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DALLA PARTE SBAGLIATA 5
Il reggicalze, la mia ossessione



 
Il fotografo delle modelle
La determinazione era cresciuta con il tempo, alimentata da quei piccoli grandi successi, dalle lunghe conversazioni con Giovanni. Ed è stato lui, mesi dopo, una sera a casa mia seduti comodamente sul divano a dirmi: “Ludovica, finché ti sentirai protetta da me, sarà difficile per te fare passi in avanti. Devi aprirti al mondo, senza che io ti dia la patente di essere donna.”
Come al solito Giovanni aveva intuito i miei pensieri più profondi aggiungendo: “Io rimarrò sempre al tuo fianco, ma sappi che la mia gelosia non deve essere un ostacolo al tuo percorso.”
Aveva colpito al centro del bersaglio, perché nonostante l’amore che provavo per lui, ineluttabilmente lo vedevo come la mia guida piuttosto che il mio compagno. Allora l’ho abbracciato, baciato, stretto: “Ti amo!”

Già, era arrivato il momento di proseguire da sola, certo nulla di eterno, nulla di definito per sempre, ma affrontare esperienze in cui non avrei avuto nessun’ancora di salvataggio. Ho ripensato a quando mio zio, aveva tolto le mani dal sellino della mia bicicletta ed io avevo proseguito da sola senza il suo aiuto. Ecco, quella era la giusta similitudine.

Comunque, nonostante i progressi interiori, il coraggio di vivere apertamente come Ludovica rimaneva una sfida. Dovevo pretendere di più da me stessa, ma solo il tempo mi avrebbe dato quella forza di uscire alla luce del giorno. Sono stati piccoli passi: un caffè in un bar fuori dal quartiere, una passeggiata in centro, una serata con Giovanni in compagnia dei suoi amici. Ogni uscita era un atto di resistenza, un modo per reclamare il mio posto. Gli sguardi curiosi, i sussurri, a volte le offese, non sono sparite, ma avevo imparato a rispondere con un sorriso o un’occhiata fiera, come a dire: “Esisto, e non mi nascondo.”

Ancora incerta ho deciso di sfidare me stessa: un’uscita da sola, senza Giovanni, senza nessuno a farmi da scudo. Ed è stato un pomeriggio di primavera, il sole tiepido accarezzava i tavolini all’aperto del bar nei giardini del Castello Sforzesco. Indossavo una gonna leggera a fiori, il mio primo reggiseno bianco con ricami floreali sotto una camicetta sbottonata appena, e un trucco deciso ad ali di farfalla. Poggiando la mia borsetta sulla sedia vuota ed accavallando le gambe impreziosite da una trama velatissima di calza neutra ho ordinato un succo di ananas. Sentivo il mio fiato grosso riempirmi il petto, le gambe tremavano, non tanto per il freddo, quanto per il peso degli sguardi che sentivo appiccicati come una colla. Ogni passante sembrava un giudice, ogni rumore un possibile commento.

Mentre mescolavo il caffè, un uomo si è avvicinato. Alto, più o meno cinquant’anni, capelli brizzolati e sorriso sicuro. “Posso sedermi?” Mi ha chiesto senza aspettare una mia risposta. Colta alla sprovvista ho annuito, sentendo dentro me una tempesta di disagio e gratitudine. “Beh sì era previsto no?” Mi sono detta, poggiando il telefono sul tavolo e pronta a conversare. Lui si è presentato come Maurizio. Ho subito notato quanto fosse esperto in quegli approcci, un tipo loquace, con un fare disinvolto. “Sai, non ho potuto fare a meno di notarti!” Mi ha guardata negli occhi così intensamente che non sono riuscita ad abbassare i miei. “Sei bellissima, hai un’eleganza naturale.”

Forse era una frase che diceva a tutte, ma in quel tutto, finalmente c’ero anche io. Mi sono ripetuta con un certo compiacimento: “Bellissima. Elegante.” Per la prima volta, qualcuno che non era Giovanni mi vedeva come donna, senza esitazione. Ho iniziato a giocare con i miei capelli e l’euforia è montata dentro di me tanto che non ho fatto caso al tono insinuante nella sua voce e al modo in cui i suoi occhi scivolavano sul mio corpo. Ero troppo presa dalla gioia di essere riconosciuta, accettata. “Grazie…” Ho balbettato sorridendo con l’adrenalina che saliva tra le mie gambe.

