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DALLA PARTE SBAGLIATA 4
Il reggicalze, la mia ossessione



 
L’amore
Ci siamo diretti verso un motel discreto lungo una stradina poco illuminata e riservata poco fuori dal centro. Siamo entrati e mentre ci avvicinavamo al bancone l’imbarazzo mi stringeva lo stomaco. L’uomo dietro il bancone, un signore di mezza età con occhiali spessi e un’espressione annoiata, sembrava non prestare molta attenzione, ma io non potevo fare a meno di scrutarlo, temendo il suo giudizio severo. Mi domandavo se in quel momento il mio passo fosse abbastanza fluido, se la mia voce, qualora avessi dovuto parlare, avrebbe tradito qualcosa in me e se soprattutto ci vedesse come una coppia normale seppur clandestina. Beh sì in quel momento avrei solo voluto essere considerata un’amante!

Il reggicalze sotto la gonna, che di solito mi dava la forza necessaria, in quel momento lo sentivo come un peso, quasi un segreto troppo grande da nascondere. Giovanni, però, avertendo il mio disagio mi ha preso la mano e stringendola forte mi ha detto: “Sei o no una femme fatale?” Aggiungendo poi che qualunque cosa fosse successa eravamo insieme.
Il portiere intanto aveva alzato gli occhi dal registro posando il suo sguardo su di me. Per un istante ho trattenuto il respiro, pronta a cogliere qualsiasi segno di disapprovazione. Ma lui con una voce neutra e un sorriso professionale, ha detto: “Buonasera, Signora.” Porgendoci la chiave e tornando subito ai suoi fogli come se nulla fosse.

Quella parola “Signora” mi ha letteralmente disorientata come se il mondo avesse improvvisamente cambiato le sue regole. Nessuno mi aveva mai chiamata così. Neanche il cameriere al ristorante! Era la prima volta in assoluto che uno sconosciuto, senza esitazione, mi riconosceva come donna. Immediatamente l’imbarazzo si era diluito nel mio sangue, come gli sguardi curiosi al ristorante, lasciando il posto a un’euforia così intensa da farmi girare la testa e dentro di me, era come se ogni pezzo del puzzle andasse al suo posto.

Il reggicalze, le calze, la gonna, la parrucca, tutto ciò che avevo costruito per essere Ludovica non era più solo un sogno, un miraggio o una prospettiva, ed essere chiamata “Signora” non era solo una formalità, ma un riconoscimento, una validazione, la mia nuova carta d’identità. E mentre Giovanni mi stringeva ancora la mano, guidandomi verso le scale, camminavo con una nuova leggerezza. I tacchi risuonavano sul pavimento con una melodia più sicura, e il reggicalze era tornato ad essere un vezzo leggero e non più un segreto da temere. Giovanni con uno sguardo complice mi ha sorriso sapendo benissimo che quella parola “Signora” era la chiave che apriva la porta a un futuro in cui Ludovica poteva esistere, senza paura, senza vergogna, pienamente se stessa.

La stanza era semplice, con un letto grande, le tende leggere che si gonfiavano all’aria e una luce soffusa. Giovanni dopo aver chiuso la porta mi guardava, come se volesse chiedermi il permesso di avvicinarsi e baciarmi. “Sei bellissima.” Ed io non ho capito più nulla. Era il nostro secondo bacio, dolce all’inizio e poi sempre più intenso e passionale. Mi sentivo leggera, ma quando ho sentito le mani di Giovanni sfiorarmi la gonna, ho esitato: “Aspetta.” Ho detto con la voce che tremava.

“Non sono… non sono come le altre donne.” Lui mi ha guardato sorridendo: “Lo so e non mi importa. Sei Ludovica, più donna di quanto non dica il tuo sesso e questo mi basta.” Lui ha ripreso a toccarmi, ma tremavo. L’imbarazzo di spogliarmi davanti a lui era palpabile in ogni centimetro della mia pelle, ma sapevo che dovevo farlo e con il coraggio dei principianti ho tolto velocemente la gonna, lasciando che il reggicalze e le calze rimanessero bene in vista come etichetta della mia femminilità.

