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ROMANZO BREVE Seconda Parte

Adamo Bencivenga
LA GRANDE BELLEZZA
In una Roma decadente, tra emozioni
contrastanti, desiderio, rimorso e un intreccio di legami familiari
e ambiguità morali, si dipana la storia di Adelaide ed Edoardo,
ufficialmente fratello e sorella.

Due anni dopo mio padre se
ne andò per sempre, un infarto durante una festa a
Venezia, lasciando dietro di sé un impero di debiti e
responsabilità. Adelaide aveva pianto per giorni, chiusa
nella sua stanza, rifiutando cibo e la mia compagnia.
Certo mi rendevo conto che mai avrei potuto consolarla.
Quando finalmente era uscita da quel lutto, con gli
occhi rossi e il trucco sbavato, mi aveva detto: “Lui
era tutto ciò che avevo.” Non aveva detto “nostro
padre”. Aveva detto “lui”. E in quel momento, la mia
gelosia si era trasformata in qualcosa di più oscuro, un
misto di rabbia e desiderio, la certezza che Adelaide
non sarebbe mai stata solo mia, perché una parte di lei
apparteneva a mio padre, per sempre.
Certo sì,
dopo quel tragico evento lei si avvicinò a me
chiedendomi di proteggerla: “Siamo rimasti soli
Edoardo…” Sentivo che quella sarebbe stata la mia
missione, mai l’avrei delusa ed ora lei era lì davanti a
me, su quella terrazza al Pincio. La guardavo, la sua
silhouette contro il cielo, e sentivo di nuovo quel
fuoco, quel desiderio che non aveva un nome, dentro
quella prigione dorata che ci teneva incatenati. Eravamo
fratello e sorella, ma anche qualcosa di più, sempre di
più. E mentre lei si voltava, con quel sorriso che era
insieme invito e minaccia, capii che non avremmo mai
smesso di danzare su quel confine, di sfiorarci, di
distruggerci. La grande bellezza di Roma ci aveva
generati, e ci avrebbe consumati, lasciandoci nudi,
sospesi, per sempre.
Ora, a trent’anni, Adelaide
era lì, prodotto di quel passato e dei miei dubbi. Una
regina bellissima e fragile, che nascondeva le sue
cicatrici sotto strati di seta e rossetto. Il palazzo
dove vivevamo era ancora nostro, ma era un mausoleo,
pieno di ricordi e silenzi. Lei viveva per le feste, per
gli sguardi degli uomini, per il potere che esercitava
su di me. Ma ogni tanto, quando il vino era troppo e la
notte troppo lunga, la vedevo crollare su quel divano,
le ginocchia raccolte, lo sguardo fisso e vuoto, come se
cercasse nostra madre, nostro padre, o forse se stessa.
Più volte mi ero chiesto se vedesse in me nostro
padre, ma saperlo non faceva differenza perché il nostro
era un amore sconveniente che andava oltre il possesso
fisico, un desiderio che, anche se mentale, non potevamo
nominare, una gelosia che ci consumava. Lei mi voleva
tutto per sé, non perché mi amasse, ma perché ero
l’unico che conosceva la sua essenza, l’unico che poteva
guardarla senza vedere solo la sua bellezza esteriore. E
io, Edoardo, ero intrappolato in lei, nel suo profumo di
tuberosa, nei suoi occhi che mi sfidavano, nel ricordo
di una bambina che ballava con nostro padre e di una
donna lo teneva al guinzaglio.
Adelaide era
davvero un mistero, un fuoco che bruciava senza mai
spegnersi. Il passato l’aveva forgiata, ma si era
dimenticato di definirla. Era ancora lì, sulla nostra
amata terrazza, a danzare sul confine tra ciò che era e
ciò che avrebbe potuto essere, e io ero condannato a
seguirla, fratello, amante, spettatore, per sempre.
La notte su Roma si era fatta più densa, un manto di
stelle e ombre avvolgevano la terrazza come un segreto.
Il tramonto era svanito, lasciando solo un bagliore
lontano della città, indifferente alle nostre debolezze.
Adelaide era ancora lì, a un passo da me, ogni sua curva
era una promessa, ogni movimento un invito. I suoi occhi
verdi, vetri rotti sotto la luce, mi tenevano
prigioniero, e in quel momento, non c’era più spazio per
le parole, i dubbi e i confini. Non desideravo altre
donne, solo lei!
“Non guardarmi così, Edoardo.”
