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DALLA PARTE SBAGLIATA 4
Il reggicalze, la mia ossessione

L’amore
Ci siamo diretti verso un motel discreto lungo una
stradina poco illuminata e riservata poco fuori dal
centro. Siamo entrati e mentre ci avvicinavamo al
bancone l’imbarazzo mi stringeva lo stomaco. L’uomo
dietro il bancone, un signore di mezza età con occhiali
spessi e un’espressione annoiata, sembrava non prestare
molta attenzione, ma io non potevo fare a meno di
scrutarlo, temendo il suo giudizio severo. Mi domandavo
se in quel momento il mio passo fosse abbastanza fluido,
se la mia voce, qualora avessi dovuto parlare, avrebbe
tradito qualcosa in me e se soprattutto ci vedesse come
una coppia normale seppur clandestina. Beh sì in quel
momento avrei solo voluto essere considerata un’amante!
Il reggicalze sotto la gonna, che di solito mi
dava la forza necessaria, in quel momento lo sentivo
come un peso, quasi un segreto troppo grande da
nascondere. Giovanni, però, avertendo il mio disagio mi
ha preso la mano e stringendola forte mi ha detto: “Sei
o no una femme fatale?” Aggiungendo poi che qualunque
cosa fosse successa eravamo insieme. Il portiere
intanto aveva alzato gli occhi dal registro posando il
suo sguardo su di me. Per un istante ho trattenuto il
respiro, pronta a cogliere qualsiasi segno di
disapprovazione. Ma lui con una voce neutra e un sorriso
professionale, ha detto: “Buonasera, Signora.”
Porgendoci la chiave e tornando subito ai suoi fogli
come se nulla fosse.
Quella parola “Signora” mi
ha letteralmente disorientata come se il mondo avesse
improvvisamente cambiato le sue regole. Nessuno mi aveva
mai chiamata così. Neanche il cameriere al ristorante!
Era la prima volta in assoluto che uno sconosciuto,
senza esitazione, mi riconosceva come donna.
Immediatamente l’imbarazzo si era diluito nel mio
sangue, come gli sguardi curiosi al ristorante,
lasciando il posto a un’euforia così intensa da farmi
girare la testa e dentro di me, era come se ogni pezzo
del puzzle andasse al suo posto.
Il reggicalze,
le calze, la gonna, la parrucca, tutto ciò che avevo
costruito per essere Ludovica non era più solo un sogno,
un miraggio o una prospettiva, ed essere chiamata
“Signora” non era solo una formalità, ma un
riconoscimento, una validazione, la mia nuova carta
d’identità. E mentre Giovanni mi stringeva ancora la
mano, guidandomi verso le scale, camminavo con una nuova
leggerezza. I tacchi risuonavano sul pavimento con una
melodia più sicura, e il reggicalze era tornato ad
essere un vezzo leggero e non più un segreto da temere.
Giovanni con uno sguardo complice mi ha sorriso sapendo
benissimo che quella parola “Signora” era la chiave che
apriva la porta a un futuro in cui Ludovica poteva
esistere, senza paura, senza vergogna, pienamente se
stessa.
La stanza era semplice, con un letto
grande, le tende leggere che si gonfiavano all’aria e
una luce soffusa. Giovanni dopo aver chiuso la porta mi
guardava, come se volesse chiedermi il permesso di
avvicinarsi e baciarmi. “Sei bellissima.” Ed io non ho
capito più nulla. Era il nostro secondo bacio, dolce
all’inizio e poi sempre più intenso e passionale. Mi
sentivo leggera, ma quando ho sentito le mani di
Giovanni sfiorarmi la gonna, ho esitato: “Aspetta.” Ho
detto con la voce che tremava.
“Non sono… non
sono come le altre donne.” Lui mi ha guardato
sorridendo: “Lo so e non mi importa. Sei Ludovica, più
donna di quanto non dica il tuo sesso e questo mi
basta.” Lui ha ripreso a toccarmi, ma tremavo.
L’imbarazzo di spogliarmi davanti a lui era palpabile in
ogni centimetro della mia pelle, ma sapevo che dovevo
farlo e con il coraggio dei principianti ho tolto
velocemente la gonna, lasciando che il reggicalze e le
calze rimanessero bene in vista come etichetta della mia
femminilità.
