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DALLA PARTE SBAGLIATA 5
Il reggicalze, la mia ossessione

Il fotografo delle
modelle La determinazione era cresciuta con
il tempo, alimentata da quei piccoli grandi successi,
dalle lunghe conversazioni con Giovanni. Ed è stato lui,
mesi dopo, una sera a casa mia seduti comodamente sul
divano a dirmi: “Ludovica, finché ti sentirai protetta
da me, sarà difficile per te fare passi in avanti. Devi
aprirti al mondo, senza che io ti dia la patente di
essere donna.” Come al solito Giovanni aveva intuito
i miei pensieri più profondi aggiungendo: “Io rimarrò
sempre al tuo fianco, ma sappi che la mia gelosia non
deve essere un ostacolo al tuo percorso.” Aveva
colpito al centro del bersaglio, perché nonostante
l’amore che provavo per lui, ineluttabilmente lo vedevo
come la mia guida piuttosto che il mio compagno. Allora
l’ho abbracciato, baciato, stretto: “Ti amo!”
Già, era arrivato il momento di proseguire da sola,
certo nulla di eterno, nulla di definito per sempre, ma
affrontare esperienze in cui non avrei avuto
nessun’ancora di salvataggio. Ho ripensato a quando mio
zio, aveva tolto le mani dal sellino della mia
bicicletta ed io avevo proseguito da sola senza il suo
aiuto. Ecco, quella era la giusta similitudine.
Comunque, nonostante i progressi interiori, il coraggio
di vivere apertamente come Ludovica rimaneva una sfida.
Dovevo pretendere di più da me stessa, ma solo il tempo
mi avrebbe dato quella forza di uscire alla luce del
giorno. Sono stati piccoli passi: un caffè in un bar
fuori dal quartiere, una passeggiata in centro, una
serata con Giovanni in compagnia dei suoi amici. Ogni
uscita era un atto di resistenza, un modo per reclamare
il mio posto. Gli sguardi curiosi, i sussurri, a volte
le offese, non sono sparite, ma avevo imparato a
rispondere con un sorriso o un’occhiata fiera, come a
dire: “Esisto, e non mi nascondo.”
Ancora incerta
ho deciso di sfidare me stessa: un’uscita da sola, senza
Giovanni, senza nessuno a farmi da scudo. Ed è stato un
pomeriggio di primavera, il sole tiepido accarezzava i
tavolini all’aperto del bar nei giardini del Castello
Sforzesco. Indossavo una gonna leggera a fiori, il mio
primo reggiseno bianco con ricami floreali sotto una
camicetta sbottonata appena, e un trucco deciso ad ali
di farfalla. Poggiando la mia borsetta sulla sedia vuota
ed accavallando le gambe impreziosite da una trama
velatissima di calza neutra ho ordinato un succo di
ananas. Sentivo il mio fiato grosso riempirmi il petto,
le gambe tremavano, non tanto per il freddo, quanto per
il peso degli sguardi che sentivo appiccicati come una
colla. Ogni passante sembrava un giudice, ogni rumore un
possibile commento.
Mentre mescolavo il caffè, un
uomo si è avvicinato. Alto, più o meno cinquant’anni,
capelli brizzolati e sorriso sicuro. “Posso sedermi?” Mi
ha chiesto senza aspettare una mia risposta. Colta alla
sprovvista ho annuito, sentendo dentro me una tempesta
di disagio e gratitudine. “Beh sì era previsto no?” Mi
sono detta, poggiando il telefono sul tavolo e pronta a
conversare. Lui si è presentato come Maurizio. Ho subito
notato quanto fosse esperto in quegli approcci, un tipo
loquace, con un fare disinvolto. “Sai, non ho potuto
fare a meno di notarti!” Mi ha guardata negli occhi così
intensamente che non sono riuscita ad abbassare i miei.
“Sei bellissima, hai un’eleganza naturale.”
Forse
era una frase che diceva a tutte, ma in quel tutto,
finalmente c’ero anche io. Mi sono ripetuta con un certo
compiacimento: “Bellissima. Elegante.” Per la prima
volta, qualcuno che non era Giovanni mi vedeva come
donna, senza esitazione. Ho iniziato a giocare con i
miei capelli e l’euforia è montata dentro di me tanto
che non ho fatto caso al tono insinuante nella sua voce
e al modo in cui i suoi occhi scivolavano sul mio corpo.