Maurizio ha continuato a parlare raccontandomi di essere un fotografo di ritratti, di amare le donne speciali come me. Non sapevo a cosa si riferisse precisamente, ma ancora inesperta nel leggere le intenzioni altrui, mi sentivo lusingata, quasi ubriaca di quella attenzione, ponendo l’accento che essendo un fotografo sapesse cogliere ed apprezzare la bellezza e la femminilità.
Quando mi ha proposto di continuare la serata altrove, magari a casa sua per “un bicchiere di vino e una chiacchierata più intima” ripensando alle parole di Giovanni ho accettato senza pensarci troppo. Beh si ripensandoci mi sono sentita una preda, ma non era affatto male quella sensazione e in quel momento non vedevo alcun pericolo, solo l’opportunità di sentirmi ancora più Ludovica, ancora più reale e soprattutto distante dal mio scudo chiamato Giovanni.

La casa di Maurizio era un loft in un palazzo antico del centro di Milano, con grandi finestre che lasciavano entrare la luce dorata del tramonto. L’interno era un mix di modernità e caos creativo: divani in pelle, scaffali pieni di libri d’arte, e pareti coperte di fotografie incorniciate. Molte ritraevano modelle nude, in pose artistiche, i corpi illuminati in modo provocatorio e drammatico. Alcune erano sensuali, altre vulnerabili, ma tutte sembravano celebrare la bellezza femminile. “Sono le mie muse… Donne che hanno avuto il coraggio di mostrarsi. Consapevoli di quanto il loro corpo sia un’opera d’arte!” Ascoltando quelle parole ho sentito un brivido: ero lusingata: “Ero davvero lì per essere una “musa” oppure una femme fatale come aveva detto Giovanni in quel bistrot dopo il ristorante?

Maurizio mi ha fatto accomodare sul divano e poi offrendomi un calice di vino rosso, si è seduto accanto a me. Le sue parole erano fluide, i complimenti sempre più audaci. “Hai un viso che racconta una storia…” Forse era troppo sì, ma la curiosità di essere apprezzata mi teneva ancorata a quegli istanti anche quando, subito dopo, lui mi ha accarezzato la gamba. I dubbi c’erano, quel tocco era troppo intimo, il suo sguardo troppo insistente: “Voglio fotografarti…” Mi ha proposto alzandosi dal divano. “Dai solo qualche scatto, vestita, per catturare la tua essenza.”
Ho accettato.

Lui mi ha guidata verso un angolo dello studio con un fondale blu e una luce di un riflettore che mi avvolgeva. “Rilassati cara, sei perfetta…” Mi diceva, scattando. Non lo nego, in quel momento mi sentivo viva, potente, come se ogni click della macchina fotografica confermasse la mia identità. Poi Maurizio mi ha chiesto di togliere la camicetta e la gonna, per un look più audace. Ho esitato, ma l’adrenalina e il desiderio di essere riconosciuta per quella che ero mi ha spinto a cedere. Sono rimasta in calze, reggicalze, mutandine e il reggiseno bianco che spiccava sulla pelle. Gli scatti continuavano, ed io guardandomi attraverso l’obiettivo, provavo un misto di eccitazione ed esaltazione. Ero Ludovica, bellissima ed apprezzata!

Dopo le foto, mi ha abbracciata sussurrandomi: “Sei incredibile…” Poi ha avvicinato la sua bocca ed io travolta dall’intensità del momento, ho ricambiato. I dubbi però tornavano a galla, era tutto troppo veloce, troppo diretto! Di nuovo sul divano mi ha detto: “Tesoro, non temere, credi che non mi sia accorto? Io celebro la bellezza ovunque provenga, ma ho anche un difetto, adoro farla mia e consumarla fino allo sfinimento.” Parole dure e decise, ma ormai ero in gioco, anzi Ludovica era in gioco e mai avrebbe incrinato quella solennità.