Sussurrò, ma invece di allontanarsi come aveva fatto
altre volte si avvicinò. Sotto la sua stoffa leggera
traspariva il suo seno come due mele acerbe lasciando
alla seta le punte eccitate dei suoi capezzoli. Il suo
seno era piccolo, come quello di mia madre, ed io lo
adoravo tanto che una volta mi disse: “Sai Edoardo, ho
deciso di rifarmi il seno, una taglia, non so, forse
due.” Mi crollò il mondo addosso e per una settimana le
tenni il muso. Alla fine si convinse e ora era lì
davanti a me con le punte che sembravano chiamarmi.
Lei se ne accorse e mi disse: “Mi fai paura quando mi
guardi così. Come se fossi tutto ciò che vuoi… e tutto
ciò che odi.” “E se fosse vero?” Risposi. “Se fossi
tutto, Adelaide? Il bene e il male, inferno e paradiso,
la mia rovina, la mia salvezza, la mia dannazione?”
Lei chiuse gli occhi per un istante, un gemito
soffocato le sfuggì dalle labbra. “Allora siamo già
persi.” Disse, avvicinando il suo respiro caldo, dolce
di alcol. La sua sensualità era travolgente, non solo
nel suo corpo, ma nel modo in cui si muoveva, nel modo
in cui mi guardava. Ogni gesto pareva fosse calcolato
come se sapesse esattamente cosa mi faceva impazzire e
volesse spingermi al confine della follia. Mi prese la
mano, guidandola lungo la sua vita, la seta del vestito
scivolava sotto le mie dita, il suo calore mi chiamava
come un’eco in una gola profonda. Guidò la mia mano fin
sotto il seno, poi la lasciò. “Ora sta a te! Toccami…”
Sussurrò, e la sua voce era un ordine, una supplica, un
inferno, una condanna. Poi aggiunse: “Non aver timore,
che vuoi che succeda? In fin dei conti non sarebbe un
dramma… è solo una tetta, una delle tante che hai
accarezzato negli anni, non credi?” Non aveva torto,
non sarebbe successo nulla di grave perché quella grande
bellezza aveva nel tempo stravolto tutti le nostre
convinzioni, i nostri valori semmai ne avessi avuti
prima, e senza valori non avremmo mai potuto giudicarci.
Poi avvicinò la sua bocca. “Sarebbe solo un bacio, non
credi?” Disse schiudendo ad arte le labbra.
“Sarebbero le labbra di una sorella, di certo avranno lo
stesso sapore…” Risposi sudando. “Ecco appunto.”
Sarebbe come baciare noi stessi!” Rispose. “Ma è
proprio questo il punto, Adelaide!” “Ma noi Edoardo
siamo ricchi e ce ne sbattiamo, le leggi morali sono
fatte per i poveri. Considerami una novella Cleopatra o
se vuoi una Dea greca, lì l’incesto era tollerato per la
purezza dinastica.” Non furono le sue parole a
convincermi, ma quel seno che premeva sul mio petto. E
allora non resistetti e la baciai, e fu come cadere
nell’abisso dei sensi. Per la prima volta, dopo
trent’anni di desiderio stipati nella mia mente
assaporai la morbidezza delle sue labbra. Erano piene,
invitanti, disperate, niente a che vedere con tutte le
altre labbra che avevo baciato negli anni. Sapevano di
indecenza, immoralità, un sapore che andava oltre la
femmina, sapevano di me e di peccato! Mi chiesi se
quel bacio fosse bastato a farci sentire persi, del
resto poteva essere tutto, finire lì, labbra contro
labbra come un bacio nato da un gioco e spuntato per
caso, ma quelle labbra chiedevano altro e allora curioso
di sentire quanto lei fosse coinvolta, insinuai la
lingua e lei schiuse la bocca come un petalo ai raggi
del sole. Sconvolto la tirai più vicina a me, la
strinsi come per aggrapparmi, per non cadere in quella
voragine e i nostri corpi perfettamente in difetto nelle
loro parti mancanti si incastrarono come pezzi di un
puzzle rotto. Lei Adelaide era esattamente il mio
contrario, la parte femmina della mia anima. Gemette
contro la mia bocca, le sue dita affondarono nei miei
capelli, e ogni suono, ogni tocco, divenne una
richiesta.