Giovanni mi osservava attentamente, ma non riuscivo a capire se fosse ammirazione o curiosità, mi sentivo nuda e fragile aspettando il suo giudizio. “Dio, sei perfetta!” E quelle parole sono state come benzina sul fuoco del mio desiderio. Ecco ora sì, desideravo abbandonarmi, andare fino in fondo, non solo per il piacere, ma per completare la mia trasformazione, per sentirmi donna anche durante il sesso.
Le parole di Giovanni: “Dio, sei perfetta” risuonavano dentro di me come uno tsunami e travolgevano le mie paure di non essere abbastanza. Il cuore batteva forte in un ritmo che sembrava sincronizzarsi con il desiderio che mi pulsava nelle vene. Il reggicalze, teso contro la mia pelle, era più di un indumento: era una seconda pelle, un simbolo della mia trasformazione, un ponte tra me e Giovanni, il passaggio tra passato e futuro. Ogni gancio, ogni pizzo, mi ricordava che ero lì, in quel momento, oggetto di desiderio di un uomo e non di una donna!

Ma non era solo piacere fisico perché sentivo un bisogno più profondo, quasi spirituale che andava oltre alla mia immagine riflessa nello specchio di casa. Sentivo in quel momento quanto il mio corpo potesse essere desiderato, amato, celebrato e vissuto. E pensare che solo qualche minuto prima l’idea del sesso con Giovanni mi aveva terrorizzata, del resto non avevo mai vissuto un’esperienza simile come donna, ma quella paura ora era sovrastata da una determinazione feroce. Era come se ogni passo verso quel momento fosse stato un atto di ribellione contro le catene del mio passato, contro il vuoto che aveva cercato di colmare con il reggicalze inanimato.

Grazie a Giovanni mi sono abbandonata completamente. Lui era attento, rispettoso, premuroso, ma anche appassionato. Ogni tocco, ogni movimento, era un dialogo tra noi, un modo con il quale percepivo la sua urgenza di amarmi rispettando soprattutto i ruoli di maschio e femmina.

Nonostante il mio sesso in quel letto non ero affatto il maschio, sentivo la sua intensità, il suo corpo caldo e invitante, il suo sguardo ancora colmo di quell’ammirazione che mi faceva sentire l’altra faccia dell’amore che ovviamente non avevo mai occupato. Da femmina l’amore era qualcosa di tremendamente dirompente, diverso, molto più appagante. Quando mi sono inginocchiata davanti a lui, seguendo il suo volere, ho sentito un’ondata di emozioni contrastanti travolgermi.

L’idea di fare l’amore orale, un atto così intimo e sconosciuto per Ludovica, era al tempo stesso elettrizzante e terrificante. Non avevo esperienza in quell’atto e la paura di non essere all’altezza, di risultare goffa e inadeguata, mi pesava come un’ombra. Prima di avvicinarmi ho iniziato a tremare: “E se non sono brava? E se rovinerò tutto? E se spezzerà la nostra magia?” Non era abituata a quel ruolo, a quel gesto che per molte donne poteva essere naturale, ma che per me rappresentava un territorio inesplorato. La mia precedente vita come Ludovico non mi aveva preparata a questo, e anche se il reggicalze e le calze mi facevano sentire femmina, una parte di me temeva di tradirsi, di non essere “abbastanza donna” in un atto così intimo.

Ma nello stesso istante sapevo che quel momento era necessario, non solo per il piacere di Giovanni, ma per la mia rinascita. Prenderlo tra le mie labbra non era solo un atto fisico: era un altro passo verso la completa accettazione di me e il benestare degli altri. Del resto anche questo momento era parte di un rituale per diventare Ludovica fino in fondo.

Alla fine il desiderio di essere riconosciuta come donna ha prevalso sulla mia insicurezza, allora mi sono decisa ed ho posato le mani sulle gambe di Giovanni. Il respiro si è fatto più corto, la mia bocca più asciutta per l’ansia. Per un istante ho chiuso gli occhi ed ho sentito il calore della sua pelle, l’odore muschiato del suo corpo. Mi ha invasa una sensazione strana perché non conoscevo il gusto, la consistenza, la sensazione che stavo per provare, e quella novità mi spaventava. Ma quando ho riaperto gli occhi ed ho incontrato lo sguardo di Giovanni, ho visto solo fiducia: “Non preoccuparti tesoro, sarà bellissimo per tutti e due, vedrai…”