Mi sentivo come su un tappeto rosso con un vortice di infinite gratificazioni. Guardavo quelle modelle e guardavo i suoi occhi, forse le aveva amate tutte ed io ero una di loro.
Quei baci sono diventati una serie di brividi sulla mia pelle, il mio corpo un’autostrada per le sue mani bollenti. Mi ha tolto il reggiseno ed era in assoluto la mia prima volta che mi mostravo così, che qualcuno toccava, baciava, apprezzava con passione il mio simbolo di femminilità. Mi sentivo diversa, non era più come la prima volta con Giovanni. Ora non dovevo dimostrare nulla e mi solo lasciata guidare dal calore del momento.

All’inizio è stato inebriante, Maurizio mi chiamava musa e mi invitava a sublimare il suo sesso eretto. Beh sì non lo nego quanto mi facesse piacere vederlo maschio ed eccitato per me, ma poi con l’avanzare del piacere le sue parole sono diventate ciniche e volgari, mi chiamava puttana, mi chiedeva quanto lo avessi desiderato quando ancora eravamo ancora seduti al bar: “Mi sono accorto sai. Non vedevi l’ora di prenderlo in bocca! Vero?” Io annuivo, sapevo che era al culmine dell’eccitazione e tra l’altro non si stava dedicato per nulla a me, ma ero solo io, con la mia bocca, a dargli piacere.
In quei momenti pensavo quanto non avesse capito nulla di me, non era l’uomo, non era assolutamente il suo sesso che desideravo. La mia eccitazione era esattamente l’opposto perché non ero io a desiderare lui, ma mi eccitavo vedendo quanto un uomo mi desiderasse.

Quando tutto è finito, mi sono guardata intorno. Le foto alle pareti sembravano fissarmi e improvvisamente mi sono sentita nuda in un modo che non aveva previsto. Mi sono chiesta come avessero reagito sentendosi chiamare puttane. Maurizio, già distante, parlava di altri progetti, di altre modelle che chiamava “superfighe da paura”.
È stato allora che ho capito: non ero stata una musa, ma un semplice oggetto, uno sfogo, un trofeo momentaneo e soprattutto una bocca il cui contorno era irrilevante. La gioia di essere accettata si è sgretolata e ho avvertito un senso di vuoto.

Eppure, in quel dolore, ho trovato una nuova determinazione: non ero diventata donna per sentirmi dire puttana e soprattutto non era il sesso del maschio che definiva la mia femminilità. Quel sesso era solo un tramite e non il mio desiderio assoluto o la finalità del mio essere, perché il centro della mia essenza era mostrarmi femmina come accavallare le gambe, sentire la grazia di un gesto, affrontare le situazioni con una sensibilità diversa e percepire il mondo da quel lato che ancora non conoscevo bene. Maurizio era un po’ Ludovico da cui mi ero allontanata lottando contro il mondo intero.

Mi sono alzata, rivestita e, con un sorriso amaro ho lasciato quel loft, pronta a reclamare la mia identità con più forza di prima. Ovviamente lui non mi ha trattenuta avendo a pieno soddisfatto la sua indole di cacciatore.

Per strada guardandomi attraverso il riflesso delle vetrine mi sono resa conto di quanto fossi felice nonostante tutto. Anche se avevo commesso un errore, avevo affrontato il mondo da sola. E questo era un altro piccolo passo verso la mia Ludovica.


Ludovica
Ormai ero avviata nel mio percorso, il seno cresceva alla stessa velocità dei miei capelli ormai oltre le spalle e il passo successivo è stato quello di affrontare l’aspetto giuridico, tramite il supporto di un avvocato e la relazione di Clara che certificava il percorso di transizione intrapreso, ho presentato istanza al Tribunale di Milano per richiedere l’autorizzazione alla rettifica del genere.

Il processo richiedeva tra l’altro una perizia psichiatrica e colloqui con un consulente tecnico addetto a valutare la genuinità della mia situazione. Temendo di non essere “abbastanza donna” per convincere le autorità o che riconoscessero in me ancora delle perplessità ho affrontato le sedute con non poco nervosismo, ma sapendo però che la mia sincerità mi avrebbe aiutata a superare anche quell’esame.