Dopo anni eravamo riusciti a varcare
quel confine ed ora dall’altra parte di quel muro
eravamo desiderosi di esplorare cosa avremmo trovato, ma
il mondo si dissolse! Non c’era più Roma, non c’era più
la terrazza, una landa sterminata di deserto dove noi
eravamo i soli umani, sospesi in un limbo di seta e
peccato. Lei mi sorrise e piena di apprensione disse:
“Edoardo, ti prego, non qui, andiamo dentro…” Feci
fatica ad alzarmi, lei mi prese per le mani e ci
spostammo verso l’interno, barcollando, senza mai
staccarci. Mi pregò di non parlare, di non spezzare
quell’incantesimo fragilissimo, e in effetti poco
sarebbe bastato per finire ai margini e vedere lo
sprofondo che si stava creando come una voragine attorno
a noi.
Rimanemmo ben saldi al centro di quel
sogno, aiutandoci a vicenda e subito dopo guadagnammo la
nostra area di conforto. Il salone era un’ombra di lusso
con i divani di velluto e i lampadari che riflettevano
la nostra frenesia. Adelaide mi spinse contro il muro,
il suo corpo premeva sul mio senza mai staccarsi, le sue
mani non persero tempo e in un istante slacciarono la
mia camicia con una furia che tradiva la sua fragilità.
“Non fermarti! Non osare fermarti, Edoardo. Non pensare
cazzo!” Disse, ma era un invito che riguardava più che
altro se stessa, cosciente quanto quello non fosse
amore, ma una perdizione di sensi dentro un vuoto morale
che aveva solo bisogno di essere riempito.
In
quel vortice di contraddizioni vidi per un istante la
regina decaduta, sicura di sé eppure disperatamente
bisognosa di essere vista, amata, posseduta. Nessun
altro uomo in quel momento avrebbe potuto spegnere
quelle fiamme dell’inferno e ogni suo movimento era una
sfida con se stessa, un bisogno disperato di chiede
aiuto all’unico che poteva ancora proteggerla.
La
guardai, Dio era bella, più bella di tutte le donne
messe insieme, perché audace, coraggiosa, pronta a
sfidare qualsiasi religione che avrebbe ostacolato la
sua brama, ma i tremori delle sue mani tradivano la
paura, la solitudine che aveva ereditato da nostra
madre, il vuoto lasciato da nostro padre. E io non ero
diverso. Il cinismo che indossavo come un’armatura era
fragile, incrinato dalla gelosia che mi aveva avvelenato
per anni, dal terrore di perdere l’unica persona che mi
capiva davvero. Eravamo ricchi, vuoti, ma purtroppo
disperatamente vivi, e quella notte stavamo correndo
verso un precipizio, coscienti entrambi che ciò che
stavamo facendo non era affatto la nostra salvezza.
Ci lasciammo cadere sul divano, i vestiti cadevano
come promesse infrante. La sua pelle era seta sotto le
mie mani, ogni curva una scoperta, ogni respiro
un’implorazione. La sensualità di Adelaide era un’arma:
si muoveva sopra di me con una grazia felina, i capelli
che le cadevano sul viso, gli occhi che non lasciavano
mai i miei. Ma c’era un tremore nei suoi fianchi,
un’esitazione nei suoi gemiti, come se temesse che quel
peccato fosse così grande da rimanerne delusa. E in quel
timore si stava lasciando andare così piena di fantasmi
che ripensai al suo rapporto con nostro padre. Forse lui
morendo l’aveva delusa, o forse ancora in vita le aveva
preferito una delle tante attricette.
Pensai che
quella fosse l’occasione giusta per sapere, se davvero
fossero stati amanti carnali, ma sapevo benissimo che
qualsiasi sua risposta avrebbe solo alimentato altri
dubbi. Mio padre non era morto, era ancora lì tra noi e
il solo pensiero mi consumava di gelosia. Lei si accorse
e subito dopo mi supplicò: “Non farti domande Edoardo,
dimmi solo che mi vuoi.” Sussurrò, le sue labbra contro
il mio orecchio, la voce che tremava. “Dimmi che sono
reale.” “Sei tutto.” Risposi, la voce roca, le mani
che la stringevano come se potessi trattenerla per
sempre. “Sei mia, Adelaide. Sempre.”
Il momento
magico arrivò come un’onda, un istante in cui niente
poteva più separarci. Eravamo un groviglio di corpi e
anime, i nostri respiri che si mescolavano, i nostri
cuori che battevano all’unisono. La sua pelle bruciava
contro la mia, i suoi gemiti erano una melodia che mi
spingeva oltre. Non c’era più fratello, non c’era più
sorella, solo noi, nudi, vulnerabili, convinti che
nessuno mai ci avrebbe giudicato. In quel momento, il
mondo fuori non esisteva: non c’era morale, non c’era
colpa o peccato, solo il nostro desiderio, puro,
devastante, eterno.
