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DALLA PARTE SBAGLIATA 2
Il reggicalze, la mia ossessione

La scoperta
Ma la verità era che non ero in pace con me stesso.
Passavo davanti alle boutique, sorridevo, ma dentro di
me la lotta continuava: il reggicalze era il mio amante,
il mio compagno, il mio tutto, ma era anche la mia
prigione, il mio conflitto interiore. Una parte di me si
chiedeva se mai avessi potuto essere altro e se mai
avessi potuto desiderare senza condizioni, ossia senza
pizzo e senza ganci. Mi rispondevo che non sarebbe stato
possibile e che l’unica via era impersonarmi in ciò che
rappresentava quel feticcio, ossia la femminilità,
cosciente del fatto che nessuna donna, potesse
rappresentare la stessa immagine sacra, l’unica
religione a cui ero devoto.
Ero appagato dalle
mie certezze, ma mi chiedevo se mai quella stessa
devozione avesse potuto riempiermi tutta la vita e
rendermi felice. “Un pezzo di stoffa può davvero
arrivare a questo? Può scarnificare la polpa di valori
assoluti?” Ovviamente la risposta era negativa e sentivo
che sarei dovuto andare oltre e non affidare a quel
feticcio inanimato il senso della mia vita e i miei
desideri più profondi.
Ogni tanto guardavo la
mia collezione ordinata per colori e per numero di
stringhe, ma qualcosa mi spingeva oltre, perché
nonostante non concepissi altra bellezza vedevo quella
meravigliosa serie priva dell’anima. Dentro quella
sensazione mi si era aperto un grande vuoto. Alle volte
ne fissavo uno a piacere così intensamente che mi
sembrava si muovesse obbedendo alla sensualità di due
cosce accavallate. Ero ad un bivio, dovevo in qualche
modo rendere vivo quel feticcio, pena la morte fisica e
mentale del mio desiderio e quindi di me stesso.
Una sera d’autunno, fuori pioveva, e io ero nel mio
appartamento, davanti allo specchio, con il mio
reggicalze preferito. Quello in seta nera, pizzo
Chantilly, ganci d’argento con i cristalli Swarovski. Lo
indossavo, come ormai facevo spesso, quasi tutte le
sere, sentendo la seta scivolare sulla pelle, i nastri
che oscillavano leggermente. Ma quella sera,
guardandomi, non ho provato la solita euforia. Ho visto
un uomo solo, ridicolo, prigioniero di un oggetto
inanimato. Il reggicalze era perfetto, ma non poteva
parlarmi, non poteva amarmi, non poteva colmare la
voragine che sentivo crescere. Era solo pizzo, solo
seta. Non era abbastanza, mancava la linfa!
Il
conflitto che mi aveva tormentato per anni, il desiderio
di quel totem contro la mia incapacità di connettermi
con gli altri, si stava trasformando in una domanda
nuova: “E se la femminilità che cerco non fosse fuori,
ma dentro di me? E se non necessariamente la femminilità
fosse donna? Ho iniziato a chiedermi cosa significasse
davvero quel reggicalze. Non era solo un oggetto, ma un
simbolo di ciò che avevo sempre venerato: la sensualità,
l’eleganza, la seduzione, l’identificazione di qualcosa
estremamente femminile. Quindi non mi bastava più
indossarlo sotto i pantaloni o nel segreto della mia
casa perché percepivo troppo evidente quel contrasto di
maschio con un indumento decisamente femminile.
E
per renderlo vivo, mi dicevo, dovevo agire in prima
persona perché nessuno mai avrebbe potuto percepire le
stesse mie sensazioni, insomma dovevo incarnarlo io
stesso. Non bastava indossarlo in segreto, dovevo
diventare ciò che rappresentava. Insomma in quella fase
della mia vita, il reggicalze piano piano si stava
insinuando nella mia mente e ne prendeva il comando. Ero
io l’oggetto e lui la guida! Quel pensiero mi
terrorizzava e mi eccitava. Era un salto nel buio, ma
sentivo che era l’unico modo per non soccombere alla
solitudine e per trovare di nuovo un mio posto nel
mondo. E per combatterla dovevo ricercare negli altri
non la femminilità, ma l’attrazione verso la
femminilità. Quindi trovare piacere non guardando un
reggicalze, ma trovando negli occhi degli altri
quell’ammirazione con cui lo avevo sempre guardato.