Certo non potevo dire che l’effetto scatenante era stato un banale feticcio, ma comunque ho raccontato per filo e per segno i miei passaggi e i miei primi segnali che non erano affatto avvenuti durante l’adolescenza, ma molto tempo dopo. L’addetto, il dottor Matteo Rinaldi, stupito non poco per quella scoperta tardiva, mi ha invitato più volte a scandagliare il mio passato alla ricerca di quei segnali adolescenziali comuni a tutte le persone che intraprendevano quella transizione.
Diceva: “Ludovica, mi colpisce la tua storia, ma è insolito che i segnali emergano così tardi. Sei sicura che non ci fosse nulla nell’adolescenza? Magari qualcosa che hai rimosso?”
Lui era un uomo anziano, con occhi gentili e un modo di fare pacato che metteva a suo agio, pur non nascondendo la sua professionalità e il timore che la mia onestà potesse compromettere l’esito.

Mi ascoltava con attenzione, ed io col cuore in gola, decisi di adattare la verità, inventando piccoli episodi di disagio giovanile che non avevo mai vissuto. “Beh, forse… ricordo che evitavo gli specchi, o che non mi sentivo a mio agio con i vestiti da ragazzo.” Lui annuiva annotando qualcosa sopra dei moduli ed io mi sentivo in colpa, ma sollevata.
Poi un giorno davanti alla macchinetta del caffè mi ha detto: “Sei intenzionata ad operarti?” Era la prima volta che qualcuno mi facesse quel tipo di domanda. Neanche con Giovanni avevamo mai affrontato l’argomento, anche se in cuor mio ci avevo pensato, ma mi spaventava tremendamente quell’ipotesi. A tutti gli effetti era un taglio netto sia fisico che mentale al mio passato per cui mi ero riservata di pensarci ancora, anche perché la legge non mi impediva di andare avanti ed essere donna anche senza quell’operazione.

Dopo diversi colloqui, Matteo mi ha spiazzata. “Ludovica, ti andrebbe di fare due passi insieme? È una giornata troppo bella per stare chiusi in ufficio, e credo che un ambiente più rilassato possa aiutarci a parlare.” Ovviamente ho accettato, anche incuriosita che quell’uomo che, così attento al suo mestiere, potesse interessarsi a me oltre lo specifico del suo lavoro. Abbiamo camminato lungo i viali di Parco Sempione e tra una pausa e l’altra rompendo il silenzio Matteo mi ha detto: “Sai, mi ha colpito la tua determinazione. E, se mi permetto, anche la tua bellezza. Non fraintendermi, è solo un’osservazione. Nel mio lavoro vedo tante persone come te, che lottano con una forza incredibile per essere se stesse.” Sono arrossita, ma sinceramente lusingata. “Davvero? Che tipo di storie vedi?”

Matteo ha sorriso, rallentando il passo. “Tante, tutte diverse. Ricordo una ragazza, Sara, che veniva da un paesino del Sud. La sua famiglia l’aveva ripudiata quando aveva iniziato a presentarsi come donna. Eppure, ogni volta che veniva ai colloqui, aveva un sorriso che illuminava la stanza. Mi raccontava di come, nonostante tutto, avesse trovato una comunità di amici che la sosteneva. Oppure c’era Carla, che ora è Carlo. Lui… lei, aveva paura di non essere ‘abbastanza’ per il tribunale, proprio come te. Durante i colloqui piangeva spesso, ma poi mi ha confessato che ogni lacrima era un passo verso la libertà. Persone come voi mi insegnano cosa significa combattere.”

Ascoltavo commossa. Quelle storie mi davano forza, ma le parole di Matteo sulla mia bellezza mi lasciavano incerta. Era un complimento sincero o qualcosa di più? La passeggiata si era conclusa con un caffè al bar del parco ed è stato a quel punto che Matteo mi ha proposto di rivederci per una cena, “solo per chiacchierare, senza l’ombra del tribunale” ha tenuto a precisare fissandomi negli occhi. Dopo qualche esitazione ho accettato. Sentivo che Matteo mi vedeva, non come un caso da valutare, ma davvero come una persona.