Eravamo lì nudi, lei schiuse
le sue gambe, mi pregò di darle piacere con la bocca ed
io obbedii. Mi avvicinai con timore, ma poi mi attirato
da quel leggero tremore in attesa iniziai ad assaporare
quel nettare denso. Mai avevo sentito un sapore così
dolce e intenso, come fosse un frutto esotico, e mai il
gusto di assaporarlo e il desiderio di berlo e
deglutirlo e mescolarlo con la mia saliva. Adelaide per
il troppo piacere afferrò la mia testa e con due mani
premette il mio viso contro il suo piacere. Dopo qualche
secondo iniziò a gemere: “Bevi, bevi Edoardo… spremimi
l’anima e bevila tutta ti prego!” Obbedii insinuando
la mia lingua tra le sue labbra. Saziò com’ero per me
sarebbe potuto anche finire lì. Quel sapore di figa così
familiare sarebbe rimasto per settimane nel mio sangue,
ma un attimo dopo Adelaide mi sollevo il viso: “Lo sai
vero cosa stai facendo?” Ci penetrammo gli occhi pieni
di domande e vuoti di risposte. Eravamo al dunque, non
c’erano più punti grigi, ambiguità e ripensamenti, c’era
solo il bianco e nero, ossia fermarci o continuare. Il
nostro bisogno di amore ci aveva portato lì, e ora non
potevamo più rimandare, se mi fossi alzato o lei avesse
chiuso le gambe non ci sarebbe stata una seconda volta.
Dovevamo decidere. Chiesi: “Siamo ancora in tempo?”
Lei mi guardò con un’aria disperata: “Ti prego non farmi
queste domande. Io e te separatamente ci siamo già
giudicati ed ora non resta che vivere insieme questa
condanna.” Guardai le sue meravigliose nudità, in
fin dei conti era solo un corpo di donna, uno dei tanti.
Il concetto che fosse mia sorella risiedeva solo nella
mia mente, ma non nei nostri corpi che si attiravano
come calamite. Allora mi distesi su di lei, le sue gambe
mi avvolsero, ma mi trattenni ancora sulla soglia e
urlai: “Non sei mia sorella, non sei la mia amante, sei
qualcosa che si chiama vita!” E preso da un desiderio
inarrestabile affogai in quel mare. Lei mi facilitò il
compito seguendo sincrona i miei movimenti e fu come
volare e atterrare, per poi risalire e planare fondendo
i nostri piaceri.
Lei si aggrappò a me, la
sentivo tremare sotto di me, come se mi pregasse di
continuare all’infinito senza che i suoi sensi
lasciassero il posto alla ragione. Le sue unghie mi
graffiavano la schiena, il suo corpo che sussultava
contro il mio. Io mi persi in lei, nel suo calore, nel
suo profumo, nella sensazione di essere finalmente
completo. Solo lei avrebbe potuto farmi sentire così e
lo stava facendo, Adelaide la mia amante, mia sorella,
la sposa, la rivale di mia madre, la concubina di mio
padre, la compagna dei miei giochi, il mio tutto… Non mi
fermai, non uscii, e lei mi accolse come un porto, come
una foce in mare aperto.
Non so esattamente
quanto durò, forse solo attimi, forse un tempo
esagerato, e il culmine fu un’esplosione, un urlo
liberatorio che ci unì in un istante di perfezione.
Ma in quell’estasi totale, sentimmo il vuoto morale che
ci divorava. Sapevamo cosa eravamo, cosa avevamo fatto.
Sapevamo che quel confine, una volta attraversato, ci
avrebbe cambiati per sempre. Eravamo disposti a pagarne
il prezzo, a bruciare per quella notte, per quell’amore
che sarebbe stato insieme salvezza e dannazione.
Quando tutto si quietò, restammo lì, sdraiati sul
divano, i nostri corpi ancora intrecciati, il silenzio
che ci avvolgeva come un sudario. Adelaide posò la testa
sul mio petto, i suoi capelli che mi solleticavano la
pelle, e per un momento sembrò fragile, una bambina
persa in un mondo troppo grande. “Cosa siamo, Edoardo?”
Sussurrò, la voce così bassa che quasi non la sentii.