Giovanni mi osservava attentamente,
ma non riuscivo a capire se fosse ammirazione o
curiosità, mi sentivo nuda e fragile aspettando il suo
giudizio. “Dio, sei perfetta!” E quelle parole sono
state come benzina sul fuoco del mio desiderio. Ecco ora
sì, desideravo abbandonarmi, andare fino in fondo, non
solo per il piacere, ma per completare la mia
trasformazione, per sentirmi donna anche durante il
sesso. Le parole di Giovanni: “Dio, sei perfetta”
risuonavano dentro di me come uno tsunami e travolgevano
le mie paure di non essere abbastanza. Il cuore batteva
forte in un ritmo che sembrava sincronizzarsi con il
desiderio che mi pulsava nelle vene. Il reggicalze, teso
contro la mia pelle, era più di un indumento: era una
seconda pelle, un simbolo della mia trasformazione, un
ponte tra me e Giovanni, il passaggio tra passato e
futuro. Ogni gancio, ogni pizzo, mi ricordava che ero
lì, in quel momento, oggetto di desiderio di un uomo e
non di una donna!
Ma non era solo piacere fisico
perché sentivo un bisogno più profondo, quasi spirituale
che andava oltre alla mia immagine riflessa nello
specchio di casa. Sentivo in quel momento quanto il mio
corpo potesse essere desiderato, amato, celebrato e
vissuto. E pensare che solo qualche minuto prima l’idea
del sesso con Giovanni mi aveva terrorizzata, del resto
non avevo mai vissuto un’esperienza simile come donna,
ma quella paura ora era sovrastata da una determinazione
feroce. Era come se ogni passo verso quel momento fosse
stato un atto di ribellione contro le catene del mio
passato, contro il vuoto che aveva cercato di colmare
con il reggicalze inanimato.
Grazie a Giovanni mi
sono abbandonata completamente. Lui era attento,
rispettoso, premuroso, ma anche appassionato. Ogni
tocco, ogni movimento, era un dialogo tra noi, un modo
con il quale percepivo la sua urgenza di amarmi
rispettando soprattutto i ruoli di maschio e femmina.
Nonostante il mio sesso in quel letto non ero
affatto il maschio, sentivo la sua intensità, il suo
corpo caldo e invitante, il suo sguardo ancora colmo di
quell’ammirazione che mi faceva sentire l’altra faccia
dell’amore che ovviamente non avevo mai occupato. Da
femmina l’amore era qualcosa di tremendamente
dirompente, diverso, molto più appagante. Quando mi sono
inginocchiata davanti a lui, seguendo il suo volere, ho
sentito un’ondata di emozioni contrastanti travolgermi.
L’idea di fare l’amore orale, un atto così intimo e
sconosciuto per Ludovica, era al tempo stesso
elettrizzante e terrificante. Non avevo esperienza in
quell’atto e la paura di non essere all’altezza, di
risultare goffa e inadeguata, mi pesava come un’ombra.
Prima di avvicinarmi ho iniziato a tremare: “E se non
sono brava? E se rovinerò tutto? E se spezzerà la nostra
magia?” Non era abituata a quel ruolo, a quel gesto che
per molte donne poteva essere naturale, ma che per me
rappresentava un territorio inesplorato. La mia
precedente vita come Ludovico non mi aveva preparata a
questo, e anche se il reggicalze e le calze mi facevano
sentire femmina, una parte di me temeva di tradirsi, di
non essere “abbastanza donna” in un atto così intimo.
Ma nello stesso istante sapevo che quel momento era
necessario, non solo per il piacere di Giovanni, ma per
la mia rinascita. Prenderlo tra le mie labbra non era
solo un atto fisico: era un altro passo verso la
completa accettazione di me e il benestare degli altri.
Del resto anche questo momento era parte di un rituale
per diventare Ludovica fino in fondo.
