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DALLA PARTE SBAGLIATA 3
Il reggicalze, la mia ossessione



 
L’incontro
Poi una sera, mentre ero ancora nel mio laboratorio, mi ha mandato un messaggio, semplice, ma diretto: “Ciao Ludovica, ti ricordi di me? Sono Giovanni, ti va di uscire una sera? Vorrei rivederti.” Quelle parole, anche se attese, mi hanno mandato in tumulto, un misto di paura, eccitazione e desiderio di essere vista di nuovo come la donna che lui aveva apprezzato ed io sentivo di essere.

Il giorno dell’incontro, in dubbio e completamente nel pallone, avevo cambiato fino allo sfinimento il mio outfit per la serata. Il reggicalze, come sempre, era il fulcro: nero, di pizzo, con dettagli che accarezzavano la pelle e mi ricordavano chi fosse. Partendo da lì ho scelto il resto: una gonna a tubino aderente con uno spacco laterale, una camicetta di seta color crema e tacchi alti, ma non impossibili, per sentirmi elegante, ma a mio agio. La parrucca, lunga e castana incorniciava un trucco leggero ricco di sfumature e chiaro scuri, come del resto mi sentivo quella sera. Ogni gesto, dallo scegliere il tono di rossetto al sistemarmi i capelli, era un rituale per uccidere Ludovico ed evocare Ludovica dandole corpo e voce e regalarle una serata piena di magia.

Ci siamo incontrati in un piccolo ristorante nel cuore di Milano, un locale intimo chiamato “La Lanterna”, con luci soffuse, pareti di mattoni a vista e tavoli apparecchiati con tovaglie nere. Per arrivarci ho chiamato un taxi e quando ho visto che al volante c’era una donna, non so perché, ma mi sono sentita più sollevata. Il tragitto pur breve è stato pieno di emozioni, accavallavo le gambe, mi guardavo nello specchietto sistemandomi il trucco, insomma ripetevo come un cliché ogni gesto che mi facesse sentire una signora.

Giovanni era già lì, appoggiato al bancone con un bicchiere di vino in mano. Indossava una camicia azzurra, jeans scuri e la stessa giacca di pelle della prima sera. Quando mi ha vista, i suoi occhi si sono illuminati di un’ammirazione che mi ha fatto vacillare. Era uno sguardo che non giudicava, che non cercava difetti e neppure morboso, ma che allo stesso tempo sembrava voler memorizzare ogni mio dettaglio.

“Ludovica sei… wow. Sei incredibile.” Mi ha detto alzandosi in piedi. Poi con fare galante ha scostato la sedia per farmi sedere ed io in quel momento, mentre mi sedevo, ho sentito il reggicalze tirare le calze: “Ero donna!”

Durante la cena lui ha parlato di sé scusandosi di non averlo fatto dettagliatamente la prima sera. Aveva da poco compiuto 23 anni, studiava architettura, amava disegnare edifici che non avrebbe mai costruito, e passava le notti a vagare per Milano in cerca di ispirazione. “Quella notte che ti ho vista ho pensato che fossi come una di quelle opere d’arte che non riesci a smettere di guardare. Non so spiegartelo, ma c’era qualcosa in te… una forza, una grazia.” Mi ha detto non smettendo di guardami fissa negli occhi.

Anche io lo fissavo, ma non era la stessa cosa, lui mi penetrava ed io sentivo come se il mondo si fosse fermato. Ogni volta che Giovanni pronunciava il mio nome, era come se un pezzo di me si solidificasse, diventando più reale. Dentro quel ristorante mi sentivo non solo femmina, ma anche desiderata e viva. Ridevo alle sue battute, rispondevo con una sicurezza che non sapevo di avere, e ogni tanto, quando mi sistemavo la gonna o i capelli, notavo lo sguardo di Giovanni seguire i miei movimenti, come se stesse cercando di cogliere ogni dettaglio di me. Cose che da uomo, nel mio mondo maschile, non avevo mai visto in una donna!

Quando, per un istante, la gonna si è sollevata appena, lasciando intravedere il bordo più scuro della calza appeso al gancetto di metallo del reggicalze, ho notato gli occhi di Giovanni accendersi di un desiderio che non era solo fisico, ma sembrava riconoscere la profondità di quel simbolo. “Adoro come ti muovi. È come se ogni tuo gesto fosse pensato, ma nel contempo naturale. Non so, mi fai sentire… fortunato a essere qui.”