Quelle parole mi hanno dato coraggio e con un respiro più profondo, mi sono lasciata andare. E mentre la mia bocca dipinta di rosso faceva il suo dovere tutto l’intorno è svanito: non c’era più il motel, non c’era più Milano, non c’era più Ludovico. C’era solo Ludovica, con il suo desiderio, la sua paura, la sua determinazione a essere donna in ogni aspetto. E in quel momento, anche l’atto più estraneo è diventato parte di me stessa, anche il sincronismo necessario tra la mia mano, la lingua, le labbra e il respiro. Avida ho iniziato a dargli piacere, mantenendo dapprima un ritmo costante e leggero per poi accelerare seguendo ogni gemito di Giovanni e la sua mano che delicata, ma decisa, guidava la mia testa.

Sentivo con tutta me stessa l’importanza di quell’atto, non importava se non fossi stata perfetta, se i miei movimenti fossero incerti: ciò che contava era che lo stavo facendo come Ludovica, con tutto il coraggio e la fragilità che questo comportava. Oh sì ero femmina e da femmina sapevo benissimo che avrei dovuto accelerare e rallentare, in modo che l’uomo mi desiderasse ancora di più e nel contempo fare molta attenzione ai suoi respiri e alla sua durezza per non portarlo oltre il limite e vanificare ciò che sarebbe successo in seguito.

Ma sapevo ugualmente che avrei dovuto partecipare mentalmente e sentire con tutti i miei sensi non solo l’importante dell’atto ma anche il mio piacere. “Sarò in grado di provare piacere? Sarò in grado di partecipare emotivamente?”
Giovanni mi accarezzava i capelli e con la sua gentilezza mi incitava a fare meglio, a metterci grazia e armonia. A sentire tra le mie labbra quanta bellezza ci fosse in quel gesto. Allora l’ho iniziato a baciare, poi l’ho strofinato su tutto il mio viso leccando ogni parte del suo sesso. Eh grazie a lui, secondo dopo secondo, mi sono resa conto che lo stavo adorando, sentivo la devozione, perché tutto quello che rappresentavo in quel momento passava per quel sesso, uguale al mio, ma nello stesso tempo l’unico tra i due che poteva legarci.

Poi mi ha stretto le spalle, mi ha fatto alzare e distendere sul letto. Beh sì, era arrivato il momento, mi sentivo leggera come una piuma ed era bastato meno di un soffio per ritrovarmi pronta e disponibile. Giovanni mi ha detto: “Vedrai sarà tutto meraviglioso…” E così è stato. La sua dolcezza è stata più forte della mia resistenza e dopo avermi scostato appena le mutandine mi ha penetrata dolcemente facendo attenzione ai miei respiri e che tutto procedesse senza strappi. Ho chiuso gli occhi ed ho sentito una miscela di dolore, piacere e trionfo. Sentivo la mia pelle cedere, sentivo la vera essenza dell’accettazione e quella di essere posseduta. Era un passaggio, un rito, mi sentivo una sacerdotessa che offriva il suo corpo per un bene superiore che chiamavo in quel momento estasi. Non ero abituata a quelle sensazioni, ma lo accolsi con tutta la femminilità possibile. Ero sua, mi stava possedendo, ed era una sensazione ben diversa, non era solo fisica, ma mentale, e mi sentivo fortunata perché stavo provando qualcosa di sublime che da maschio mai e poi mai avrei potuto provare. In quel momento, pronta ad accogliere la sua passione, desideravo solo che lui esplodesse dentro di me non solo per sentirmi donna, ma per misurare quanta passione, quanto desiderio ero stata capace di dare.

Non conoscevo ancora bene le inclinazioni di Giovanni durante l’amore, non sapevo se mi volesse solo così o in qualche modo chiedesse anche la mia parte attiva. Certo sì, avrei fatto quello che mi avrebbe chiesto, ma lui è stato splendido, sapeva che era la mia prima volta da donna e per nulla al mondo avrebbe voluto confondere i due ruoli generandomi confusione.