“Cosa siamo diventati? Ti prego dammi una risposta. Cosa
dobbiamo considerarci?” “Adelaide è qualcosa che
abbiamo sempre desiderato, ora è avvenuto, punto! Perché
dobbiamo avere il bisogno di definirci?” Oh sì, era un
modo per tranquillizzarla, ma dentro di me sapevo che
prima o poi la vita e le nostre coscienze ci avrebbero
chiesto il conto. Le accarezzai i capelli, sentendo
il peso di ciò che avevamo fatto, il vuoto che ci aveva
spinto a quel punto. Eravamo fratello e sorella, amanti,
peccatori, prigionieri di una bellezza che ci aveva
consumati. Roma, fuori, continuava a brillare, eterna e
indifferente, mentre noi, nudi, ci aggrappavamo l’uno
all’altra, sapendo che l’alba avrebbe portato il
rimorso, ma non la redenzione. Quella notte rimanemmo
lì distesi su quel divano. Lei coprì a malapena le sue
nudità pur sapendo ormai che qualsiasi pudore avrebbe
avuto il sapore dell’ipocrisia. Lasciò scoperto solo il
suo seno cercando così di dargli un significato più
nobile, non più simbolo di sesso e lussuria, ma
esclusivamente materno e familiare.
L’alba si
insinuò lenta sulla terrazza al Pincio, un velo di luce
grigia scivolò sui tetti di Roma, tingendo di freddezza
i resti della notte. Il salone, con i suoi divani di
velluto e i lampadari spenti, sembrava un teatro
abbandonato dopo uno spettacolo troppo intenso. Adelaide
era ancora sdraiata accanto a me, la sua testa
appoggiata sul mio petto, i capelli sparsi come seta
sulla mia pelle. Il suo respiro era lento, quasi
impercettibile, ma il suo corpo, così caldo solo poche
ore prima, ora tremava leggermente, come se il freddo
dell’alba si fosse insinuato non solo nella stanza, ma
dentro di lei. Io fissavo il soffitto, le dita immobili
tra i suoi capelli, il cuore pesante di un rimorso che
non aveva ancora un nome, ma che già mi divorava.
Adelaide si mosse, sollevandosi appena, il suo
viso che emergeva dalla penombra. I suoi occhi verdi,
solitamente affilati come lame, erano opachi, velati da
una stanchezza che non era solo fisica. Si tirò il
lenzuolo sul corpo, come per nascondersi, non da me, ma
da se stessa. “Edoardo.” Sussurrò. “Cosa abbiamo fatto?”
Ma non era una domanda che cercava una risposta, ma solo
un lamento che cercava compianto e complicità. Nella
sua voce percepii il vero rimorso. Lei, che aveva sempre
danzato sul confine del proibito con la sicurezza di una
regina, ora sembrava smarrita, come se l’atto consumato
avesse spezzato l’illusione di controllo che si era
costruita. “Non dovevamo…” Disse, stringendo il
lenzuolo. “Non così. Non noi.” Ma mentre lo diceva, i
suoi occhi cercavano i miei, implorando una
rassicurazione che non potevo darle. Era tormentata
dall’idea di aver tradito non solo la sua morale, ma la
sua stessa identità: la sorella, la musa, la donna che
aveva sempre usato il suo fascino come un’arma, mai come
una resa.
Eppure, il suo rimorso era anche altro.
Adelaide era cresciuta all’ombra di nostro padre,
plasmata dal suo amore ambiguo, dalla sua adorazione che
l’aveva elevata a icona e prigioniera. Una parte di lei
si chiedeva se quella notte non fosse stata un’eredità
di quel passato, un’eco del legame con Umberto che
l’aveva segnata così profondamente. “Sono come lui,
vero?” Mormorò, quasi a se stessa, gli occhi fissi su un
punto lontano. “Prendo ciò che voglio, anche se mi
distrugge. Anche se distrugge tutto il resto intorno a
me.” Quelle parole erano un coltello, quasi una
confessione. Si si sentiva colpevole non solo per ciò
che avevamo fatto, ma per ciò che era, per il fuoco che
la consumava e che aveva trascinato anche me nel suo
inferno.
Il mio rimorso era diverso, più
silenzioso, ma non meno devastante. Sdraiato lì, con il
peso del suo corpo ancora impresso sul mio, sentivo un
nodo in gola, un misto di vergogna e impotenza. Avevo
desiderato Adelaide per anni, l’avevo guardata come
un’ossessione, un sogno proibito che mi teneva sveglio
nelle notti di whisky e solitudine o durante l’amore con
altre donne. Ma ora che il sogno si era fatto carne, la
realtà era un peso insostenibile. Non era solo la
consapevolezza di aver attraversato un confine morale –
fratello e sorella, un tabù che nessuna ricchezza,
nessun vuoto avrebbe mai potuto giustificare – ma il
terrore di ciò che quel gesto significava per noi.