Ero troppo presa dalla gioia di essere riconosciuta,
accettata. “Grazie…” Ho balbettato sorridendo con
l’adrenalina che saliva tra le mie gambe.
Maurizio ha continuato a parlare raccontandomi di essere
un fotografo di ritratti, di amare le donne speciali
come me. Non sapevo a cosa si riferisse precisamente, ma
ancora inesperta nel leggere le intenzioni altrui, mi
sentivo lusingata, quasi ubriaca di quella attenzione,
ponendo l’accento che essendo un fotografo sapesse
cogliere ed apprezzare la bellezza e la femminilità.
Quando mi ha proposto di continuare la serata altrove,
magari a casa sua per “un bicchiere di vino e una
chiacchierata più intima” ripensando alle parole di
Giovanni ho accettato senza pensarci troppo. Beh si
ripensandoci mi sono sentita una preda, ma non era
affatto male quella sensazione e in quel momento non
vedevo alcun pericolo, solo l’opportunità di sentirmi
ancora più Ludovica, ancora più reale e soprattutto
distante dal mio scudo chiamato Giovanni.
La casa
di Maurizio era un loft in un palazzo antico del centro
di Milano, con grandi finestre che lasciavano entrare la
luce dorata del tramonto. L’interno era un mix di
modernità e caos creativo: divani in pelle, scaffali
pieni di libri d’arte, e pareti coperte di fotografie
incorniciate. Molte ritraevano modelle nude, in pose
artistiche, i corpi illuminati in modo provocatorio e
drammatico. Alcune erano sensuali, altre vulnerabili, ma
tutte sembravano celebrare la bellezza femminile. “Sono
le mie muse… Donne che hanno avuto il coraggio di
mostrarsi. Consapevoli di quanto il loro corpo sia
un’opera d’arte!” Ascoltando quelle parole ho sentito un
brivido: ero lusingata: “Ero davvero lì per essere una
“musa” oppure una femme fatale come aveva detto Giovanni
in quel bistrot dopo il ristorante?
Maurizio mi
ha fatto accomodare sul divano e poi offrendomi un
calice di vino rosso, si è seduto accanto a me. Le sue
parole erano fluide, i complimenti sempre più audaci.
“Hai un viso che racconta una storia…” Forse era troppo
sì, ma la curiosità di essere apprezzata mi teneva
ancorata a quegli istanti anche quando, subito dopo, lui
mi ha accarezzato la gamba. I dubbi c’erano, quel tocco
era troppo intimo, il suo sguardo troppo insistente:
“Voglio fotografarti…” Mi ha proposto alzandosi dal
divano. “Dai solo qualche scatto, vestita, per catturare
la tua essenza.” Ho accettato.
Lui mi ha
guidata verso un angolo dello studio con un fondale blu
e una luce di un riflettore che mi avvolgeva. “Rilassati
cara, sei perfetta…” Mi diceva, scattando. Non lo nego,
in quel momento mi sentivo viva, potente, come se ogni
click della macchina fotografica confermasse la mia
identità. Poi Maurizio mi ha chiesto di togliere la
camicetta e la gonna, per un look più audace. Ho
esitato, ma l’adrenalina e il desiderio di essere
riconosciuta per quella che ero mi ha spinto a cedere.
Sono rimasta in calze, reggicalze, mutandine e il
reggiseno bianco che spiccava sulla pelle. Gli scatti
continuavano, ed io guardandomi attraverso l’obiettivo,
provavo un misto di eccitazione ed esaltazione. Ero
Ludovica, bellissima ed apprezzata!
Dopo le
foto, mi ha abbracciata sussurrandomi: “Sei
incredibile…” Poi ha avvicinato la sua bocca ed io
travolta dall’intensità del momento, ho ricambiato. I
dubbi però tornavano a galla, era tutto troppo veloce,
troppo diretto! Di nuovo sul divano mi ha detto:
“Tesoro, non temere, credi che non mi sia accorto? Io
celebro la bellezza ovunque provenga, ma ho anche un
difetto, adoro farla mia e consumarla fino allo
sfinimento.” Parole dure e decise, ma ormai ero in
gioco, anzi Ludovica era in gioco e mai avrebbe
incrinato quella solennità.