Così è stato e durante quell’atto mi sono resa conto che non pretendeva altro che la femmina che era in me, penetrarmi, saziarmi e farmi volare in paradiso, al punto che il mio sesso è rimasto per tutto il tempo ben coperto dalle mie mutandine. In quei frangenti ho iniziato a imparare a conoscere l’uomo, i suoi respiri e il suo vigore, accompagnando quell’atto con la mia totale disponibilità in modo da accompagnarlo fino all’estremo piacere. Quando ho sentito i suoi fremiti d’orgasmo, le sue vibrazioni più intense, mi sono lasciata andare e sono venuta così, senza toccarmi, senza fare altro, sentendo soltanto la sua passione dentro di me e i suoi umori che mi bagnavano l’anima tutta.

Dopo l’amore, distesi su quel letto e avvolti dalle lenzuola, Giovanni mi ha stretto la mano ed io vedevo nei suoi occhi la stessa meraviglia che avevo notato quella prima notte, quando lui aveva intravisto il reggicalze. Era come se lui riconoscesse in quel dettaglio non solo un oggetto erotico, ma un simbolo della mia essenza. “Adoro come lo porti e sono contento che non lo hai tolto durante l’amore, ora so quanto valga per te!” Mi ha detto sfiorando il pizzo e i gancetti con le dita. “È come se fosse parte di te.” Mi sentivo completa, come se avessi attraversato un confine che non poteva più essere cancellato.

È stato in quel momento che Giovanni si è voltato leggermente verso di me ed io ho visto i suoi occhi pieni di un’emozione che non riuscivo a decifrare. Mi ha accarezzato la guancia, sfiorando con il pollice il contorno del mio viso, e poi, con una voce che tremava appena, mi ha sussurrato: “Ludovica… ti amo.” Quelle parole sono state un fulmine che mi hanno colpito e affondato lasciandomi senza fiato. Non mi aspettavo una dichiarazione così diretta e per un istante il mio cuore si è fermato. Non so, sentivo qualcosa di indefinito mai provato prima, un misto di gioia, sorpresa, sgomento e paura. Gioia, perché essere amata come Ludovica, nella sua verità più profonda, era un sogno che non avevo mai osato immaginare pienamente. Sorpresa, perché non pensavo che un incontro così intenso potesse portare a parole tanto grandi. Sgomento e paura, perché quelle parole aprivano una porta verso un futuro incerto, dove Ludovica e Ludovico avrebbero dovuto trovare un equilibrio. Certo sì non mi sentivo pronta e forse non del tutto attratta da una figura maschile, l’uomo, in quel momento rappresentava per me, il desiderio di essere riconosciuta come donna, solo questo!

Per non spezzare l’incantesimo ho lasciato che la coda di quelle parole planassero lentamente sulla mia pelle, non perché non volessi rispondere, ma perché ero sopraffatta e confusa. Ho sentito gli occhi pizzicare, un nodo in gola che minacciava di trasformarsi in lacrime. Giovanni mi ha sorriso con una dolcezza che non pretendeva nulla in cambio. “Non devi dire niente, volevo solo che lo sapessi. Sei… sei speciale, Ludovica. Non so come spiegartelo, ma sento qualcosa di forte, qualcosa che non voglio perdere.”

Poi, dopo un momento di silenzio: “Spero che non ti abbia turbata e che questo non sia solo… un incontro, sai? Non voglio che finisca qui. Mi piacerebbe rivederti, conoscerti di più, passare del tempo con te. Con Ludovica.”

L’idea che Giovanni volesse non solo quella notte, ma un futuro insieme, era come se stesse uccidendo Ludovico e che da quel momento sarebbe cambiata totalmente la mia vita! Lo sentivo come un obbligo, ma non ne ero affatto contraria, solo destabilizzata perché Giovanni non solo mi aveva accettata quella notte, ma confidava sulla mia volontà e il mio potenziale su ciò che sarei potuta diventare. L’idea di costruire qualcosa di più significava affrontare la complessità della mia identità, il dialogo tra Ludovica e Ludovico, e il mondo esterno che poteva giudicarmi.

Mi sono stretta a lui, posando la testa sul suo petto, lasciando che il battito del suo cuore mi ancorasse. “Anche io vorrei rivederti.” Ho sussurrato, lasciando da parte ogni altro pensiero, ma convinta che quel “ti amo” di Giovanni sarebbero state un faro, un punto di luce che mi dava il coraggio di immaginare un altro domani in cui Ludovica poteva esistere non solo nella notte, ma alla luce del giorno.