Poi dopo qualche calice di buon vino rosso vellutato si era ancora più aperto confidandomi il vero motivo per cui si sentiva attratto da me. Non era solo la mia bellezza, non era solo il modo con cui esprimevo la mia femminilità, ma qualcosa di più profondo: “Ho sempre avuto un debole per le persone che non hanno paura di essere sé stesse…” Poi ha aggiunto: “Mio fratello maggiore… lui era transgender. Ha lottato tanto per essere chi era, e io l’ho sempre ammirato. Quando ti ho vista, ho pensato che avevi quella stessa luce, quella forza di chi sa chi è, anche se magari il mondo non lo capisce ancora.” Quelle parole mi hanno colpito come un fulmine e li ho avuto la certezza che Giovanni non mi vedeva come un “uomo vestito da donna”, ma come una persona che incarnava la sua verità. Insomma non ero solo accettata, ma celebrata.

Il riferimento a suo fratello maggiore, transgender, mi ha fatto sentire improvvisamente più vicina a lui, come se un ponte invisibile si fosse creato tra noi. Mi sono appoggiata leggermente allo schienale della sedia, cercando di mantenere intatta la mia grazia, mentre il tintinnio dei bicchieri e il brusio del ristorante mi avvolgevano. Sentivo il reggicalze premere contro la coscia, lo percepivo come una sorta di armatura che mi proteggeva e mi definiva.
“Raccontami di lui, di tuo fratello, intendo.”

Giovanni ha posato il bicchiere di vino sul tavolo, il suo sguardo si è fatto più morbido, velato di malinconia: “Si chiamava Luca. Beh, prima era Lucia, per tutti, ma per me è sempre stato Luca, anche quando il mondo non lo capiva.” Una pausa per cercare le parole giuste: “Era… brillante. Aveva una risata che riempiva le stanze, e una determinazione che non ho mai visto in nessun altro. Ha iniziato il suo percorso quando io ero ancora un adolescente, e non è stato facile. La nostra famiglia… diciamo che non tutti hanno capito subito. Ma lui non si è mai arreso. Diceva sempre che vivere nella verità era l’unica cosa che contava, anche se faceva male.”

Ascoltavo in silenzio, il cuore mi batteva forte. Le sue parole risuonavano in me, toccando corde che avevo sempre tenuto nascoste. “E tu? Come l’hai vissuto?” Ho chiesto, con una curiosità che non riuscivo a trattenere.
“All’inizio non capivo. Ero un ragazzino, sai? Pensavo che fosse solo una fase, ma poi l’ho visto combattere. Contro i pregiudizi, contro gli sguardi, contro il mondo. E ho capito che non stava cercando di essere diverso per provocare, ma per essere se stesso. Mi ha insegnato che il coraggio non è fare cose straordinarie, ma essere chi sei, anche quando tutto ti rema contro.” Poi fissandomi ha aggiunto: “Quando ti ho vista quella notte, Ludovica, ho rivisto un po’ di quella luce. Non so come spiegartelo, ma… mi sembrava di vedere lui in te.”

Mi sentivo onorata, ma anche sopraffatta. Era come se Giovanni mi stesse vedendo non solo per chi ero in quel momento, ma per chi potevo diventare. Eppure, nonostante la sua sincerità, una parte di me non poteva fare a meno di dubitare. “E se non fossi così coraggiosa come pensi?” Ho sussurrato, abbassando lo sguardo sul tovagliolo che stavo tormentando tra le dita. “A volte… a volte mi sento solo un’imbrogliona. Come se tutto questo fosse solo un gioco, e prima o poi qualcuno mi smaschererà.”
Giovanni ha scosso la testa reclamando la mia attenzione: “Ludovica, guardami. Non c’è niente di falso in te. Quello che mostri, quello che sei… è reale. Non devi dimostrare niente a nessuno. E sai una cosa? Anche Luca aveva paura. Me lo confessava, a volte, di notte, quando non riusciva a dormire. Ma non ha mai smesso di essere se stesso. E tu sei qui, stasera, con me. Questo non è un gioco. È la tua verità.”