Alla fine
il desiderio di essere riconosciuta come donna ha
prevalso sulla mia insicurezza, allora mi sono decisa ed
ho posato le mani sulle gambe di Giovanni. Il respiro si
è fatto più corto, la mia bocca più asciutta per
l’ansia. Per un istante ho chiuso gli occhi ed ho
sentito il calore della sua pelle, l’odore muschiato del
suo corpo. Mi ha invasa una sensazione strana perché non
conoscevo il gusto, la consistenza, la sensazione che
stavo per provare, e quella novità mi spaventava. Ma
quando ho riaperto gli occhi ed ho incontrato lo sguardo
di Giovanni, ho visto solo fiducia: “Non preoccuparti
tesoro, sarà bellissimo per tutti e due, vedrai…”
Quelle parole mi hanno dato coraggio e con un
respiro più profondo, mi sono lasciata andare. E mentre
la mia bocca dipinta di rosso faceva il suo dovere tutto
l’intorno è svanito: non c’era più il motel, non c’era
più Milano, non c’era più Ludovico. C’era solo Ludovica,
con il suo desiderio, la sua paura, la sua
determinazione a essere donna in ogni aspetto. E in quel
momento, anche l’atto più estraneo è diventato parte di
me stessa, anche il sincronismo necessario tra la mia
mano, la lingua, le labbra e il respiro. Avida ho
iniziato a dargli piacere, mantenendo dapprima un ritmo
costante e leggero per poi accelerare seguendo ogni
gemito di Giovanni e la sua mano che delicata, ma
decisa, guidava la mia testa.
Sentivo con tutta
me stessa l’importanza di quell’atto, non importava se
non fossi stata perfetta, se i miei movimenti fossero
incerti: ciò che contava era che lo stavo facendo come
Ludovica, con tutto il coraggio e la fragilità che
questo comportava. Oh sì ero femmina e da femmina sapevo
benissimo che avrei dovuto accelerare e rallentare, in
modo che l’uomo mi desiderasse ancora di più e nel
contempo fare molta attenzione ai suoi respiri e alla
sua durezza per non portarlo oltre il limite e
vanificare ciò che sarebbe successo in seguito.
Ma sapevo ugualmente che avrei dovuto partecipare
mentalmente e sentire con tutti i miei sensi non solo
l’importante dell’atto ma anche il mio piacere. “Sarò in
grado di provare piacere? Sarò in grado di partecipare
emotivamente?” Giovanni mi accarezzava i capelli e
con la sua gentilezza mi incitava a fare meglio, a
metterci grazia e armonia. A sentire tra le mie labbra
quanta bellezza ci fosse in quel gesto. Allora l’ho
iniziato a baciare, poi l’ho strofinato su tutto il mio
viso leccando ogni parte del suo sesso. Eh grazie a lui,
secondo dopo secondo, mi sono resa conto che lo stavo
adorando, sentivo la devozione, perché tutto quello che
rappresentavo in quel momento passava per quel sesso,
uguale al mio, ma nello stesso tempo l’unico tra i due
che poteva legarci.
Poi mi ha stretto le spalle,
mi ha fatto alzare e distendere sul letto. Beh sì, era
arrivato il momento, mi sentivo leggera come una piuma
ed era bastato meno di un soffio per ritrovarmi pronta e
disponibile. Giovanni mi ha detto: “Vedrai sarà tutto
meraviglioso…” E così è stato. La sua dolcezza è stata
più forte della mia resistenza e dopo avermi scostato
appena le mutandine mi ha penetrata dolcemente facendo
attenzione ai miei respiri e che tutto procedesse senza
strappi. Ho chiuso gli occhi ed ho sentito una miscela
di dolore, piacere e trionfo. Sentivo la mia pelle
cedere, sentivo la vera essenza dell’accettazione e
quella di essere posseduta. Era un passaggio, un rito,
mi sentivo una sacerdotessa che offriva il suo corpo per
un bene superiore che chiamavo in quel momento estasi.
Non ero abituata a quelle sensazioni, ma lo accolsi con
tutta la femminilità possibile. Ero sua, mi stava
possedendo, ed era una sensazione ben diversa, non era
solo fisica, ma mentale, e mi sentivo fortunata perché
stavo provando qualcosa di sublime che da maschio mai e
poi mai avrei potuto provare. In quel momento, pronta ad
accogliere la sua passione, desideravo solo che lui
esplodesse dentro di me non solo per sentirmi donna, ma
per misurare quanta passione, quanto desiderio ero stata
capace di dare.
Non conoscevo ancora bene le
inclinazioni di Giovanni durante l’amore, non sapevo se
mi volesse solo così o in qualche modo chiedesse anche
la mia parte attiva. Certo sì, avrei fatto quello che mi
avrebbe chiesto, ma lui è stato splendido, sapeva che
era la mia prima volta da donna e per nulla al mondo
avrebbe voluto confondere i due ruoli generandomi
confusione.