Il sabato successivo ci siamo visti in un piccolo ristorante in Brera, con luci soffuse e un’atmosfera intima. Abbiamo parlato di tutto: dei suoi viaggi in giro per il mondo, delle mie paure di vivere pienamente la mia vita. Lui ascoltava senza commentare, ma il suo sguardo era sempre più caldo. Ormai eravamo in confidenza e quando mi ha chiesto: “Dimmi la verità, davvero sentivi quelle pulsazioni in età adolescenziale?”
Confusa ho cercato di prendere tempo.
“Sai, non spaventarti, siamo fuori dall’ufficio, dimmi la verità, com’è scattata la molla?”
Ci ho pensato, E poi ho detto: “Matteo, forse mi prenderai per una donna superficiale, ma quella che tu chiami molla è scattata per un semplice reggicalze.”
Lui mi ha guardato sorpreso.
“Aspetta non giudicarmi ti prego. Quando ero Ludovico io cercavo di trovare nell’altro sesso una femminilità che era solo nella mia mente e deluso e insoddisfatto ho iniziato a pensare che forse solo io avrei potuto esprimerla intensamente, ricercando negli altri la stessa attrazione che io nutrivo nei confronti di tutto ciò che caratterizzava la donna come femmina.”

Lui mi ha guardata come se mi mangiasse con gli occhi: “Non sei superficiale, anzi…” E poi sfiorandomi la mano: “Ludovica, hai una luce speciale.” Mi sono sentita travolta. Era la prima volta che un uomo, al di fuori di Giovanni, mi corteggiava così genuinamente.
Poi ordinando il dessert mi ha chiesto a bruciapelo: “E ora lo porti?”
Sono arrossita, ma la mia prima preoccupazione è stata quella di non deluderlo.
“È la mia seconda pelle, da quando ho iniziato questo percorso credo di non essere mai uscita senza. Anche d’estate senza calze… è il mio simbolo, ciò che mi identifica ed è un piacere sentire le stringhe dondolare sotto la gonna…”
“Ludovica sei incredibilmente donna, ora capisco la tua delusione nell’altra vita, donne come te sono rare ed è difficilissimo incontrarle!”

A quel punto gli ho chiesto senza più imbarazzo, ma anche per provocarlo: “Dimmi la verità, quante delle tue esaminande le hai portate in questo ristorante?”
Lui ha sorriso. “Ci credi solo una?”
“Immagino quanto fosse speciale per te…”
“Eh si lo era. Una ragazza di Milano. Un colpo di fulmine, ci siamo innamorati sin dal primo incontro, ma dopo tre mesi ci siamo accorti che tra noi non poteva funzionare, lei mi vedeva come guida per il suo percorso e non come compagno!”
Ho sentito il cuore battere disordinatamente. Era la stessa e identica storia che avevo vissuto ed ancora oggi vivevo con Giovanni! Quindi ho pensato stringendogli la mano: “Anche tra me e Giovanni sarebbe finito tutto?” Beh sì certo, ovviamente non c’era risposta, ma tra me e Matteo era diverso!

Usciti dal locale, lui ha voluto accompagnarmi a casa, e sotto il mio portone mentre ci stavamo salutando ho sentito che quella sera non sarebbe potuta finire così. Allora l’ho invitato a salire: “Vuoi un caffè? O… un bicchiere di vino?” Lui mi ha guardata: “Ludovica, se salgo non ti prometto niente…” Ed io abbassando lo sguardo: “Non devi promettere, ma in caso vivere…”

Nel salotto, con i calici di vino in mano ci siamo baciati. Mi sono lasciata andare guidata da un desiderio che non avevo mai provato così intensamente, nemmeno con Giovanni.
Seduti sul divano gli ho chiesto: “Davvero vuoi vedere come sono vestita sotto la gonna?” La mia era una domanda che non prevedeva una risposta, tanto che con la mano ho iniziato a tirare su lentamente la gonna. Lui mi guardava, i suoi occhi erano curiosi come quello di un bambino al circo, ma sotto non c’era lo zucchero filato ma solo la femmina con la F maiuscola.
“Sei unica Ludovica.” Matteo lo ripeteva senza dire altro ed io ero eccitata, saziata, estasiata vedendo la mia femminilità attraverso i suoi occhi! Ecco quello era il punto. In quel momento avrei voluto che lui fosse Ludovico che finalmente aveva trovato la donna dei suoi sogni.
Ho scoperto la gonna fino ai gancetti e lui mi ha fermato la mano: “Ti prego, rallenta, voglio godermi ogni istante come ogni centimetro della tua sensualità!”

Ecco è stato in quel momento che Matteo ha letto dentro di me quello che io non ero mai riuscita a capire fino in fondo: “Ludovica, tu sei innamorata di te stessa!” Era vero! Dentro di me convivevano le due facce della stessa medaglia: desiderare la stessa bellezza che donavo!