Le sue parole mi hanno scaldata, ma non riuscirono a dissipare del tutto i miei dubbi. Mentre parlavamo, avevo iniziato a notare gli sguardi degli altri avventori del ristorante. Non erano ostili, non proprio, ma erano curiosi, insistenti. Una coppia al tavolo accanto ci lanciava occhiate di tanto in tanto, sussurrando tra loro. Una donna più in là, con un bicchiere di vino in mano, mi studiava con un’espressione che non riuscivo a decifrare. Mi sembrava che ogni loro sguardo cercasse di scavarmi sotto il trucco, sotto la parrucca, per trovare l’uomo che pensavano di dover vedere. Mi sono irrigidita, sentendo il panico insinuarsi di nuovo. “Giovanni,” ho mormorato, abbassando la voce, “credo che ci stiano guardando.”
Lui seguendo il mio sguardo ha sorriso: “E allora? Lascia che guardino. Non stanno vedendo te, stanno vedendo i loro pregiudizi. Tu sei qui, sei bellissima, e stai vivendo. Non lasciare che i loro occhi ti facciano dubitare di questo.”
“Ma se… se capiscono che non sono…” Non riuscivo a finire la frase, la paura di dirlo ad alta voce mi bloccava.
“Che non sei cosa?” Insisteva, con una dolcezza che mi disarmava. “Una donna? Ludovica, tu sei più autentica di tante persone che si nascondono dietro maschere che non hanno il coraggio di togliere. E poi, guardami. Io sono qui con te. Ti vedo. E quello che vedo è una donna straordinaria.”

Le sue parole mi hanno dato un po’ di sollievo, ma il disagio non era svanito del tutto. Ogni volta che incrociavo uno sguardo curioso, sentivo il bisogno di controllare il mio aspetto: “I capelli erano a posto? Il trucco era ancora intatto? La voce, era abbastanza femminile? Il rossetto in ordine?” Giovanni non smetteva di parlarmi, di scherzare, di farmi sentire al centro del suo mondo. Quando mi ha chiesto di raccontargli di me, forse per distrarmi da quella insicurezza, ho esitato. Come potevo spiegargli chi ero, quando io stessa stavo ancora cercando di capirlo?
“Non so da dove cominciare…” Ho ammesso, giocherellando con il bordo della gonna. “Questa… questa è solo la seconda volta che esco così. Come Ludovica, intendo. È tutto nuovo, guardo il mondo da un’altra prospettiva, con un’altra sensibilità, ma a volte mi sembra di non sapere nemmeno chi sono.”
Lui dolcissimo mi ha preso la mano: “Sai, non si finisce mai di scoprire chi siamo. Magari oggi sei Ludovica che cena con uno sconosciuto in un ristorante. Domani chissà. Ma ogni passo conta.”
“E se faccio un passo sbagliato?”
“Allora lo correggi, non c’è un modo giusto o sbagliato, non c’è una regola scritta in quale libro. C’è solo il tuo modo. E da quello che vedo, è già meraviglioso.”

Mentre il cameriere posava i piattini del dessert sul tavolo ho notato un certo suo imbarazzo e mi sono chiesta cosa mai avesse visto. Ma Giovanni, come se percepisse il mio disagio, mi ha stretto la mano. “Sai credo che questo sia il miglior appuntamento della mia vita. E non lo dico per fare il galante.”
Ho riso, sorpresa dalla leggerezza che era riuscito a strapparmi. “Appuntamento? È così che lo chiami?”
“Beh, sì…” Ha risposto, fingendo un’espressione offesa. “Una cena, un po’ di vino, una conversazione che non voglio finisca mai… cos’altro è, se non un appuntamento?”
Sono arrossita e per un momento ho dimenticato gli sguardi degli altri, i miei dubbi, persino la paura. Ero lì, ero Ludovica, e per la prima volta mi sembrava abbastanza. Ma mentre il dolce si scioglieva sulla mia lingua, una domanda continuava a ronzarmi in testa: “Cosa sarebbe successo dopo? Potevo davvero continuare a essere Ludovica, anche fuori da quella bolla di magia che Giovanni aveva creato per me?”

Fuori dal ristorante abbiamo fatto due passi. Milano era viva quella sera, con le luci dei negozi e il brusio delle strade. Camminavano fianco a fianco, e io sentivo il calore della sua presenza, poi senza dirmi nulla mi ha preso la mano stringendola. Un gesto semplice, ma che mi ha fatto quasi perdere il respiro.