Mi sentivo come su
un tappeto rosso con un vortice di infinite
gratificazioni. Guardavo quelle modelle e guardavo i
suoi occhi, forse le aveva amate tutte ed io ero una di
loro. Quei baci sono diventati una serie di brividi
sulla mia pelle, il mio corpo un’autostrada per le sue
mani bollenti. Mi ha tolto il reggiseno ed era in
assoluto la mia prima volta che mi mostravo così, che
qualcuno toccava, baciava, apprezzava con passione il
mio simbolo di femminilità. Mi sentivo diversa, non era
più come la prima volta con Giovanni. Ora non dovevo
dimostrare nulla e mi solo lasciata guidare dal calore
del momento.
All’inizio è stato inebriante,
Maurizio mi chiamava musa e mi invitava a sublimare il
suo sesso eretto. Beh sì non lo nego quanto mi facesse
piacere vederlo maschio ed eccitato per me, ma poi con
l’avanzare del piacere le sue parole sono diventate
ciniche e volgari, mi chiamava puttana, mi chiedeva
quanto lo avessi desiderato quando ancora eravamo ancora
seduti al bar: “Mi sono accorto sai. Non vedevi l’ora di
prenderlo in bocca! Vero?” Io annuivo, sapevo che era al
culmine dell’eccitazione e tra l’altro non si stava
dedicato per nulla a me, ma ero solo io, con la mia
bocca, a dargli piacere. In quei momenti pensavo
quanto non avesse capito nulla di me, non era l’uomo,
non era assolutamente il suo sesso che desideravo. La
mia eccitazione era esattamente l’opposto perché non ero
io a desiderare lui, ma mi eccitavo vedendo quanto un
uomo mi desiderasse.
Quando tutto è finito, mi
sono guardata intorno. Le foto alle pareti sembravano
fissarmi e improvvisamente mi sono sentita nuda in un
modo che non aveva previsto. Mi sono chiesta come
avessero reagito sentendosi chiamare puttane. Maurizio,
già distante, parlava di altri progetti, di altre
modelle che chiamava “superfighe da paura”. È stato
allora che ho capito: non ero stata una musa, ma un
semplice oggetto, uno sfogo, un trofeo momentaneo e
soprattutto una bocca il cui contorno era irrilevante.
La gioia di essere accettata si è sgretolata e ho
avvertito un senso di vuoto.
Eppure, in quel
dolore, ho trovato una nuova determinazione: non ero
diventata donna per sentirmi dire puttana e soprattutto
non era il sesso del maschio che definiva la mia
femminilità. Quel sesso era solo un tramite e non il mio
desiderio assoluto o la finalità del mio essere, perché
il centro della mia essenza era mostrarmi femmina come
accavallare le gambe, sentire la grazia di un gesto,
affrontare le situazioni con una sensibilità diversa e
percepire il mondo da quel lato che ancora non conoscevo
bene. Maurizio era un po’ Ludovico da cui mi ero
allontanata lottando contro il mondo intero.
Mi
sono alzata, rivestita e, con un sorriso amaro ho
lasciato quel loft, pronta a reclamare la mia identità
con più forza di prima. Ovviamente lui non mi ha
trattenuta avendo a pieno soddisfatto la sua indole di
cacciatore.
Per strada guardandomi attraverso il
riflesso delle vetrine mi sono resa conto di quanto
fossi felice nonostante tutto. Anche se avevo commesso
un errore, avevo affrontato il mondo da sola. E questo
era un altro piccolo passo verso la mia Ludovica.
Ludovica Ormai ero avviata
nel mio percorso, il seno cresceva alla stessa velocità
dei miei capelli ormai oltre le spalle e il passo
successivo è stato quello di affrontare l’aspetto
giuridico, tramite il supporto di un avvocato e la
relazione di Clara che certificava il percorso di
transizione intrapreso, ho presentato istanza al
Tribunale di Milano per richiedere l’autorizzazione alla
rettifica del genere.
Il processo richiedeva tra
l’altro una perizia psichiatrica e colloqui con un
consulente tecnico addetto a valutare la genuinità della
mia situazione. Temendo di non essere “abbastanza donna”
per convincere le autorità o che riconoscessero in me
ancora delle perplessità ho affrontato le sedute con non
poco nervosismo, ma sapendo però che la mia sincerità mi
avrebbe aiutata a superare anche quell’esame.