Il reggicalze, ancora caldo contro la mia pelle, era l’inizio di qualcosa di più grande e mentre Giovanni continuava ad accarezzarmi i capelli, chiamandomi Ludovica, ho chiuso gli occhi, lasciando che quelle parole si depositassero nel mio cuore, come semi di un futuro che, per la prima volta, non mi sembrava impossibile.

Il momento della consapevolezza
La mattina dopo, ancora avvolta dal tepore del ricordo della notte con Giovanni ho sentito il bisogno di prolungare fino all’infinito quella sensazione. Così mi sono alzata infilando una vestaglia nera, leggera e trasparente, sopra il reggicalze che non avevo tolto. Il primo desiderio è stato quello di guardarmi allo specchio per convincermi che quella notte passata non era stata un sogno, ma l’avevo vissuta realmente.

Mentre ero ancora avvolta dal quel tepore ho sentito il suono insistente del citofono. Ho aperto la porta, senza curarmi di come fossi vestita, e il corriere, un ragazzo con un berretto da baseball e un grande mazzo di rose in mano, leggendo il biglietto ha detto: “Signora Ludovica, questi sono per lei.” Poi ha alzato gli occhi e vedendomi ha esclamato sorridendo: “Complimenti, sicuramente sarà un suo ammiratore…” Impaziente ho chiuso la porta ringraziandolo, e con le mani tremanti ho letto il biglietto: “Ludovica, sei un sogno che non voglio smettere di sognare. A presto, Giovanni.”

Beh sì, quella notte l’avevo vissuta realmente ed ora non c’era più spazio per dubbi o esitazioni. Con una calma impressionante ho iniziato a vestirmi lasciando il mio alter ego maschile a letto, come se fosse un guscio che non mi servisse più, almeno per quel giorno.

Con una determinazione che non avevo mai provato prima, mi sono preparata scegliendo qualcosa di elegante, ma discreto: una gonna al ginocchio color antracite, una camicetta bianca di seta, calze nere agganciate al mio inseparabile reggicalze e tacchi alti a spillo modello vintage. La parrucca castana, ben sistemata, mi incorniciava un trucco leggero e un rossetto deciso. Ogni mio gesto era una certezza: non stavo solo indossando abiti, stavo reclamando un posto nella vita, un diritto ad esistere!

Uscire di casa alla luce del giorno era un atto di coraggio monumentale. Nel quartiere in cui vivevo, con vie strette e negozi familiari, ero per tutti Ludovico, l’uomo che restaurava dipinti. Ludovica, invece, era un’estranea, una novità che poteva sconvolgere l’equilibrio di quel piccolo mondo. Ma dentro di me sentivo quella sfida impaziente e martellante per cui, con il mazzo di rose in mano, come un talismano, ho varcato la soglia del mio appartamento. Il suono dei tacchi risuonava sulle scale, ma nonostante mi sentissi bella e affascinante, ad ogni gradino sentivo il mio coraggio diluirsi finché arida e tremante sono tornata indietro. Insomma non ce l’ho fatta e soprattutto, da sola senza un uomo accanto, non mi sentivo pronta ad affrontare gli sguardi della gente così come avevo fatto invece la sera prima sottobraccio a Giovanni.

Mi dava estremo disagio e una smisurata fragilità pensare che Giovanni rappresentasse in quel momento non solo l’amore, ma anche l’uomo indispensabile e necessario per il mio percorso. Desideravo essere Ludovica anche senza un uomo al mio fianco, e questo richiedeva un coraggio che ancora non avevo pienamente trovato.

Triste e sconsolata ho passato il giorno in casa ripetendomi che dovevo farcela da sola, ma sapendo benissimo che l’uscita di una sera non era che il primo centimetro dei tanti chilometri che avrei dovuto percorrere. Finora avevo vissuto solo momenti di scoperta e di euforia come la prima volta che avevo indossato il reggicalze o quando mi ero truccata, insomma ogni piccolo gesto era stata una vittoria, ma ora la paura del giudizio sociale e il rifiuto costante degli altri mi facevano sentire inadeguata. Cosa avrebbero pensato i colleghi? I vicini? E soprattutto la mia famiglia, che viveva in un piccolo paese in Piemonte?

