CERCA NEL SITO   CONTATTI   COOKIEPOLICY 
 
 
ROMANZO BREVE
Seconda Parte

 
 
Adamo Bencivenga
LA GRANDE BELLEZZA
In una Roma decadente, tra emozioni contrastanti, desiderio, rimorso e un intreccio di legami familiari e ambiguità morali, si dipana la storia di Adelaide ed Edoardo, ufficialmente fratello e sorella.
 

 


 
Due anni dopo mio padre se ne andò per sempre, un infarto durante una festa a Venezia, lasciando dietro di sé un impero di debiti e responsabilità. Adelaide aveva pianto per giorni, chiusa nella sua stanza, rifiutando cibo e la mia compagnia. Certo mi rendevo conto che mai avrei potuto consolarla. Quando finalmente era uscita da quel lutto, con gli occhi rossi e il trucco sbavato, mi aveva detto: “Lui era tutto ciò che avevo.” Non aveva detto “nostro padre”. Aveva detto “lui”. E in quel momento, la mia gelosia si era trasformata in qualcosa di più oscuro, un misto di rabbia e desiderio, la certezza che Adelaide non sarebbe mai stata solo mia, perché una parte di lei apparteneva a mio padre, per sempre.

Certo sì, dopo quel tragico evento lei si avvicinò a me chiedendomi di proteggerla: “Siamo rimasti soli Edoardo…” Sentivo che quella sarebbe stata la mia missione, mai l’avrei delusa ed ora lei era lì davanti a me, su quella terrazza al Pincio. La guardavo, la sua silhouette contro il cielo, e sentivo di nuovo quel fuoco, quel desiderio che non aveva un nome, dentro quella prigione dorata che ci teneva incatenati. Eravamo fratello e sorella, ma anche qualcosa di più, sempre di più. E mentre lei si voltava, con quel sorriso che era insieme invito e minaccia, capii che non avremmo mai smesso di danzare su quel confine, di sfiorarci, di distruggerci. La grande bellezza di Roma ci aveva generati, e ci avrebbe consumati, lasciandoci nudi, sospesi, per sempre.

Ora, a trent’anni, Adelaide era lì, prodotto di quel passato e dei miei dubbi. Una regina bellissima e fragile, che nascondeva le sue cicatrici sotto strati di seta e rossetto. Il palazzo dove vivevamo era ancora nostro, ma era un mausoleo, pieno di ricordi e silenzi. Lei viveva per le feste, per gli sguardi degli uomini, per il potere che esercitava su di me. Ma ogni tanto, quando il vino era troppo e la notte troppo lunga, la vedevo crollare su quel divano, le ginocchia raccolte, lo sguardo fisso e vuoto, come se cercasse nostra madre, nostro padre, o forse se stessa.

Più volte mi ero chiesto se vedesse in me nostro padre, ma saperlo non faceva differenza perché il nostro era un amore sconveniente che andava oltre il possesso fisico, un desiderio che, anche se mentale, non potevamo nominare, una gelosia che ci consumava. Lei mi voleva tutto per sé, non perché mi amasse, ma perché ero l’unico che conosceva la sua essenza, l’unico che poteva guardarla senza vedere solo la sua bellezza esteriore. E io, Edoardo, ero intrappolato in lei, nel suo profumo di tuberosa, nei suoi occhi che mi sfidavano, nel ricordo di una bambina che ballava con nostro padre e di una donna lo teneva al guinzaglio.

Adelaide era davvero un mistero, un fuoco che bruciava senza mai spegnersi. Il passato l’aveva forgiata, ma si era dimenticato di definirla. Era ancora lì, sulla nostra amata terrazza, a danzare sul confine tra ciò che era e ciò che avrebbe potuto essere, e io ero condannato a seguirla, fratello, amante, spettatore, per sempre.

La notte su Roma si era fatta più densa, un manto di stelle e ombre avvolgevano la terrazza come un segreto. Il tramonto era svanito, lasciando solo un bagliore lontano della città, indifferente alle nostre debolezze. Adelaide era ancora lì, a un passo da me, ogni sua curva era una promessa, ogni movimento un invito. I suoi occhi verdi, vetri rotti sotto la luce, mi tenevano prigioniero, e in quel momento, non c’era più spazio per le parole, i dubbi e i confini. Non desideravo altre donne, solo lei!