Abbiamo fatto l’amore su quel divano e per me è stata un’esperienza nuova, diversa da Giovanni, più appagante. Lui mi accarezzava con le sue mani esperte e a ogni tocco sentivo il mio corpo sciogliersi, diluirsi per poi prendere altre forme, altre donne. Matteo era gentile, attento, e ogni suo tocco sembrava celebrare e venerare il mio corpo, come fossi una regina o addirittura una Madonna. Nei suoi baci mi sentivo completa, come se ogni parte di me ed anche il mio sesso, fosse in armonia con la mia mente, la mia identità che stavo costruendo.

Ma come non accadeva con Giovanni, mi sentivo protagonista e non più una comparsa che era capitata sul set per caso. Consapevole lo appagavo soddisfacendo le sue richieste tacite e mi sono sentita essenziale e necessaria per lui e per quell’amore assoluto che avrei donato al mondo.

Certo sì lui era stato sincero con me, ma la sua posizione di consulente creava un’ombra e mi chiedevo quanto in quei momenti mi stesse valutando o quei baci fossero puri e spontanei.
Quel pensiero però non cancellava la gioia, ma mi ricordava che il mio percorso era ancora lungo e fatto anche di dubbi.
Prima dell’oblio gli ho chiesto se quella notte desiderasse dormire con me. Lui mi ha guardata e mi ha risposto grazie.

La mattina dopo mi sono alzata, mi sono guardata allo specchio mentre Matteo ancora dormiva. Ho sorriso: sì, ero completa, ma il mio valore non dipendeva dalla mia prima notte passata con uomo, anche se avrei fatto salti di gioia se appena sveglio mi avesse chiesto di passare un’altra notte insieme.

Il prossimo mio passo sarebbe stato quello di dire tutto a Giovanni perché quella non era stata una scappatella, ma qualcosa di estremamente importante e non solo per il mio percorso, ma per il mio cuore. Sì ok, Matteo non mi aveva detto: “Ti amo!” Ma io sentivo che con lui sarei stata totalmente me stessa.

Ci siamo rivisti il giorno dopo e tutti i giorni di quella settimana finché il Tribunale ha emesso la sentenza che autorizzava il mio cambio di nome e genere. Matteo dandomi i documenti mi ha detto: “Ora sei in grado di camminare da sola.” Ed io con la voce tremante ho risposto: “Ma io voglio camminare insieme a te!” Lo consideravo a tutti gli effetti il mio uomo, anche se nel mio cuore grande c’era spazio anche per Giovanni.
Ero una donna capiente quanto una Chiesa accogliente e in quel momento sarebbe stato un peccato legare la mia voglia di amare con una decisione drastica.

La mia famiglia intanto aveva iniziato ad accettarmi. Mia sorella era stata la prima a chiamarmi Ludovica, ma soprattutto ho sentito il vero effetto del cambiamento quando mio nipote di sette anni, durante il pranzo di Natale, si è avvicinato a me con una palla in mano e mi ha chiesto: “Giochi con me, zia?”

Anche il quartiere, con il tempo, si è abituato: i negozianti, che all’inizio mi guardavano con sospetto, hanno cominciato a salutarmi con un “Buongiorno, signora.” Tuttavia il percorso di Ludovico verso Ludovica è stato lungo, tra momenti di trionfo e battute d’arresto. Ogni passo – il primo reggicalze, il primo trucco, l’amore con Giovanni, quel con Matteo, la prima dose di ormoni, il nuovo nome sui documenti, la prima uscita senza paura è stato un mattone nella costruzione della mia vita autentica. Ludovica però non ha mai dimenticato Ludovico: lui era parte di me, una storia che mi aveva portata fino a lì.

Oggi, cammino per le strade di Milano con una sicurezza che non avrei mai immaginato. Non sono più solo la donna che ama e si fa amare o la restauratrice che incanta con il suo talento. Sono Ludovica, una donna che ha lottato per essere sé stessa, che ha trasformato la paura in coraggio e il dubbio in certezza. E ogni volta che passo davanti a uno specchio o sento tirare le stringhe del mio reggicalze, sorrido, perché so che la donna che vedo e che sento non è un sogno, ma la mia verità.





Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
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