Ho iniziato piano, con cautela, come se stessi
esplorando un territorio proibito. Una sera, ho aperto
il cassetto della mia collezione e ho tirato fuori non
solo il reggicalze, ma anche un paio di calze nere con
la cucitura posteriore, comprate anni prima per una
donna che non le aveva mai indossate. Le ho fatte
scivolare sulle gambe agganciandole con estrema cura ai
ganci del reggicalze come avevo visto fare nei film.
La sensazione era decisamente diversa, più completa:
il nylon liscio che avvolgeva la pelle, la cucitura che
disegnava una linea perfetta, il leggero peso dei ganci
che tiravano appena. Mi sono guardato allo specchio e ho
sentito un brivido correre lungo ogni mia vena. Non ero
più solo Ludovico con un feticcio, non ero solo un
contrasto ridicolo, ma qualcosa di più, qualcosa di
nuovo, in divenire...
Sempre preso da
quell’esplorazione sere dopo ho aggiunto un paio di
mutandine, un modello di pizzo nero con ricami floreali,
delicate e audaci. Le ho indossate sopra il reggicalze,
come fanno le donne sofisticate, e mi sono sentito
trasformato. Il pizzo delle mutandine si intrecciava con
quello del reggicalze, creando un’armonia visiva,
tattile e lascivamente femmina che mi faceva quasi
girare la testa.
Ma c’era ancora una barriera
per la grazia assoluta. Le mie gambe, coperte di peli,
seppur radi, spezzavano ogni tipo di illusione. Così,
una notte, ho preso un rasoio. Seduto sul bordo della
vasca, ho rasato le gambe con cura, ogni passata era un
atto di devozione e una promessa incondizionata, un
battesimo alla mia nuova religione. La pelle liscia
sembrava ora pronta a ricevere il mio feticcio come
un’offerta. Quando ho indossato di nuovo le calze, ho
sentito un’ondata di piacere.
Ero più vicino a
ciò che desideravo, ma non ancora al top. Quei piccoli
passi mi rendevano curioso e così concentrato su me
stesso che per settimane intere non ho sentito il
bisogno di uscire. Il passo successivo è stato il
trucco. Ho comprato un kit base in una profumeria,
balbettando scuse alla commessa sul fatto che fosse “per
un regalo”. A casa, ho passato ore davanti allo
specchio, seguendo tutorial su YouTube. Il rossetto
rosso era tremolante, l’eyeliner un disastro, ma quando
ho completato l’opera, ho visto una versione di me che
non conoscevo. Non ero una donna, non ancora, ma ero
qualcosa di più morbido, più sensuale, qualcosa che mi
dava una certa attrazione verso me stesso. Davanti allo
specchio, vestito in lingerie e truccato,
inevitabilmente mi sono chiesto: “Fino a dove voglio
spingermi?”
La risposta è arrivata sere dopo con
una gonna, comprata online per paura di entrare in un
negozio. Era una gonna a tubino nera, semplice, ma
elegante, che scivolava sui fianchi e metteva in risalto
il reggicalze semi nascosto sotto. Mi guardavo con due
occhi di uomo desideroso di scorgere il minino dettaglio
e in particolare quei bozzetti dei ganci sulla gonna che
nascondevano un paradiso. Indossarla è stato come
attraversare un confine. Non ero più solo un uomo con un
segreto, ero qualcuno che stava diventando. Ma era pur
sempre un percorso arduo, lottavo di giorno in giorno
con la mia mente e l’immagine che gli altri avevano
avuto di me fino ad allora. Mi chiedevo se stessi
distruggendo Ludovico o se lo avessi comunque tenuto in
vita facendolo camminare accanto a quella nuova figura
di me stesso a cui non osavo al momento darle un nome.
Per rassicurarmi giuravo che quella fosse solo la
mia versione notturna perché di giorno rimanevo comunque
attaccato alla mia figura maschile sapendo benissimo che
la vera identità passava per gli sguardi e i giudizi
degli altri. E questa coscienza mi dava la sicurezza di
essere comunque Ludovico per tutto il resto del mondo.
Insomma non mi sentivo pronto, l’idea di uscire di casa
vestito con abiti femminili mi terrorizzava, anzi non
era assolutamente un’ipotesi. Mi dicevo che mai lo avrei
fatto, ma passavo comunque ore in bagno, perfezionando
il trucco, aggiustando la gonna, indossando il
reggicalze, le calze, le mutandine.