“Non guardarmi così, Edoardo.” Sussurrò, ma invece di allontanarsi come aveva fatto altre volte si avvicinò. Sotto la sua stoffa leggera traspariva il suo seno come due mele acerbe lasciando alla seta le punte eccitate dei suoi capezzoli. Il suo seno era piccolo, come quello di mia madre, ed io lo adoravo tanto che una volta mi disse: “Sai Edoardo, ho deciso di rifarmi il seno, una taglia, non so, forse due.” Mi crollò il mondo addosso e per una settimana le tenni il muso. Alla fine si convinse e ora era lì davanti a me con le punte che sembravano chiamarmi.
Lei se ne accorse e mi disse: “Mi fai paura quando mi guardi così. Come se fossi tutto ciò che vuoi… e tutto ciò che odi.”
“E se fosse vero?” Risposi. “Se fossi tutto, Adelaide? Il bene e il male, inferno e paradiso, la mia rovina, la mia salvezza, la mia dannazione?”

Lei chiuse gli occhi per un istante, un gemito soffocato le sfuggì dalle labbra. “Allora siamo già persi.” Disse, avvicinando il suo respiro caldo, dolce di alcol. La sua sensualità era travolgente, non solo nel suo corpo, ma nel modo in cui si muoveva, nel modo in cui mi guardava. Ogni gesto pareva fosse calcolato come se sapesse esattamente cosa mi faceva impazzire e volesse spingermi al confine della follia. Mi prese la mano, guidandola lungo la sua vita, la seta del vestito scivolava sotto le mie dita, il suo calore mi chiamava come un’eco in una gola profonda. Guidò la mia mano fin sotto il seno, poi la lasciò. “Ora sta a te! Toccami…” Sussurrò, e la sua voce era un ordine, una supplica, un inferno, una condanna. Poi aggiunse: “Non aver timore, che vuoi che succeda? In fin dei conti non sarebbe un dramma… è solo una tetta, una delle tante che hai accarezzato negli anni, non credi?”
Non aveva torto, non sarebbe successo nulla di grave perché quella grande bellezza aveva nel tempo stravolto tutti le nostre convinzioni, i nostri valori semmai ne avessi avuti prima, e senza valori non avremmo mai potuto giudicarci.
Poi avvicinò la sua bocca. “Sarebbe solo un bacio, non credi?” Disse schiudendo ad arte le labbra.
“Sarebbero le labbra di una sorella, di certo avranno lo stesso sapore…” Risposi sudando.
“Ecco appunto.” Sarebbe come baciare noi stessi!” Rispose.
“Ma è proprio questo il punto, Adelaide!”
“Ma noi Edoardo siamo ricchi e ce ne sbattiamo, le leggi morali sono fatte per i poveri. Considerami una novella Cleopatra o se vuoi una Dea greca, lì l’incesto era tollerato per la purezza dinastica.”
Non furono le sue parole a convincermi, ma quel seno che premeva sul mio petto. E allora non resistetti e la baciai, e fu come cadere nell’abisso dei sensi. Per la prima volta, dopo trent’anni di desiderio stipati nella mia mente assaporai la morbidezza delle sue labbra. Erano piene, invitanti, disperate, niente a che vedere con tutte le altre labbra che avevo baciato negli anni. Sapevano di indecenza, immoralità, un sapore che andava oltre la femmina, sapevano di me e di peccato!
Mi chiesi se quel bacio fosse bastato a farci sentire persi, del resto poteva essere tutto, finire lì, labbra contro labbra come un bacio nato da un gioco e spuntato per caso, ma quelle labbra chiedevano altro e allora curioso di sentire quanto lei fosse coinvolta, insinuai la lingua e lei schiuse la bocca come un petalo ai raggi del sole.
Sconvolto la tirai più vicina a me, la strinsi come per aggrapparmi, per non cadere in quella voragine e i nostri corpi perfettamente in difetto nelle loro parti mancanti si incastrarono come pezzi di un puzzle rotto. Lei Adelaide era esattamente il mio contrario, la parte femmina della mia anima. Gemette contro la mia bocca, le sue dita affondarono nei miei capelli, e ogni suono, ogni tocco, divenne una richiesta.

