugni sotto il tavolo. La chiamava “la mia
musa”, le accarezzava la guancia in pubblico, le copriva
le spalle, le comprava gioielli come fosse un’amante.
Lui era invecchiato, il suo fascino appannato
dagli anni, dalle attricette e dal whisky, ma per
Adelaide era ancora un Dio. Passavano ore nel suo
studio, a parlare di film, di arte, di sogni che non si
sarebbero mai realizzati. A volte, li trovavo troppo
vicini sospesi in un’intimità che mi faceva ribollire il
sangue. Una notte, avevo circa ventidue anni, li avevo
spiati dalla porta socchiusa. Adelaide era seduta sulla
scrivania, un bicchiere di vino in mano, mio padre di
fronte a lei, che le parlava a voce bassa, le dita che
le sfioravano il polso, un gesto troppo intimo, troppo
morbido. Non avevo sentito le parole, ma il modo in cui
si guardavano mi aveva fatto sentire un intruso, un
escluso. Non avevo detto nulla, ma quella scena mi aveva
scavato dentro. Il dubbio si era insinuato in me. “E se
Adelaide non fosse solo la figlia prediletta? E se
avesse preso il posto di nostra madre?” No, no non avrei
potuto accettarlo!
E quel momento non fu l’unico.
La nostra casa era sempre piena di gente e si
trasformava spesso in un palcoscenico, con lampadari che
scintillavano come stelle e il profumo di champagne che
saturava l’aria. Avevo ventidue anni, i capelli ancora
ribelli e l’arroganza di chi si crede invincibile. La
festa era per il lancio di un film di papà, un
melodramma che nessuno avrebbe ricordato, ma che quella
sera sembrava il centro dell’universo. Gli ospiti si
muovevano come ombre tra i tavoli, mentre un valzer
lento avvolgeva il salone. Mi ero ritirato in un angolo,
un bicchiere di whisky in mano, osservando la scena come
un estraneo. Poi li vidi. Adelaide indossava un vestito
di seta nera e ballava con nostro padre al centro della
sala. Umberto, con il suo smoking impeccabile, la teneva
stretta, troppo stretta, una mano sulla sua vita,
l’altra che le sfiorava la schiena nuda. Ridevano
complici e i loro movimenti così fluidi sembravano un
unico corpo. Gli occhi di Adelaide brillavano, non per
il riflesso dei lampadari, ma per lui, per il modo in
cui Umberto la guardava: come se fosse l’unica donna al
mondo, la sua musa, la sua creazione. Non potevo
distogliere lo sguardo. La sua mano, quella di papà,
scivolò più in basso, appena sopra il bordo del vestito,
un gesto che sarebbe potuto sembrare innocente, ma che a
me parve un’invasione. Lei non si ritrasse. Anzi,
inclinò la testa all’indietro, ridendo, i capelli che
ondeggiavano come un sipario, e lui le sussurrò qualcosa
all’orecchio, qualcosa che la fece arrossire, che le
fece mordere il labbro. Gli ospiti intorno sorridevano,
qualcuno applaudiva, ma io vedevo solo loro: un quadro
che non capivo, ma che mi tagliava dentro come un
coltello. Mi avvicinai, spinto da un impulso che non
sapevo nominare, ma Adelaide mi notò. Mi lanciò uno
sguardo, breve, affilato, come a dire: Non qui, Edoardo.
Questo è il mio momento. Umberto non si accorse di me, o
forse non gli importava. Continuò a guidarla nel valzer,
il suo pollice che accarezzava il fianco di lei, un
gesto troppo intimo, troppo possessivo. Ero geloso, sì,
ma non solo di lei. Ero geloso di lui, del potere che
aveva su di lei, della luce che lei riservava solo a
lui. In quel momento, capii che non ero solo suo
fratello; ero un rivale, condannato a guardarla da
lontano mentre lei si perdeva in un uomo che non avrebbe
mai dovuto guardarla così.
Più tardi, quando la
musica si spense e gli ospiti iniziarono a diradarsi, la
trovai sola sulla terrazza, un bicchiere di champagne in
mano, lo sguardo perso su Roma. “Ti sei divertito,
fratellino?” Mi chiese, con quella voce che era seta e
veleno. Non risposi. Non potevo. Il dubbio si era
insinuato in me, un veleno lento: e se Adelaide non
fosse solo la figlia prediletta? E se quel valzer fosse
stato qualcosa di più, un preludio o peggio una
consacrazione a un’intimità che non potevo accettare?
Lei lo sapeva, lo vedevo nel modo in cui mi guardava,
come se mi sfidasse a chiedere, a spezzare il silenzio.
Ma non lo feci. Eppure, quel momento rimase incastrato
in me, una spina che non potevo estirpare, una gelosia
che mi avrebbe spinto, anni dopo, a volerla per me, a
strapparla a lui, a quel ricordo che ancora ci teneva
prigionieri.
Quel dubbio mi aveva tormentato per
anni. Non avevo mai avuto il coraggio di chiederglielo,
ma ogni volta che Umberto le comprava un gioiello
sentivo una fitta di gelosia, un misto di rabbia e
disgusto, perché quel gioiello rappresentava qualcosa di
più, come il prezzo che si paga ad un’amante dopo una
notte d’amore.
Ero geloso, lo ammetto. Di nostro
padre, ma soprattutto di ciò che Adelaide diventava con
lui. Quando erano insieme, io sparivo. Lei rideva più
forte, parlava con una sicurezza che non aveva con me,
si muoveva come se il mondo le appartenesse. Mi chiedevo
continuamente, con un nodo in gola, se Adelaide avesse
davvero preso il posto di nostra madre non solo nel
cuore di mio padre, ma anche nel suo letto. Quel
pensiero era un veleno, una spina che non potevo
estirpare. Non avevo prove, solo dubbi, ma i dubbi erano
abbastanza per farmi odiare mio padre, Adelaide invece
l’amavo, l’avevo sempre amata.
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Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
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dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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