Così è stato e durante quell’atto mi
sono resa conto che non pretendeva altro che la femmina
che era in me, penetrarmi, saziarmi e farmi volare in
paradiso, al punto che il mio sesso è rimasto per tutto
il tempo ben coperto dalle mie mutandine. In quei
frangenti ho iniziato a imparare a conoscere l’uomo, i
suoi respiri e il suo vigore, accompagnando quell’atto
con la mia totale disponibilità in modo da accompagnarlo
fino all’estremo piacere. Quando ho sentito i suoi
fremiti d’orgasmo, le sue vibrazioni più intense, mi
sono lasciata andare e sono venuta così, senza toccarmi,
senza fare altro, sentendo soltanto la sua passione
dentro di me e i suoi umori che mi bagnavano l’anima
tutta.
Dopo l’amore, distesi su quel letto e
avvolti dalle lenzuola, Giovanni mi ha stretto la mano
ed io vedevo nei suoi occhi la stessa meraviglia che
avevo notato quella prima notte, quando lui aveva
intravisto il reggicalze. Era come se lui riconoscesse
in quel dettaglio non solo un oggetto erotico, ma un
simbolo della mia essenza. “Adoro come lo porti e sono
contento che non lo hai tolto durante l’amore, ora so
quanto valga per te!” Mi ha detto sfiorando il pizzo e i
gancetti con le dita. “È come se fosse parte di te.” Mi
sentivo completa, come se avessi attraversato un confine
che non poteva più essere cancellato.
È stato in
quel momento che Giovanni si è voltato leggermente verso
di me ed io ho visto i suoi occhi pieni di un’emozione
che non riuscivo a decifrare. Mi ha accarezzato la
guancia, sfiorando con il pollice il contorno del mio
viso, e poi, con una voce che tremava appena, mi ha
sussurrato: “Ludovica… ti amo.” Quelle parole sono state
un fulmine che mi hanno colpito e affondato lasciandomi
senza fiato. Non mi aspettavo una dichiarazione così
diretta e per un istante il mio cuore si è fermato. Non
so, sentivo qualcosa di indefinito mai provato prima, un
misto di gioia, sorpresa, sgomento e paura. Gioia,
perché essere amata come Ludovica, nella sua verità più
profonda, era un sogno che non avevo mai osato
immaginare pienamente. Sorpresa, perché non pensavo che
un incontro così intenso potesse portare a parole tanto
grandi. Sgomento e paura, perché quelle parole aprivano
una porta verso un futuro incerto, dove Ludovica e
Ludovico avrebbero dovuto trovare un equilibrio. Certo
sì non mi sentivo pronta e forse non del tutto attratta
da una figura maschile, l’uomo, in quel momento
rappresentava per me, il desiderio di essere
riconosciuta come donna, solo questo!
Per non
spezzare l’incantesimo ho lasciato che la coda di quelle
parole planassero lentamente sulla mia pelle, non perché
non volessi rispondere, ma perché ero sopraffatta e
confusa. Ho sentito gli occhi pizzicare, un nodo in gola
che minacciava di trasformarsi in lacrime. Giovanni mi
ha sorriso con una dolcezza che non pretendeva nulla in
cambio. “Non devi dire niente, volevo solo che lo
sapessi. Sei… sei speciale, Ludovica. Non so come
spiegartelo, ma sento qualcosa di forte, qualcosa che
non voglio perdere.”
Poi, dopo un momento di
silenzio: “Spero che non ti abbia turbata e che questo
non sia solo… un incontro, sai? Non voglio che finisca
qui. Mi piacerebbe rivederti, conoscerti di più, passare
del tempo con te. Con Ludovica.”
L’idea che
Giovanni volesse non solo quella notte, ma un futuro
insieme, era come se stesse uccidendo Ludovico e che da
quel momento sarebbe cambiata totalmente la mia vita! Lo
sentivo come un obbligo, ma non ne ero affatto
contraria, solo destabilizzata perché Giovanni non solo
mi aveva accettata quella notte, ma confidava sulla mia
volontà e il mio potenziale su ciò che sarei potuta
diventare. L’idea di costruire qualcosa di più
significava affrontare la complessità della mia
identità, il dialogo tra Ludovica e Ludovico, e il mondo
esterno che poteva giudicarmi.
Mi sono stretta a
lui, posando la testa sul suo petto, lasciando che il
battito del suo cuore mi ancorasse. “Anche io vorrei
rivederti.” Ho sussurrato, lasciando da parte ogni altro
pensiero, ma convinta che quel “ti amo” di Giovanni
sarebbero state un faro, un punto di luce che mi dava il
coraggio di immaginare un altro domani in cui Ludovica
poteva esistere non solo nella notte, ma alla luce del
giorno.