Dopo anni eravamo riusciti a varcare quel confine ed ora dall’altra parte di quel muro eravamo desiderosi di esplorare cosa avremmo trovato, ma il mondo si dissolse! Non c’era più Roma, non c’era più la terrazza, una landa sterminata di deserto dove noi eravamo i soli umani, sospesi in un limbo di seta e peccato. Lei mi sorrise e piena di apprensione disse: “Edoardo, ti prego, non qui, andiamo dentro…” Feci fatica ad alzarmi, lei mi prese per le mani e ci spostammo verso l’interno, barcollando, senza mai staccarci. Mi pregò di non parlare, di non spezzare quell’incantesimo fragilissimo, e in effetti poco sarebbe bastato per finire ai margini e vedere lo sprofondo che si stava creando come una voragine attorno a noi.

Rimanemmo ben saldi al centro di quel sogno, aiutandoci a vicenda e subito dopo guadagnammo la nostra area di conforto. Il salone era un’ombra di lusso con i divani di velluto e i lampadari che riflettevano la nostra frenesia. Adelaide mi spinse contro il muro, il suo corpo premeva sul mio senza mai staccarsi, le sue mani non persero tempo e in un istante slacciarono la mia camicia con una furia che tradiva la sua fragilità. “Non fermarti! Non osare fermarti, Edoardo. Non pensare cazzo!” Disse, ma era un invito che riguardava più che altro se stessa, cosciente quanto quello non fosse amore, ma una perdizione di sensi dentro un vuoto morale che aveva solo bisogno di essere riempito.

In quel vortice di contraddizioni vidi per un istante la regina decaduta, sicura di sé eppure disperatamente bisognosa di essere vista, amata, posseduta. Nessun altro uomo in quel momento avrebbe potuto spegnere quelle fiamme dell’inferno e ogni suo movimento era una sfida con se stessa, un bisogno disperato di chiede aiuto all’unico che poteva ancora proteggerla.

La guardai, Dio era bella, più bella di tutte le donne messe insieme, perché audace, coraggiosa, pronta a sfidare qualsiasi religione che avrebbe ostacolato la sua brama, ma i tremori delle sue mani tradivano la paura, la solitudine che aveva ereditato da nostra madre, il vuoto lasciato da nostro padre. E io non ero diverso. Il cinismo che indossavo come un’armatura era fragile, incrinato dalla gelosia che mi aveva avvelenato per anni, dal terrore di perdere l’unica persona che mi capiva davvero. Eravamo ricchi, vuoti, ma purtroppo disperatamente vivi, e quella notte stavamo correndo verso un precipizio, coscienti entrambi che ciò che stavamo facendo non era affatto la nostra salvezza.

Ci lasciammo cadere sul divano, i vestiti cadevano come promesse infrante. La sua pelle era seta sotto le mie mani, ogni curva una scoperta, ogni respiro un’implorazione. La sensualità di Adelaide era un’arma: si muoveva sopra di me con una grazia felina, i capelli che le cadevano sul viso, gli occhi che non lasciavano mai i miei. Ma c’era un tremore nei suoi fianchi, un’esitazione nei suoi gemiti, come se temesse che quel peccato fosse così grande da rimanerne delusa. E in quel timore si stava lasciando andare così piena di fantasmi che ripensai al suo rapporto con nostro padre. Forse lui morendo l’aveva delusa, o forse ancora in vita le aveva preferito una delle tante attricette.

Pensai che quella fosse l’occasione giusta per sapere, se davvero fossero stati amanti carnali, ma sapevo benissimo che qualsiasi sua risposta avrebbe solo alimentato altri dubbi. Mio padre non era morto, era ancora lì tra noi e il solo pensiero mi consumava di gelosia. Lei si accorse e subito dopo mi supplicò: “Non farti domande Edoardo, dimmi solo che mi vuoi.” Sussurrò, le sue labbra contro il mio orecchio, la voce che tremava. “Dimmi che sono reale.”
“Sei tutto.” Risposi, la voce roca, le mani che la stringevano come se potessi trattenerla per sempre. “Sei mia, Adelaide. Sempre.”

Il momento magico arrivò come un’onda, un istante in cui niente poteva più separarci. Eravamo un groviglio di corpi e anime, i nostri respiri che si mescolavano, i nostri cuori che battevano all’unisono. La sua pelle bruciava contro la mia, i suoi gemiti erano una melodia che mi spingeva oltre. Non c’era più fratello, non c’era più sorella, solo noi, nudi, vulnerabili, convinti che nessuno mai ci avrebbe giudicato. In quel momento, il mondo fuori non esisteva: non c’era morale, non c’era colpa o peccato, solo il nostro desiderio, puro, devastante, eterno.