Le ore
serali erano dedicate esclusivamente a me stesso. Dopo
cena mi accomodavo sul divano, mettevo un po’ di musica,
un calice di vino rosso, l’impronta di rossetto lasciata
sul bicchiere e passavo la sera lasciandomi andare a
movenze che rispondevano perfettamente alla mia
lingerie, ammirandomi e sentendo un misto di eccitazione
e panico. “E se i vicini mi avessero visto? E se
qualcuno mi riconoscesse? E se ora mi sentissi male e
dovessi chiamare aiuto?”
La paura di essere
giudicato, di essere ridicolizzato, era lì costante e
presente come un peso che mi schiacciava. Ma il
desiderio di essere quella versione di me stesso era più
forte. Ogni tanto azzardavo, mi sedevo in terrazza,
accavallando le gambe, dondolando i tacchi a spillo
neri, che avevo acquistato qualche giorno prima sempre
online. Ma lottavo contro me stesso, da una parte
desideravo che qualcuno mi vedesse, così da lontano in
modo che percepissero solo un abbozzo di ombra
femminile, ma dall’altra sudavo freddo sperando che mai
succedesse di arrivare al punto di dover rendere conto.
Ma quel viaggio era segnato, qualunque cosa avessi
deciso, non si sarebbe discostato dal mio desiderio che
ribolliva nella mia carne e nelle mie ossa. Il passo
successivo fondamentale è stato l’acquisto di una
parrucca rossa in un negozio di costumi cinematografici.
Ora sì che ero pronto! Così una notte col fiato in gola,
sono uscito di casa e mi sono infilato immediatamente in
macchina. Pregavo che nessuno mi avesse visto, poi ho
acceso il motore per andare chissà dove, non era
importante la destinazione e tra l’altro non avevo
alcuna intenzione di scendere, solo di guidare ed essere
parte del mondo, di sentire la gonna che sfiorava le
cosce, il reggicalze che mi abbracciava, le calze che
accarezzavano le gambe. Nulla di più, solo la
sensazione.
Guidavo per le strade di Milano con
le luci della città che sfrecciavano fuori dal
finestrino. Ogni semaforo, ogni camion, ogni autobus era
un momento di terrore: “E se qualcuno mi guarda?” Ma
nessuno faceva caso a me. Ero solo un’ombra indistinta
in una macchina. Eppure, dentro, mi sentivo viva. Sì
viva! Ho iniziato a parlare di me al femminile ed è
stato un piacere indescrivibile! Il reggicalze, la mia
seconda pelle, era lì, a ricordarmi e confermarmi chi e
cosa stavo diventando. Giravo senza meta solo per il
gusto di occupare un posto nel mondo. Quella notte, non
sono scesa dalla macchina, ma ho sentito che qualcosa
stava davvero cambiando.
Le notti seguenti, ho
trovato il coraggio di spingermi oltre. Piccoli passi
certo, come aprire lo sportello e poggiare il tacco
sull’asfalto vedendo e saziandomi dell’effetto delle mie
calze fasciate di nero, o come fare il giro dell’auto e
sentire il rumore dei miei tacchi. Poi una sera ho
scelto un viale isolato, lontano dal centro, dove le
luci erano poche e le ombre molte. I primi passi
distanti dalla macchina sono stati un’esplosione di
emozioni come se mi stessi allontanando dal mio guscio.
Sentivo il guinzaglio tirare e allo stesso tempo il
terrore di essere senza difese, ma anche la volontà di
liberarmi di quei fili. Ho iniziato a camminare
nella notte e quel leggero vento che si insinuava tra le
mie gambe, l’andatura precaria e il rumore dei miei
tacchi, nitido e ritmico, erano una dichiarazione di
esistenza. La parrucca rossa mi cadeva soffice sulle
spalle, la gonna mi avvolgeva i fianchi, e il
reggicalze, sempre lui, era il cuore pulsante della mia
femminilità.
Camminavo piano, il cuore che
batteva all’impazzata, la paura di essere vista
mescolata a un’euforia che non avevo mai conosciuto. Mi
sentivo femmina, non solo per gli abiti, ma per il modo
in cui il mondo sembrava piegarsi al mio passaggio. E
così ogni notte, osavo un po’ di più. Camminavo per
viali più lunghi e meno isolati, incrociando da lontano
qualche figura di passaggio, tipo un uomo a spasso col
cane, tipo una suora alla fermata del bus o un ragazzo
che non staccava gli occhi dal suo cellulare.