Il reggicalze, ancora caldo contro la mia
pelle, era l’inizio di qualcosa di più grande e mentre
Giovanni continuava ad accarezzarmi i capelli,
chiamandomi Ludovica, ho chiuso gli occhi, lasciando che
quelle parole si depositassero nel mio cuore, come semi
di un futuro che, per la prima volta, non mi sembrava
impossibile. Il momento della
consapevolezza La mattina dopo, ancora
avvolta dal tepore del ricordo della notte con Giovanni
ho sentito il bisogno di prolungare fino all’infinito
quella sensazione. Così mi sono alzata infilando una
vestaglia nera, leggera e trasparente, sopra il
reggicalze che non avevo tolto. Il primo desiderio è
stato quello di guardarmi allo specchio per convincermi
che quella notte passata non era stata un sogno, ma
l’avevo vissuta realmente.
Mentre ero ancora
avvolta dal quel tepore ho sentito il suono insistente
del citofono. Ho aperto la porta, senza curarmi di come
fossi vestita, e il corriere, un ragazzo con un berretto
da baseball e un grande mazzo di rose in mano, leggendo
il biglietto ha detto: “Signora Ludovica, questi sono
per lei.” Poi ha alzato gli occhi e vedendomi ha
esclamato sorridendo: “Complimenti, sicuramente sarà un
suo ammiratore…” Impaziente ho chiuso la porta
ringraziandolo, e con le mani tremanti ho letto il
biglietto: “Ludovica, sei un sogno che non voglio
smettere di sognare. A presto, Giovanni.”
Beh sì,
quella notte l’avevo vissuta realmente ed ora non c’era
più spazio per dubbi o esitazioni. Con una calma
impressionante ho iniziato a vestirmi lasciando il mio
alter ego maschile a letto, come se fosse un guscio che
non mi servisse più, almeno per quel giorno.
Con
una determinazione che non avevo mai provato prima, mi
sono preparata scegliendo qualcosa di elegante, ma
discreto: una gonna al ginocchio color antracite, una
camicetta bianca di seta, calze nere agganciate al mio
inseparabile reggicalze e tacchi alti a spillo modello
vintage. La parrucca castana, ben sistemata, mi
incorniciava un trucco leggero e un rossetto deciso.
Ogni mio gesto era una certezza: non stavo solo
indossando abiti, stavo reclamando un posto nella vita,
un diritto ad esistere!
Uscire di casa alla luce
del giorno era un atto di coraggio monumentale. Nel
quartiere in cui vivevo, con vie strette e negozi
familiari, ero per tutti Ludovico, l’uomo che restaurava
dipinti. Ludovica, invece, era un’estranea, una novità
che poteva sconvolgere l’equilibrio di quel piccolo
mondo. Ma dentro di me sentivo quella sfida impaziente e
martellante per cui, con il mazzo di rose in mano, come
un talismano, ho varcato la soglia del mio appartamento.
Il suono dei tacchi risuonava sulle scale, ma nonostante
mi sentissi bella e affascinante, ad ogni gradino
sentivo il mio coraggio diluirsi finché arida e tremante
sono tornata indietro. Insomma non ce l’ho fatta e
soprattutto, da sola senza un uomo accanto, non mi
sentivo pronta ad affrontare gli sguardi della gente
così come avevo fatto invece la sera prima sottobraccio
a Giovanni.
Mi dava estremo disagio e una
smisurata fragilità pensare che Giovanni rappresentasse
in quel momento non solo l’amore, ma anche l’uomo
indispensabile e necessario per il mio percorso.
Desideravo essere Ludovica anche senza un uomo al mio
fianco, e questo richiedeva un coraggio che ancora non
avevo pienamente trovato.
Triste e sconsolata ho
passato il giorno in casa ripetendomi che dovevo farcela
da sola, ma sapendo benissimo che l’uscita di una sera
non era che il primo centimetro dei tanti chilometri che
avrei dovuto percorrere. Finora avevo vissuto solo
momenti di scoperta e di euforia come la prima volta che
avevo indossato il reggicalze o quando mi ero truccata,
insomma ogni piccolo gesto era stata una vittoria, ma
ora la paura del giudizio sociale e il rifiuto costante
degli altri mi facevano sentire inadeguata. Cosa
avrebbero pensato i colleghi? I vicini? E soprattutto la
mia famiglia, che viveva in un piccolo paese in
Piemonte?