Eravamo lì nudi, lei schiuse le sue gambe, mi pregò di darle piacere con la bocca ed io obbedii. Mi avvicinai con timore, ma poi mi attirato da quel leggero tremore in attesa iniziai ad assaporare quel nettare denso. Mai avevo sentito un sapore così dolce e intenso, come fosse un frutto esotico, e mai il gusto di assaporarlo e il desiderio di berlo e deglutirlo e mescolarlo con la mia saliva. Adelaide per il troppo piacere afferrò la mia testa e con due mani premette il mio viso contro il suo piacere. Dopo qualche secondo iniziò a gemere: “Bevi, bevi Edoardo… spremimi l’anima e bevila tutta ti prego!”
Obbedii insinuando la mia lingua tra le sue labbra. Saziò com’ero per me sarebbe potuto anche finire lì. Quel sapore di figa così familiare sarebbe rimasto per settimane nel mio sangue, ma un attimo dopo Adelaide mi sollevo il viso: “Lo sai vero cosa stai facendo?” Ci penetrammo gli occhi pieni di domande e vuoti di risposte. Eravamo al dunque, non c’erano più punti grigi, ambiguità e ripensamenti, c’era solo il bianco e nero, ossia fermarci o continuare. Il nostro bisogno di amore ci aveva portato lì, e ora non potevamo più rimandare, se mi fossi alzato o lei avesse chiuso le gambe non ci sarebbe stata una seconda volta.

Dovevamo decidere. Chiesi: “Siamo ancora in tempo?” Lei mi guardò con un’aria disperata: “Ti prego non farmi queste domande. Io e te separatamente ci siamo già giudicati ed ora non resta che vivere insieme questa condanna.”
Guardai le sue meravigliose nudità, in fin dei conti era solo un corpo di donna, uno dei tanti. Il concetto che fosse mia sorella risiedeva solo nella mia mente, ma non nei nostri corpi che si attiravano come calamite. Allora mi distesi su di lei, le sue gambe mi avvolsero, ma mi trattenni ancora sulla soglia e urlai: “Non sei mia sorella, non sei la mia amante, sei qualcosa che si chiama vita!” E preso da un desiderio inarrestabile affogai in quel mare. Lei mi facilitò il compito seguendo sincrona i miei movimenti e fu come volare e atterrare, per poi risalire e planare fondendo i nostri piaceri.

Lei si aggrappò a me, la sentivo tremare sotto di me, come se mi pregasse di continuare all’infinito senza che i suoi sensi lasciassero il posto alla ragione. Le sue unghie mi graffiavano la schiena, il suo corpo che sussultava contro il mio. Io mi persi in lei, nel suo calore, nel suo profumo, nella sensazione di essere finalmente completo. Solo lei avrebbe potuto farmi sentire così e lo stava facendo, Adelaide la mia amante, mia sorella, la sposa, la rivale di mia madre, la concubina di mio padre, la compagna dei miei giochi, il mio tutto… Non mi fermai, non uscii, e lei mi accolse come un porto, come una foce in mare aperto.

Non so esattamente quanto durò, forse solo attimi, forse un tempo esagerato, e il culmine fu un’esplosione, un urlo liberatorio che ci unì in un istante di perfezione.
Ma in quell’estasi totale, sentimmo il vuoto morale che ci divorava. Sapevamo cosa eravamo, cosa avevamo fatto. Sapevamo che quel confine, una volta attraversato, ci avrebbe cambiati per sempre. Eravamo disposti a pagarne il prezzo, a bruciare per quella notte, per quell’amore che sarebbe stato insieme salvezza e dannazione.

Quando tutto si quietò, restammo lì, sdraiati sul divano, i nostri corpi ancora intrecciati, il silenzio che ci avvolgeva come un sudario. Adelaide posò la testa sul mio petto, i suoi capelli che mi solleticavano la pelle, e per un momento sembrò fragile, una bambina persa in un mondo troppo grande. “Cosa siamo, Edoardo?” Sussurrò, la voce così bassa che quasi non la sentii. “Cosa siamo diventati? Ti prego dammi una risposta. Cosa dobbiamo considerarci?”
“Adelaide è qualcosa che abbiamo sempre desiderato, ora è avvenuto, punto! Perché dobbiamo avere il bisogno di definirci?” Oh sì, era un modo per tranquillizzarla, ma dentro di me sapevo che prima o poi la vita e le nostre coscienze ci avrebbero chiesto il conto.
Le accarezzai i capelli, sentendo il peso di ciò che avevamo fatto, il vuoto che ci aveva spinto a quel punto. Eravamo fratello e sorella, amanti, peccatori, prigionieri di una bellezza che ci aveva consumati. Roma, fuori, continuava a brillare, eterna e indifferente, mentre noi, nudi, ci aggrappavamo l’uno all’altra, sapendo che l’alba avrebbe portato il rimorso, ma non la redenzione.
Quella notte rimanemmo lì distesi su quel divano. Lei coprì a malapena le sue nudità pur sapendo ormai che qualsiasi pudore avrebbe avuto il sapore dell’ipocrisia. Lasciò scoperto solo il suo seno cercando così di dargli un significato più nobile, non più simbolo di sesso e lussuria, ma esclusivamente materno e familiare.