L’avevo voluta, sì, ma l’avevo anche distrutta, o forse
avevo lasciato che lei distruggesse me.
Il mio
rimorso era intrecciato alla gelosia che avevo sempre
provato per lei, per il suo legame con nostro padre, per
il modo in cui aveva preso il posto di nostra madre nel
suo cuore, e forse non solo lì. Quella notte, mentre la
stringevo, una parte di me si era chiesta se stessi
reclamando ciò che Umberto aveva avuto, se il mio
desiderio fosse solo amore o anche vendetta, un
tentativo di strapparla a lui, al passato, a tutto ciò
che mi aveva escluso. Quel pensiero mi nauseava. “Non
sono migliore di lui!” Pensai, e il ricordo delle sue
mani su di lei, dei suoi sguardi troppo intimi, mi fece
serrare i pugni. Il rimorso non era solo per ciò che
avevamo fatto, ma per ciò che ero: un uomo che aveva
amato la sorella non come fratello, ma come amante, e
che ora non sapeva come tornare indietro.
Il
nostro rimorso non era solo personale; era la
consapevolezza di un vuoto morale che ci aveva permesso
di arrivare a quel punto. Eravamo figli di un mondo
senza regole, cresciuti in un palazzo di specchi dove il
desiderio era l’unica legge. Nostro padre ci aveva
insegnato che tutto era permesso, che la bellezza e il
potere giustificavano ogni eccesso. Nostra madre,
sparendo, ci aveva lasciato senza un’ancora, senza un
esempio di cosa significasse amare senza distruggere. E
noi, Adelaide ed io, avevamo riempito quel vuoto con noi
stessi, con un amore che era troppo grande, troppo
sbagliato per essere reale.
“Non possiamo dirlo a
nessuno!” Disse Adelaide, rompendo il silenzio. Si era
alzata, il lenzuolo avvolto come un sudario, e si era
avvicinata alla finestra. Roma, fuori, si svegliava,
ignara, indifferente. “Nessuno capirebbe. Ci
guarderebbero come mostri.” La sua voce tremava, ma
c’era una determinazione nuova, come se stesse già
costruendo una maschera per nascondere ciò che era
successo. “Ma tu, Edoardo… tu mi guarderai ancora come
prima?” Non risposi subito. La guardai, la sua
silhouette contro il vetro, e sentii il peso di ciò che
avevamo perso: l’innocenza, se mai l’avevamo avuta, e la
possibilità di essere solo fratello e sorella. “Ti
guarderò sempre, Adelaide.” Dissi. “Ma non so se potrò
guardarmi allo specchio.” Lei si voltò con un sorriso
amaro sulle labbra. “Allora siamo uguali.” Disse. “Due
specchi rotti che si riflettono all’infinito.” Si
avvicinò, si sedette accanto a me, e per un momento
restammo lì, in silenzio, le nostre mani che non si
toccavano, ma che sentivano ancora il calore dell’altra.
Il rimorso ci legava più del desiderio, un filo
invisibile che ci avrebbe tenuti prigionieri per sempre.
L’alba si completò, fredda e spietata, e Roma si
animò sotto di noi. Il nostro palazzo, la nostra gabbia
dorata, era ancora lì, pronta ad accoglierci con i suoi
silenzi e i suoi segreti. Adelaide si alzò, raccolse il
vestito dal pavimento, e senza guardarmi disse: “Andiamo
avanti, Edoardo. Come sempre.” Ma la sua voce tradiva
una crepa, una fragilità che non poteva nascondere.
Il rimorso non ci avrebbe lasciati. Sarebbe stato nei
nostri sguardi, nei momenti in cui ci saremmo sfiorati
per sbaglio, nelle notti in cui il ricordo di quella
passione ci avrebbe tenuti svegli. Eravamo stati
convinti, per un istante, che nessuno ci avrebbe
giudicati, che il nostro amore fosse più grande di
qualsiasi morale. Ma ora, nella luce cruda del mattino,
sapevamo la verità: il giudizio più duro sarebbe venuto
da noi stessi, dal vuoto che ci portavamo dentro, dalla
consapevolezza che la grande bellezza di Roma era anche
la nostra condanna.
|
FINE
Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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