Certo non potevo dire che l’effetto scatenante era stato
un banale feticcio, ma comunque ho raccontato per filo e
per segno i miei passaggi e i miei primi segnali che non
erano affatto avvenuti durante l’adolescenza, ma molto
tempo dopo. L’addetto, il dottor Matteo Rinaldi, stupito
non poco per quella scoperta tardiva, mi ha invitato più
volte a scandagliare il mio passato alla ricerca di quei
segnali adolescenziali comuni a tutte le persone che
intraprendevano quella transizione. Diceva:
“Ludovica, mi colpisce la tua storia, ma è insolito che
i segnali emergano così tardi. Sei sicura che non ci
fosse nulla nell’adolescenza? Magari qualcosa che hai
rimosso?” Lui era un uomo anziano, con occhi gentili
e un modo di fare pacato che metteva a suo agio, pur non
nascondendo la sua professionalità e il timore che la
mia onestà potesse compromettere l’esito.
Mi
ascoltava con attenzione, ed io col cuore in gola,
decisi di adattare la verità, inventando piccoli episodi
di disagio giovanile che non avevo mai vissuto. “Beh,
forse… ricordo che evitavo gli specchi, o che non mi
sentivo a mio agio con i vestiti da ragazzo.” Lui
annuiva annotando qualcosa sopra dei moduli ed io mi
sentivo in colpa, ma sollevata. Poi un giorno davanti
alla macchinetta del caffè mi ha detto: “Sei
intenzionata ad operarti?” Era la prima volta che
qualcuno mi facesse quel tipo di domanda. Neanche con
Giovanni avevamo mai affrontato l’argomento, anche se in
cuor mio ci avevo pensato, ma mi spaventava
tremendamente quell’ipotesi. A tutti gli effetti era un
taglio netto sia fisico che mentale al mio passato per
cui mi ero riservata di pensarci ancora, anche perché la
legge non mi impediva di andare avanti ed essere donna
anche senza quell’operazione.
Dopo diversi
colloqui, Matteo mi ha spiazzata. “Ludovica, ti andrebbe
di fare due passi insieme? È una giornata troppo bella
per stare chiusi in ufficio, e credo che un ambiente più
rilassato possa aiutarci a parlare.” Ovviamente ho
accettato, anche incuriosita che quell’uomo che, così
attento al suo mestiere, potesse interessarsi a me oltre
lo specifico del suo lavoro. Abbiamo camminato lungo i
viali di Parco Sempione e tra una pausa e l’altra
rompendo il silenzio Matteo mi ha detto: “Sai, mi ha
colpito la tua determinazione. E, se mi permetto, anche
la tua bellezza. Non fraintendermi, è solo
un’osservazione. Nel mio lavoro vedo tante persone come
te, che lottano con una forza incredibile per essere se
stesse.” Sono arrossita, ma sinceramente lusingata.
“Davvero? Che tipo di storie vedi?”
Matteo ha
sorriso, rallentando il passo. “Tante, tutte diverse.
Ricordo una ragazza, Sara, che veniva da un paesino del
Sud. La sua famiglia l’aveva ripudiata quando aveva
iniziato a presentarsi come donna. Eppure, ogni volta
che veniva ai colloqui, aveva un sorriso che illuminava
la stanza. Mi raccontava di come, nonostante tutto,
avesse trovato una comunità di amici che la sosteneva.
Oppure c’era Carla, che ora è Carlo. Lui… lei, aveva
paura di non essere ‘abbastanza’ per il tribunale,
proprio come te. Durante i colloqui piangeva spesso, ma
poi mi ha confessato che ogni lacrima era un passo verso
la libertà. Persone come voi mi insegnano cosa significa
combattere.”
Ascoltavo commossa. Quelle storie mi
davano forza, ma le parole di Matteo sulla mia bellezza
mi lasciavano incerta. Era un complimento sincero o
qualcosa di più? La passeggiata si era conclusa con un
caffè al bar del parco ed è stato a quel punto che
Matteo mi ha proposto di rivederci per una cena, “solo
per chiacchierare, senza l’ombra del tribunale” ha
tenuto a precisare fissandomi negli occhi. Dopo qualche
esitazione ho accettato. Sentivo che Matteo mi vedeva,
non come un caso da valutare, ma davvero come una
persona.
Il sabato successivo ci siamo visti in
un piccolo ristorante in Brera, con luci soffuse e
un’atmosfera intima. Abbiamo parlato di tutto: dei suoi
viaggi in giro per il mondo, delle mie paure di vivere
pienamente la mia vita. Lui ascoltava senza commentare,
ma il suo sguardo era sempre più caldo. Ormai eravamo in
confidenza e quando mi ha chiesto: “Dimmi la verità,
davvero sentivi quelle pulsazioni in età
adolescenziale?” Confusa ho cercato di prendere
tempo. “Sai, non spaventarti, siamo fuori
dall’ufficio, dimmi la verità, com’è scattata la molla?”