L’alba si insinuò lenta sulla terrazza al Pincio, un velo di luce grigia scivolò sui tetti di Roma, tingendo di freddezza i resti della notte. Il salone, con i suoi divani di velluto e i lampadari spenti, sembrava un teatro abbandonato dopo uno spettacolo troppo intenso. Adelaide era ancora sdraiata accanto a me, la sua testa appoggiata sul mio petto, i capelli sparsi come seta sulla mia pelle. Il suo respiro era lento, quasi impercettibile, ma il suo corpo, così caldo solo poche ore prima, ora tremava leggermente, come se il freddo dell’alba si fosse insinuato non solo nella stanza, ma dentro di lei. Io fissavo il soffitto, le dita immobili tra i suoi capelli, il cuore pesante di un rimorso che non aveva ancora un nome, ma che già mi divorava.


Adelaide si mosse, sollevandosi appena, il suo viso che emergeva dalla penombra. I suoi occhi verdi, solitamente affilati come lame, erano opachi, velati da una stanchezza che non era solo fisica. Si tirò il lenzuolo sul corpo, come per nascondersi, non da me, ma da se stessa. “Edoardo.” Sussurrò. “Cosa abbiamo fatto?” Ma non era una domanda che cercava una risposta, ma solo un lamento che cercava compianto e complicità.
Nella sua voce percepii il vero rimorso. Lei, che aveva sempre danzato sul confine del proibito con la sicurezza di una regina, ora sembrava smarrita, come se l’atto consumato avesse spezzato l’illusione di controllo che si era costruita. “Non dovevamo…” Disse, stringendo il lenzuolo. “Non così. Non noi.” Ma mentre lo diceva, i suoi occhi cercavano i miei, implorando una rassicurazione che non potevo darle. Era tormentata dall’idea di aver tradito non solo la sua morale, ma la sua stessa identità: la sorella, la musa, la donna che aveva sempre usato il suo fascino come un’arma, mai come una resa.

Eppure, il suo rimorso era anche altro. Adelaide era cresciuta all’ombra di nostro padre, plasmata dal suo amore ambiguo, dalla sua adorazione che l’aveva elevata a icona e prigioniera. Una parte di lei si chiedeva se quella notte non fosse stata un’eredità di quel passato, un’eco del legame con Umberto che l’aveva segnata così profondamente. “Sono come lui, vero?” Mormorò, quasi a se stessa, gli occhi fissi su un punto lontano. “Prendo ciò che voglio, anche se mi distrugge. Anche se distrugge tutto il resto intorno a me.” Quelle parole erano un coltello, quasi una confessione. Si si sentiva colpevole non solo per ciò che avevamo fatto, ma per ciò che era, per il fuoco che la consumava e che aveva trascinato anche me nel suo inferno.

Il mio rimorso era diverso, più silenzioso, ma non meno devastante. Sdraiato lì, con il peso del suo corpo ancora impresso sul mio, sentivo un nodo in gola, un misto di vergogna e impotenza. Avevo desiderato Adelaide per anni, l’avevo guardata come un’ossessione, un sogno proibito che mi teneva sveglio nelle notti di whisky e solitudine o durante l’amore con altre donne. Ma ora che il sogno si era fatto carne, la realtà era un peso insostenibile. Non era solo la consapevolezza di aver attraversato un confine morale – fratello e sorella, un tabù che nessuna ricchezza, nessun vuoto avrebbe mai potuto giustificare – ma il terrore di ciò che quel gesto significava per noi. L’avevo voluta, sì, ma l’avevo anche distrutta, o forse avevo lasciato che lei distruggesse me.