Passavo ore ad immaginare conversazioni, preparando discorsi anche a voce alta in modo da essere ancora più convincente con me stessa e con gli altri. In quei momenti vedevo il volto severo di mio padre e gli occhi dolci pieni di pena di mia madre. Sapevo che li avrei delusi, feriti! Ma la solitudine era un’ombra ancora più pesante! Non mi restava che aprirmi al mondo.

Ovviamente la sera stessa ne ho parlato con Giovanni al telefono e lui carinamente mi ha messa in contatto con una sua amica Clara, una psicoterapeuta specializzata in questioni di identità di genere. Ed è stata proprio lei ad aiutarmi a distinguere tra ciò che volevo davvero e ciò che temevo di non poter ottenere. Dopo i primi imbarazzi durante quelle sedute sono riuscita ad aprirmi completamente a lei nonostante lei mi mettesse in guardia delle difficoltà che avrei dovuto affrontare: “Non sarà facile…” Mi diceva, ma poi per tranquillizzarmi aggiungeva: “Ma ogni passo che fai è un pezzo di te che torna a casa.”

È stato a quel punto che con l’aiuto di Clara e Giovanni ho decido di fare un ulteriore piccolo, ma grande passo confidandomi con mia sorella. Lei dopo un iniziale sconcerto mi ha stretto a sé dicendomi: “Finalmente ti vedo felice!” Beh era pur sempre un momento di accettazione anche se il timore di farmi vedere con gli abiti femminili rimaneva una barriera difficile da superare.

Dopo mesi di riflessione e colloqui con Clara mi sono decisa a iniziare tramite un endocrinologo la terapia ormonale sostitutiva. Lui mi ha spiegato in dettaglio il processo che avrei affrontato e per favorire lo sviluppo di caratteristiche fisiche femminili, come la crescita del seno, la ridistribuzione del grasso corporeo e una pelle più liscia avrei dovuto assumere estrogeni e antiandrogeni.
Euforica ho iniziato immediatamente la terapia, ma gli effetti collaterali come gli sbalzi d’umore e l’ansia non hanno tardato a presentarsi. C’erano giorni in cui mi sentivo euforica, altri in cui piangevo senza motivo.
Sentivo quella volatilità come un monito, come una sorta di ripensamento: “Ero davvero decisa?” Mi ripetevo che ogni tazza di tè caldo bevuta con una dose di estrogeni non era altro che un seme piantato per il mio futuro. E così è stato perché con il tempo, ho trovato un mio equilibrio, imparando ad ascoltare il mio corpo e a celebrare ogni passo avanti.

Ed in effetti ai primi piccolissimi cambiamenti i miei timori sono scomparsi. Dopo tre mesi, notavo la mia pelle più morbida e il mio viso meno spigoloso. A sei mesi, ho iniziato a sviluppare un accenno di seno, certo non era il massimo, ma vedevo che il mio corpo cominciava a rispondere e prendere forme più arrotondate. Ogni cambiamento era una piccola vittoria, ma anche una sfida. I miei vestiti maschili non si adattavano più al corpo di Ludovica, e questo mi spingeva ancora di più a rinnovare il guardaroba.

Quando ho comprato il mio primo reggiseno, bianco con ricami floreali, ho avvertito un misto di imbarazzo ed eccitazione, scegliendo un modello semplice, elegante e sobrio per nulla trasgressivo per reclamare di fatto il mio posto tra le signore.

Osservandomi allo specchio col mio primo reggiseno indossato ho avuto un’esplosione di consapevolezza e benessere! Il mio percorso di transizione non era più un semplice sogno, ma qualcosa di più reale! Un viaggio emotivo intenso che mi faceva sentire invincibile, autentica, come se il mondo stesse finalmente acquistando colore. Ma quella gioia portava con sé una nuova consapevolezza: la dipendenza da Giovanni che come “scudo” contro il mondo mi faceva sentire troppo fragile. Desideravo essere Ludovica indipendentemente da tutto e questo richiedeva un coraggio che ancora non avevo pienamente trovato.



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Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.

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