Il
cuore mi batteva, l’ansia saliva, ma osavo sempre un po’
di più continuando a passeggiare di proposito sotto
lampioni o davanti a qualche vetrina piena di luce che
illuminavano la cucitura della calza e la vernice dei
miei tacchi impossibili. La parrucca rossa era un velo
che mi proteggeva dal mondo, il rossetto acceso una
richiesta smisurata, il trucco pesante la mia
sfrontatezza. Ma il reggicalze rimaneva il centro di
tutto, la mia verità vera e ogni volta che sentivo
tirare la calza percepivo di essere più vicina a me
stessa. Ogni tanto da sopra la gonna lo accarezzavo per
essere sicura che ancora fosse lì e che mai mi avrebbe
tradito e abbandonato in quel percorso.
Di
giorno tornavo Ludovico e mi abbandonavo a riflessioni
sul mondo transgender che confesso, mi suscitava un
misto di disagio e incomprensione. Lo vedevo da lontano,
come un’esplosione di colori, di voci, di corpi che
gridavano la loro verità senza filtri, come un circo che
non conosceva pause. E io, in quel caos, mi sentivo un
estraneo. Non era invidia, né giudizio, ma una
distanza che non riuscivo a colmare. Quelle
manifestazioni così sfrontate, così dichiaratamente
esibite, mi sembravano lontane anni luce dal mio modo di
essere. La mia condizione era un’altra, più silenziosa,
più intima. Era un soffio leggero, un’ombra che danzava,
non aveva bisogno di megafoni o bandiere: era un dolce
segreto, un giardino nascosto che coltivavo con cura,
lontano da sguardi indiscreti. Mi piaceva pensarla come
una melodia appena accennata, che solo un orecchio
attento avrebbe potuto cogliere.
Mi ripetevo,
quasi come un mantra, che mai avrei imposto la mia
diversità a qualcuno. Non volevo essere un manifesto, né
una provocazione. Semmai, desideravo il contrario:
proteggermi, custodirmi, svelarmi solo a chi avrebbe
saputo vedere oltre la superficie, oltre il Ludovico che
il mondo conosceva. Sognavo un incontro, uno di quelli
rari e preziosi, con qualcuno che non solo avrebbe
capito, ma avrebbe provato piacere nello scoprire la
donna che viveva in me. Non chiedevo molto: solo uno
sguardo che non giudicasse, un sorriso che accoglieva e
che avesse tremato nel toccare la seta del mio
reggicalze.
Insomma Non avevo bisogno di urlare
per esistere. Non avevo bisogno di approvazione per
sentirmi completa. La mia femminilità era mia, e questo
bastava. E se un giorno qualcuno fosse entrato in quel
giardino segreto, lo avrebbe fatto con rispetto, con
curiosità, con amore. Fino ad allora, sarei rimasto
Ludovico, il restauratore, con un segreto che rendeva
ogni mio giorno un po’ più bello e un po’ più vero.
Giovanni Poi una notte,
mentre camminavo in un viale deserto, è successo
qualcosa che non avevo previsto. Un ragazzo, poco più
che ventenne, è apparso dall’ombra sfiorandomi la
spalla. Aveva i capelli spettinati, una giacca di pelle,
un’aria trasognante di chi si perdeva nella notte. Mi
aveva seguita senza che io me ne accorgessi.
Ho
cercato di proseguire, ma lui mi ha pregato di fermarmi
un attimo. Mi guardava e io sentivo il panico stringermi
il petto. Era la prima volta che qualcuno mi vedeva così
da vicino. Terrorizzata mi sono chiesta se mi avesse
riconosciuta, se mi avesse visto come un fantoccio
vestito da donna, ma lui mi ha sorriso e mi ha detto:
“Ciao… come ti chiami?” Ho esitato, la voce non usciva.
Lui se ne è accorto e per tranquillizzarmi ha aggiunto:
“Sei molto bella sai!” Non ci potevo credere e con la
voce tremante ho risposto: “Mi chiamo Ludovica.” Era la
prima volta che usavo un nome femminile, e mi è sembrato
naturale, come se fosse sempre stato mio.