Ci ho pensato, E poi ho detto: “Matteo, forse mi
prenderai per una donna superficiale, ma quella che tu
chiami molla è scattata per un semplice reggicalze.”
Lui mi ha guardato sorpreso. “Aspetta non giudicarmi
ti prego. Quando ero Ludovico io cercavo di trovare
nell’altro sesso una femminilità che era solo nella mia
mente e deluso e insoddisfatto ho iniziato a pensare che
forse solo io avrei potuto esprimerla intensamente,
ricercando negli altri la stessa attrazione che io
nutrivo nei confronti di tutto ciò che caratterizzava la
donna come femmina.”
Lui mi ha guardata come se
mi mangiasse con gli occhi: “Non sei superficiale,
anzi…” E poi sfiorandomi la mano: “Ludovica, hai una
luce speciale.” Mi sono sentita travolta. Era la prima
volta che un uomo, al di fuori di Giovanni, mi
corteggiava così genuinamente. Poi ordinando il
dessert mi ha chiesto a bruciapelo: “E ora lo porti?”
Sono arrossita, ma la mia prima preoccupazione è stata
quella di non deluderlo. “È la mia seconda pelle, da
quando ho iniziato questo percorso credo di non essere
mai uscita senza. Anche d’estate senza calze… è il mio
simbolo, ciò che mi identifica ed è un piacere sentire
le stringhe dondolare sotto la gonna…” “Ludovica sei
incredibilmente donna, ora capisco la tua delusione
nell’altra vita, donne come te sono rare ed è
difficilissimo incontrarle!”
A quel punto gli ho
chiesto senza più imbarazzo, ma anche per provocarlo:
“Dimmi la verità, quante delle tue esaminande le hai
portate in questo ristorante?” Lui ha sorriso. “Ci
credi solo una?” “Immagino quanto fosse speciale per
te…” “Eh si lo era. Una ragazza di Milano. Un colpo
di fulmine, ci siamo innamorati sin dal primo incontro,
ma dopo tre mesi ci siamo accorti che tra noi non poteva
funzionare, lei mi vedeva come guida per il suo percorso
e non come compagno!” Ho sentito il cuore battere
disordinatamente. Era la stessa e identica storia che
avevo vissuto ed ancora oggi vivevo con Giovanni! Quindi
ho pensato stringendogli la mano: “Anche tra me e
Giovanni sarebbe finito tutto?” Beh sì certo, ovviamente
non c’era risposta, ma tra me e Matteo era diverso!
Usciti dal locale, lui ha voluto accompagnarmi a
casa, e sotto il mio portone mentre ci stavamo salutando
ho sentito che quella sera non sarebbe potuta finire
così. Allora l’ho invitato a salire: “Vuoi un caffè? O…
un bicchiere di vino?” Lui mi ha guardata: “Ludovica, se
salgo non ti prometto niente…” Ed io abbassando lo
sguardo: “Non devi promettere, ma in caso vivere…”
Nel salotto, con i calici di vino in mano ci siamo
baciati. Mi sono lasciata andare guidata da un desiderio
che non avevo mai provato così intensamente, nemmeno con
Giovanni. Seduti sul divano gli ho chiesto: “Davvero
vuoi vedere come sono vestita sotto la gonna?” La mia
era una domanda che non prevedeva una risposta, tanto
che con la mano ho iniziato a tirare su lentamente la
gonna. Lui mi guardava, i suoi occhi erano curiosi come
quello di un bambino al circo, ma sotto non c’era lo
zucchero filato ma solo la femmina con la F maiuscola.
“Sei unica Ludovica.” Matteo lo ripeteva senza dire
altro ed io ero eccitata, saziata, estasiata vedendo la
mia femminilità attraverso i suoi occhi! Ecco quello era
il punto. In quel momento avrei voluto che lui fosse
Ludovico che finalmente aveva trovato la donna dei suoi
sogni. Ho scoperto la gonna fino ai gancetti e lui
mi ha fermato la mano: “Ti prego, rallenta, voglio
godermi ogni istante come ogni centimetro della tua
sensualità!”
Ecco è stato in quel momento che
Matteo ha letto dentro di me quello che io non ero mai
riuscita a capire fino in fondo: “Ludovica, tu sei
innamorata di te stessa!” Era vero! Dentro di me
convivevano le due facce della stessa medaglia:
desiderare la stessa bellezza che donavo!