Camminavano lentamente godendoci il caldo di quella serata, ma ad ogni passo sentivo la città restringersi come se il mondo stesse diventando sempre più piccolo. Mi teneva per mano fino a quando davanti ad una fontana lui ha rallentato e voltandosi verso di me ha sussurrato: “Ludovica, posso…?” Incapace di parlare ho semplicemente annuito e lui dandomi tempo di ritirarmi, in caso avessi rifiutato, lentamente ha avvicinato le sue labbra alle mie. Quando si sono unite è stato come se una scintilla accendesse ogni fibra del mio essere. Un bacio dolcissimo, esitante all’inizio, come se entrambi stessimo esplorando un territorio nuovo. Ho chiuso gli occhi ed ho sentito il mondo dissolversi e tutto si stava fondendo sciogliendosi in un unico immenso brivido.

Era la prima volta che qualcuno mi baciava come Ludovica, e quella consapevolezza era così reale che non ho potuto fare a meno di sentire le tante differenze dei miei baci maschili. Ero io a schiudere le labbra, ero io ad accogliere, ed era lui a insinuare la sua lingua e mi faceva sentire tremendamente femmina, desiderata, l’altra faccia della medaglia, così reale da non aver più paura di essere “scoperta”. Mi sentivo euforica e in quel momento gli avrei voluto chiedere come sentisse il bacio di un essere che era nato uomo, se le mie labbra, la mia lingua tradissero ciò che desideravo essere, ma Giovanni con quel bacio sempre più intenso non solo mi accettava, ma suggellava il mio nome, la mia identità, la mia verità.

Quel bacio era durato un attimo e un’eternità e subito dopo sconvolta sentivo un misto di vertigine e trionfo Giovanni sorrideva con una dolcezza disarmante. “Sei incredibile...” Per un attimo ho pensato al mio rossetto sbafato, ma non mi importava perché quel bacio aveva aperto una porta che non avrei mai più chiuso.
Ludovica non era solo un nome, era reale, lì, con le labbra ancora calde del primo bacio, sotto le luci di Milano, sotto quei portici che facevano eco ai miei tacchi, sopra quel marmo che rifletteva il mio vestito. E mentre Giovanni mi prendeva di nuovo la mano, pronto a continuare la nostra passeggiata, come se tutto fosse estremamente normale, io donna e lui uomo, non sono riuscita a trattenermi: “Sei stupendo!”
Perso in me non ci aveva pensato un attimo a rispondere: “Sei tu stupenda!” Poi sedendosi sul bordo di una fontana mi ha detto: “Dai cammina, ti prego, allontanati da me. Fai quattro passi. Voglio ammirarti in tutto il tuo splendore.”
Con i tacchi in precario equilibrio ho fatto quei quattro passi verso il paradiso, desiderosa solo di essere guardata. Ecco la sensazione che avevo cercato per anni, ossia non il desiderio di essere femmina, ma il desiderio di esprimere la femminilità che nessuna donna era riuscita a fare con me!

Con le lacrime agli occhi sono tornata verso di lui. Le parole mi sono uscite spontanee: “Tu sei nel posto dove io avevo sempre sognato di stare.” E lui: “Sei pentita? Vorresti tornare indietro?” Assolutamente ora stavo bene dove stavo e non c’era alcun rimpianto nella mia anima. Ho fatto di no con la testa: “Sto bene dove sto, ma se avessi incontrato una donna con la stessa mia voglia di femminilità forse ci avrei pensato…” Era vero! Io non ero nata col sesso sbagliato, con un corpo che non riconoscevo, non avevo avuto pulsioni adolescenziali, il mio era un percorso diverso dagli altri, non ero attratta da un uomo, ma dalla femminilità che avevo ricercato nelle altre, ma avevo trovato solo in me stessa!

Ma quelle riflessioni sono rimaste dentro di me ed avvicinandomi a Giovanni ho semplicemente detto: “Allora ho superato l’esame?” Lui accarezzandomi la guancia mi ha detto: “Ti va di andare da qualche parte… solo noi?”
Oddio, nonostante il cielo stellato ho sentito un forte boato dentro di me! Ho esitato un attimo, sapevo quale tempesta mi sarebbe aspettata, ma poi per il desiderio di vivere pienamente quella notte, di essere Ludovica fino in fondo, ho annuito con un accenno di sorriso che nascondeva a malapena il mio tumulto.