“Ludovica, ti ho seguita da quando sei scesa dalla
macchina, ma non ho avuto il coraggio di fermarti
subito.” Poi guardandomi negli occhi, mi ha detto: “Sei
affascinante!” A quelle parole mi sono calmata e seduti
su una panchina lì vicino abbiamo iniziato a parlare. Mi
chiamava Ludovica e ogni volta che lo faceva, sentivo
un’ondata di estasi. Mi guardava con desiderio, con
ammirazione, e io mi sentivo apprezzata, non come un
uomo, ma come una donna. “Ero davvero Ludovica?” Quando
mi ha detto, con una sincerità disarmante “Sei più
femmina di qualsiasi donna che abbia mai conosciuto…” Ho
sentito un trionfo interiore, una gioia che mi ha
travolta. Sì, aveva ragione non avrei mai potuto essere
una donna, ma di certo una persona che si sentiva
femmina! E in quel momento: il reggicalze, le calze, la
gonna, la parrucca, il rossetto, il trucco, i tacchi, la
camicetta di seta, tutto si stava fondendo con il mio
essere. Quello che mostravo di me non era più solo un
feticcio, ma la chiave che aveva aperto la porta alla
mia vera identità.
Quella sera Giovanni non mi ha
presa per mano, non ha tentato di baciarmi, insomma non
è successo nulla. Del resto non avevo bisogno di altre
prove. L’adorazione nei suoi occhi, il suono del mio
nome sulle sue labbra, erano abbastanza. Con una
prontezza che mi ha disarmata mi ha chiesto: “È la prima
volta che esci così?” Non so da cosa lo avesse dedotto,
ma risposi sinceramente ossia che era la prima volta che
un uomo mi rivolgeva la parola. E lui: “E come ti
senti?” Anche questa volta ho risposto diretta: “Un po’
a disagio, ma me stessa.” Lui ha annuito: “Devi sempre
sentirti te stessa e non lasciare mai agli altri il
potere di darti il permesso …perché sei già tutto quello
che devi essere.”
Le sue parole mi hanno colpito
come un raggio di luce in una stanza buia. Mi guardava
con una dolcezza che non aveva nulla di forzato, come se
vedesse davvero chi ero, senza filtri, senza giudizi. Mi
sono sentita improvvisamente più leggera, come se il
peso di anni di dubbi e paure si fosse dissolto, almeno
per un istante. “Grazie.” Ho sussurrato, abbassando
lo sguardo. La mia mano tremava leggermente mentre
giocherellavo con l’orlo della gonna, un gesto nervoso
che tradiva il tumulto dentro di me. “Sai, non so
perché ti ho fermata. Cioè, sì, lo so… C’era qualcosa in
te. Camminavi con una grazia… non so, come se stessi
ballando con il mondo, ma allo stesso tempo sembrava che
stessi trattenendo il respiro.” “Trattenendo il
respiro?” Ho ripetuto. “Come se fossi pronta a
spiccare il volo, ma non fossi ancora sicura di poterti
fidare delle tue ali. Scusa, forse sto dicendo cose
senza senso.” “Non è senza senso. È esattamente così
che mi sento. Sempre… al confine tra chi sono e chi
vorrei essere.”
Lui mi ha guardata, i suoi occhi
brillavano sotto la luce del lampione. “E chi vorresti
essere, Ludovica?” La domanda mi ha colpita come un
pugno. La sua non era curiosità morbosa, non c’era
traccia di giudizio nel suo tono. Era una domanda vera,
di chi vuole capire, di chi vede oltre la superficie. Ho
deglutito cercando le parole. “Vorrei… vorrei essere me
stessa senza paura. Senza chiedermi ogni secondo se sto
sbagliando, se sto facendo qualcosa di… innaturale.
Vorrei che il mondo mi vedesse come mi vedo io quando mi
guardo allo specchio.”
Lui è rimasto in silenzio
per un momento, come se stesse soppesando ogni mia
parola. Poi ha sorriso: “Sai, il mondo è un posto
complicato. A volte ci vuole più coraggio per essere se
stessi che per combattere un drago. Ma tu… tu ce l’hai
quel coraggio. Sei qui, no? Stasera, in questo viale,
con me. Non è poco.” “A volte penso che sia solo
incoscienza. O disperazione.” “Può darsi, ma anche
l’incoscienza è una forma di coraggio. E poi, guardati.
Sei qui, sei Ludovica, e sei reale. Non c’è niente di
più potente di questo.”
Le sue parole erano calde
quanto un abbraccio. “E tu?” chiesi, trovando il
coraggio di spostare l’attenzione su di lui. “Perché sei
qui, a parlare con una sconosciuta in un viale deserto?”
“Bella domanda… Forse perché anch’io sto cercando
qualcosa. Non so bene cosa. Ma quando ti ho vista, ho
pensato… ecco, lei sembra qualcuno che sa cosa significa
cercare se stessi. E mi sono detto: magari ha qualcosa
da insegnarmi.” “Da insegnarti? Io? Io sono un
disastro. Non so nemmeno se sto facendo la cosa giusta.”