Passavo ore ad immaginare
conversazioni, preparando discorsi anche a voce alta in
modo da essere ancora più convincente con me stessa e
con gli altri. In quei momenti vedevo il volto severo di
mio padre e gli occhi dolci pieni di pena di mia madre.
Sapevo che li avrei delusi, feriti! Ma la solitudine era
un’ombra ancora più pesante! Non mi restava che aprirmi
al mondo.
Ovviamente la sera stessa ne ho
parlato con Giovanni al telefono e lui carinamente mi ha
messa in contatto con una sua amica Clara, una
psicoterapeuta specializzata in questioni di identità di
genere. Ed è stata proprio lei ad aiutarmi a distinguere
tra ciò che volevo davvero e ciò che temevo di non poter
ottenere. Dopo i primi imbarazzi durante quelle sedute
sono riuscita ad aprirmi completamente a lei nonostante
lei mi mettesse in guardia delle difficoltà che avrei
dovuto affrontare: “Non sarà facile…” Mi diceva, ma poi
per tranquillizzarmi aggiungeva: “Ma ogni passo che fai
è un pezzo di te che torna a casa.”
È stato a
quel punto che con l’aiuto di Clara e Giovanni ho decido
di fare un ulteriore piccolo, ma grande passo
confidandomi con mia sorella. Lei dopo un iniziale
sconcerto mi ha stretto a sé dicendomi: “Finalmente ti
vedo felice!” Beh era pur sempre un momento di
accettazione anche se il timore di farmi vedere con gli
abiti femminili rimaneva una barriera difficile da
superare.
Dopo mesi di riflessione e colloqui con
Clara mi sono decisa a iniziare tramite un endocrinologo
la terapia ormonale sostitutiva. Lui mi ha spiegato in
dettaglio il processo che avrei affrontato e per
favorire lo sviluppo di caratteristiche fisiche
femminili, come la crescita del seno, la ridistribuzione
del grasso corporeo e una pelle più liscia avrei dovuto
assumere estrogeni e antiandrogeni. Euforica ho
iniziato immediatamente la terapia, ma gli effetti
collaterali come gli sbalzi d’umore e l’ansia non hanno
tardato a presentarsi. C’erano giorni in cui mi sentivo
euforica, altri in cui piangevo senza motivo. Sentivo
quella volatilità come un monito, come una sorta di
ripensamento: “Ero davvero decisa?” Mi ripetevo che ogni
tazza di tè caldo bevuta con una dose di estrogeni non
era altro che un seme piantato per il mio futuro. E così
è stato perché con il tempo, ho trovato un mio
equilibrio, imparando ad ascoltare il mio corpo e a
celebrare ogni passo avanti.
Ed in effetti ai
primi piccolissimi cambiamenti i miei timori sono
scomparsi. Dopo tre mesi, notavo la mia pelle più
morbida e il mio viso meno spigoloso. A sei mesi, ho
iniziato a sviluppare un accenno di seno, certo non era
il massimo, ma vedevo che il mio corpo cominciava a
rispondere e prendere forme più arrotondate. Ogni
cambiamento era una piccola vittoria, ma anche una
sfida. I miei vestiti maschili non si adattavano più al
corpo di Ludovica, e questo mi spingeva ancora di più a
rinnovare il guardaroba.
Quando ho comprato il
mio primo reggiseno, bianco con ricami floreali, ho
avvertito un misto di imbarazzo ed eccitazione,
scegliendo un modello semplice, elegante e sobrio per
nulla trasgressivo per reclamare di fatto il mio posto
tra le signore.
Osservandomi allo specchio col
mio primo reggiseno indossato ho avuto un’esplosione di
consapevolezza e benessere! Il mio percorso di
transizione non era più un semplice sogno, ma qualcosa
di più reale! Un viaggio emotivo intenso che mi faceva
sentire invincibile, autentica, come se il mondo stesse
finalmente acquistando colore. Ma quella gioia portava
con sé una nuova consapevolezza: la dipendenza da
Giovanni che come “scudo” contro il mondo mi faceva
sentire troppo fragile. Desideravo essere Ludovica
indipendentemente da tutto e questo richiedeva un
coraggio che ancora non avevo pienamente trovato.
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LETTURA
Questo racconto è opera di pura
fantasia. Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e qualsiasi
somiglianza con fatti, scenari e persone è del
tutto casuale.
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