Abbiamo
fatto l’amore su quel divano e per me è stata
un’esperienza nuova, diversa da Giovanni, più appagante.
Lui mi accarezzava con le sue mani esperte e a ogni
tocco sentivo il mio corpo sciogliersi, diluirsi per poi
prendere altre forme, altre donne. Matteo era gentile,
attento, e ogni suo tocco sembrava celebrare e venerare
il mio corpo, come fossi una regina o addirittura una
Madonna. Nei suoi baci mi sentivo completa, come se ogni
parte di me ed anche il mio sesso, fosse in armonia con
la mia mente, la mia identità che stavo costruendo.
Ma come non accadeva con Giovanni, mi sentivo
protagonista e non più una comparsa che era capitata sul
set per caso. Consapevole lo appagavo soddisfacendo le
sue richieste tacite e mi sono sentita essenziale e
necessaria per lui e per quell’amore assoluto che avrei
donato al mondo.
Certo sì lui era stato sincero
con me, ma la sua posizione di consulente creava
un’ombra e mi chiedevo quanto in quei momenti mi stesse
valutando o quei baci fossero puri e spontanei. Quel
pensiero però non cancellava la gioia, ma mi ricordava
che il mio percorso era ancora lungo e fatto anche di
dubbi. Prima dell’oblio gli ho chiesto se quella
notte desiderasse dormire con me. Lui mi ha guardata e
mi ha risposto grazie.
La mattina dopo mi sono
alzata, mi sono guardata allo specchio mentre Matteo
ancora dormiva. Ho sorriso: sì, ero completa, ma il mio
valore non dipendeva dalla mia prima notte passata con
uomo, anche se avrei fatto salti di gioia se appena
sveglio mi avesse chiesto di passare un’altra notte
insieme.
Il prossimo mio passo sarebbe stato
quello di dire tutto a Giovanni perché quella non era
stata una scappatella, ma qualcosa di estremamente
importante e non solo per il mio percorso, ma per il mio
cuore. Sì ok, Matteo non mi aveva detto: “Ti amo!” Ma io
sentivo che con lui sarei stata totalmente me stessa.
Ci siamo rivisti il giorno dopo e tutti i giorni di
quella settimana finché il Tribunale ha emesso la
sentenza che autorizzava il mio cambio di nome e genere.
Matteo dandomi i documenti mi ha detto: “Ora sei in
grado di camminare da sola.” Ed io con la voce tremante
ho risposto: “Ma io voglio camminare insieme a te!” Lo
consideravo a tutti gli effetti il mio uomo, anche se
nel mio cuore grande c’era spazio anche per Giovanni.
Ero una donna capiente quanto una Chiesa accogliente e
in quel momento sarebbe stato un peccato legare la mia
voglia di amare con una decisione drastica.
La
mia famiglia intanto aveva iniziato ad accettarmi. Mia
sorella era stata la prima a chiamarmi Ludovica, ma
soprattutto ho sentito il vero effetto del cambiamento
quando mio nipote di sette anni, durante il pranzo di
Natale, si è avvicinato a me con una palla in mano e mi
ha chiesto: “Giochi con me, zia?”
Anche il
quartiere, con il tempo, si è abituato: i negozianti,
che all’inizio mi guardavano con sospetto, hanno
cominciato a salutarmi con un “Buongiorno, signora.”
Tuttavia il percorso di Ludovico verso Ludovica è stato
lungo, tra momenti di trionfo e battute d’arresto. Ogni
passo – il primo reggicalze, il primo trucco, l’amore
con Giovanni, quel con Matteo, la prima dose di ormoni,
il nuovo nome sui documenti, la prima uscita senza paura
è stato un mattone nella costruzione della mia vita
autentica. Ludovica però non ha mai dimenticato
Ludovico: lui era parte di me, una storia che mi aveva
portata fino a lì.
Oggi, cammino per le strade di
Milano con una sicurezza che non avrei mai immaginato.
Non sono più solo la donna che ama e si fa amare o la
restauratrice che incanta con il suo talento. Sono
Ludovica, una donna che ha lottato per essere sé stessa,
che ha trasformato la paura in coraggio e il dubbio in
certezza. E ogni volta che passo davanti a uno specchio
o sento tirare le stringhe del mio reggicalze, sorrido,
perché so che la donna che vedo e che sento non è un
sogno, ma la mia verità.
|
Questo racconto è opera di pura
fantasia. Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e qualsiasi
somiglianza con fatti, scenari e persone è del
tutto casuale.
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