Il mio rimorso era intrecciato alla gelosia che avevo sempre provato per lei, per il suo legame con nostro padre, per il modo in cui aveva preso il posto di nostra madre nel suo cuore, e forse non solo lì. Quella notte, mentre la stringevo, una parte di me si era chiesta se stessi reclamando ciò che Umberto aveva avuto, se il mio desiderio fosse solo amore o anche vendetta, un tentativo di strapparla a lui, al passato, a tutto ciò che mi aveva escluso. Quel pensiero mi nauseava. “Non sono migliore di lui!” Pensai, e il ricordo delle sue mani su di lei, dei suoi sguardi troppo intimi, mi fece serrare i pugni. Il rimorso non era solo per ciò che avevamo fatto, ma per ciò che ero: un uomo che aveva amato la sorella non come fratello, ma come amante, e che ora non sapeva come tornare indietro.

Il nostro rimorso non era solo personale; era la consapevolezza di un vuoto morale che ci aveva permesso di arrivare a quel punto. Eravamo figli di un mondo senza regole, cresciuti in un palazzo di specchi dove il desiderio era l’unica legge. Nostro padre ci aveva insegnato che tutto era permesso, che la bellezza e il potere giustificavano ogni eccesso. Nostra madre, sparendo, ci aveva lasciato senza un’ancora, senza un esempio di cosa significasse amare senza distruggere. E noi, Adelaide ed io, avevamo riempito quel vuoto con noi stessi, con un amore che era troppo grande, troppo sbagliato per essere reale.

“Non possiamo dirlo a nessuno!” Disse Adelaide, rompendo il silenzio. Si era alzata, il lenzuolo avvolto come un sudario, e si era avvicinata alla finestra. Roma, fuori, si svegliava, ignara, indifferente. “Nessuno capirebbe. Ci guarderebbero come mostri.” La sua voce tremava, ma c’era una determinazione nuova, come se stesse già costruendo una maschera per nascondere ciò che era successo. “Ma tu, Edoardo… tu mi guarderai ancora come prima?”
Non risposi subito. La guardai, la sua silhouette contro il vetro, e sentii il peso di ciò che avevamo perso: l’innocenza, se mai l’avevamo avuta, e la possibilità di essere solo fratello e sorella. “Ti guarderò sempre, Adelaide.” Dissi. “Ma non so se potrò guardarmi allo specchio.”
Lei si voltò con un sorriso amaro sulle labbra. “Allora siamo uguali.” Disse. “Due specchi rotti che si riflettono all’infinito.” Si avvicinò, si sedette accanto a me, e per un momento restammo lì, in silenzio, le nostre mani che non si toccavano, ma che sentivano ancora il calore dell’altra. Il rimorso ci legava più del desiderio, un filo invisibile che ci avrebbe tenuti prigionieri per sempre.

L’alba si completò, fredda e spietata, e Roma si animò sotto di noi. Il nostro palazzo, la nostra gabbia dorata, era ancora lì, pronta ad accoglierci con i suoi silenzi e i suoi segreti. Adelaide si alzò, raccolse il vestito dal pavimento, e senza guardarmi disse: “Andiamo avanti, Edoardo. Come sempre.” Ma la sua voce tradiva una crepa, una fragilità che non poteva nascondere.
Il rimorso non ci avrebbe lasciati. Sarebbe stato nei nostri sguardi, nei momenti in cui ci saremmo sfiorati per sbaglio, nelle notti in cui il ricordo di quella passione ci avrebbe tenuti svegli. Eravamo stati convinti, per un istante, che nessuno ci avrebbe giudicati, che il nostro amore fosse più grande di qualsiasi morale. Ma ora, nella luce cruda del mattino, sapevamo la verità: il giudizio più duro sarebbe venuto da noi stessi, dal vuoto che ci portavamo dentro, dalla consapevolezza che la grande bellezza di Roma era anche la nostra condanna.



FINE








Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.


© All rights reserved Adamo Bencivenga
LEGGI GLI ALTRI RACCONTI


© Tutti i diritti riservati
Il presente racconto è tutelato dai diritti d'autore.
L'utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma, senza il consenso dell'autore



 








 
Tutte le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi autori. Qualora l'autore ritenesse improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione verrà ritirata immediatamente. (All images and materials are copyright protected and are the property of their respective authors.and are the property of their respective authors.If the author deems improper use, they will be deleted from our site upon notification.) Scrivi a liberaeva@libero.it

 COOKIE POLICY



TORNA SU (TOP)

LiberaEva Magazine Tutti i diritti Riservati
  Contatti