Mentre camminavamo Giovanni mi guidava, fasciandomi i fianchi, verso un piccolo bar nascosto in una viuzza di Brera con vari quadri di autore esposti alle pareti. “Fermiamoci qui. Voglio guardarti ancora un po’, senza fretta. Voglio ammirarti come un’opera d’arte e sono sicuro che non sfigurerai.”
Per l’imbarazzo o forse per i miei tacchi alti sono inciampati sullo scalino. Entrando ci siamo lasciati andare ad una risata liberatoria. Il locale era quasi deserto. Ci siamo seduti a un tavolo d’angolo ordinando due calici di prosecco. Il bicchiere freddo tra le mie mani mi ha destata dal mio tumulto interiore. Giovanni mi guardava e il suo sguardo era diverso, più intenso, come se vedesse oltre il mio vestito, oltre il rossetto.
Mi ha chiesto: “Come sta procedendo la serata? Te la immaginavi così? Sei soddisfatta del tuo cavaliere?”
“Non potevo chiedere di meglio, tu non sei solo un cavaliere sei la mia guida, il mio Virgilio, sei…”
Senza che finissi la frase ha detto: “Ludovica, sai cosa penso? Che tu in questo momento voglia essere ancora di più te stessa. Come se volessi esplorare ancora di più la tua femminilità. Non è vero?”
Non capivo: “Cosa intendi?”
“Intendo che tu non sei delusa da me, se mi vedi come guida, ma dal resto che ti circonda… Ora in questo istante, tra queste luci soffuse, vorresti essere una femme fatale, vero? Non solo una donna, ma una che fa girare la testa, che lascia un segno indelebile, qualcosa che rimane impresso e non è facilmente dimenticabile. Scommetto che, nonostante il timore di essere giudicata, vorresti che gli altri ti guardassero con un certo… appetito, come tu del resto una vita fa, guardavi le altre donne…”
Beh Giovanni era un acuto osservatore. Era come se avesse letto i miei pensieri di prima davanti a quella fontana.
Sono arrossita: “Forse… forse sì… Non è solo il desiderio di essere vista come donna. È il desiderio di essere quella donna, quella che non puoi ignorare, che ti fa desiderare l’essenza della femminilità.”

Giovanni era già oltre: “E sai una cosa? Ce l’hai già, quel potere. L’ho visto stasera, quando camminavi verso la fontana. Ogni passo era una dichiarazione. Ma dimmi di più… dimmi i tuoi desideri nascosti… Avresti voglia di mostrare cosa porti sotto? Non parlo del vestito, ma di ciò che significa per te, la tua sensualità, la tua sostanza. Ludovica, quanto lontano arriva la tua trasgressione?”

Il mio cuore saltava disordinato. Quelle domande mi stavano scavando in profondità e toccavano corde che ho sempre tenuto nascoste nelle mie quattro pareti di casa. In quel momento pensavo alle notti in cui ero uscita da sola, vestita da Ludovica, camminando per quei viali, con il cuore in gola, desiderando essere vista, temendo però il giudizio. “Ci ho pensato certo, sarò banale, ma ho sempre creduto che la molla del mio percorso passasse soprattutto per la mia lingerie, il mio reggicalze. Ti prego non considerarmi banale, ma davvero è tutto cominciato da lì. Quando uscivo da sola, sentivo questa… voglia di spingermi oltre, di essere audace, di lasciare che il mondo vedesse chi fossi davvero. Ma avevo paura...”
“E stasera? Con me?”
“Stasera è diverso. Con te, non ho paura. Mi fai sentire… reale. Non solo Ludovica in cerca della propria identità, ma la versione più vera di me o di quello che posso offrire in questo momento. Mi sento come un artista che realizza un’opera d’arte per emozionare e ovviamente ci mette tutto se stesso. Ecco, io vorrei essere contemporaneamente l’artista e l’opera d’arte. Anche se so che questa è solo una tappa di una lunga corsa, ma allo stesso modo vorrei essere trasgressiva, non per provocare, ma per essere libera. Per mostrare che la mia femminilità non è solo un ruolo, è ciò che sono.”

Giovanni ha annuito come se capisse ogni mia parola ed ogni retro del mio pensiero: “Allora fallo, Ludovica. Sii quella femme fatale. Non per me, ma per te. Io sono solo fortunato a essere qui e guardarti.”

Finiti i nostri calici siamo usciti dal bar, l’aria di Milano era ancora calda e carica di possibilità. Giovanni mi ha presa per mano e mentre camminavamo ho sentito una nuova sicurezza crescermi dentro. Non sapevo ancora bene dove ci avesse portato quella notte, ma sapevo che desideravo viverla solo e come Ludovica. Con Giovanni accanto, ero pronta a scoprire ogni mia piega, ogni mio risvolto e soprattutto fino a dove potevo spingermi per essere Ludovica.



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Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.

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