“E chi lo sa?” Ha risposto alzando le spalle. “Nessuno
ha un manuale per vivere. Ma tu ci stai provando,
Ludovica. E questo è più di quanto facciano tante
persone.” Le sue parole mi hanno lasciato senza
fiato. Non sapevo cosa dire, ma non volevo che quel
momento finisse. “Posso chiederti una cosa?” Ho osato:
“Quando mi hai vista… cosa hai pensato? Voglio dire,
davvero. Non… non ti è sembrato strano?” E lui senza
esitazione. “Ho pensato che eri bellissima. E non parlo
solo di come sei vestita o di come ti sei truccata.
Parlo di te. Della tua energia, del tuo coraggio.”
Non c’era bisogno di altro.
Lui, Giovanni, era
uno studente universitario al quarto anno e prima di
salutarmi mi ha chiesto il numero di telefono e
soprattutto se ci fosse la possibilità di rivederci.
Anche quello era un altro passaggio, critico, doloroso,
ma anche intenso e pieno di soddisfazione. Ho detto di
sì e sono andata via, e mentre riprendevo la mia auto
sentivo i suoi occhi su di me, sulla riga della mia
calza, sul mio sedere che spontaneamente ha iniziato ad
ancheggiare. Ero femmina! Per la prima volta, sentivo di
aver unito il mio desiderio al mio essere. Il reggicalze
non era più un oggetto inanimato: era vivo, perché io
ero viva.
E Ludovica non era solo un nome, era
la mia verità più profonda, la sintesi appunto del mio
desiderio e del mio essere. La donna che viveva fasciata
perennemente dal pizzo del reggicalze senza doverlo
elemosinare nelle altre o fantasticare nella solitudine
della notte. Ero la donna che viveva nel suono dei
tacchi, nel frusciare della gonna, nei dettagli, nelle
pieghe delle calze, negli atteggiamenti. Ma
rappresentava anche la mia vulnerabilità, la mia paura,
il mio coraggio di camminare sotto le luci di un
lampione sapendo che il mondo avrebbe potuto ancora
giudicarmi. Ludovica era la mia ribellione contro la
solitudine, contro il vuoto che il reggicalze, da solo,
non aveva colmato.
Ludovica non cancellava
Ludovico. Erano due facce della stessa moneta, due voci
che convivevano dentro di me. Ludovico era l’uomo che
restaurava dipinti, che camminava per Milano in giacca e
cravatta. Ludovica era la donna che danzava nella notte,
che aveva incontrato un uomo ed aveva ricevuto
apprezzamenti, che si guardava allo specchio e vedeva
bellezza, che trovava nel reggicalze non solo un
feticcio, ma un simbolo di trasformazione.
Non
sapevo se Ludovica sarebbe mai diventata la mia identità
principale, o se avrei trovato un equilibrio tra i due.
Ma sapevo che lei mi aveva salvato. Mi aveva dato un
nome per il vuoto, un corpo per il desiderio, una voce
per la mia verità. Il reggicalze, la mia seconda pelle,
era il ponte tra Ludovico e Ludovica, il filo che univa
il mio passato al mio futuro.
Certo si Giovanni
non lo aveva notato, ma aveva visto qualcosa di più,
l’effetto di quella causa da cui succhiava coraggio e
determinazione. Passavo davanti alle boutique,
sorridevo, e sapevo che non ero più sola. Ludovica era
il mio trionfo, la mia libertà, la mia casa. Il
reggicalze era ancora la mia religione, ma Ludovica era
il suo tempio.
Felice per come mi ero sentita
quella sera, per giorni non avevo più preso le sembianze
di Ludovica aspettando comunque un messaggio da parte di
Giovanni e fantasticando sul primo appuntamento. Beh sì
certo, non mi aveva promesso nulla, ma ero certa che
prima o poi si sarebbe fatto risentire e questa
sicurezza riempiva la mia attesa. Lui era stato
finora l’unico che mi aveva vista da vicino, letta a
fondo e chiamata per nome. Ho ripensato più volte a
quell’incontro su quella panchina, e ogni volta mi
venivano in mente le sue parole di coraggio e il suo
sorriso enigmatico come se contenesse un segreto.
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LETTURA
Questo racconto è opera di pura
fantasia. Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e qualsiasi
somiglianza con fatti, scenari e persone è del
tutto casuale.
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