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DALLA PARTE SBAGLIATA 2
Il reggicalze, la mia ossessione



 
La scoperta
Ma la verità era che non ero in pace con me stesso. Passavo davanti alle boutique, sorridevo, ma dentro di me la lotta continuava: il reggicalze era il mio amante, il mio compagno, il mio tutto, ma era anche la mia prigione, il mio conflitto interiore. Una parte di me si chiedeva se mai avessi potuto essere altro e se mai avessi potuto desiderare senza condizioni, ossia senza pizzo e senza ganci. Mi rispondevo che non sarebbe stato possibile e che l’unica via era impersonarmi in ciò che rappresentava quel feticcio, ossia la femminilità, cosciente del fatto che nessuna donna, potesse rappresentare la stessa immagine sacra, l’unica religione a cui ero devoto.

Ero appagato dalle mie certezze, ma mi chiedevo se mai quella stessa devozione avesse potuto riempiermi tutta la vita e rendermi felice. “Un pezzo di stoffa può davvero arrivare a questo? Può scarnificare la polpa di valori assoluti?” Ovviamente la risposta era negativa e sentivo che sarei dovuto andare oltre e non affidare a quel feticcio inanimato il senso della mia vita e i miei desideri più profondi.

Ogni tanto guardavo la mia collezione ordinata per colori e per numero di stringhe, ma qualcosa mi spingeva oltre, perché nonostante non concepissi altra bellezza vedevo quella meravigliosa serie priva dell’anima. Dentro quella sensazione mi si era aperto un grande vuoto. Alle volte ne fissavo uno a piacere così intensamente che mi sembrava si muovesse obbedendo alla sensualità di due cosce accavallate. Ero ad un bivio, dovevo in qualche modo rendere vivo quel feticcio, pena la morte fisica e mentale del mio desiderio e quindi di me stesso.

Una sera d’autunno, fuori pioveva, e io ero nel mio appartamento, davanti allo specchio, con il mio reggicalze preferito. Quello in seta nera, pizzo Chantilly, ganci d’argento con i cristalli Swarovski. Lo indossavo, come ormai facevo spesso, quasi tutte le sere, sentendo la seta scivolare sulla pelle, i nastri che oscillavano leggermente. Ma quella sera, guardandomi, non ho provato la solita euforia. Ho visto un uomo solo, ridicolo, prigioniero di un oggetto inanimato. Il reggicalze era perfetto, ma non poteva parlarmi, non poteva amarmi, non poteva colmare la voragine che sentivo crescere. Era solo pizzo, solo seta. Non era abbastanza, mancava la linfa!

Il conflitto che mi aveva tormentato per anni, il desiderio di quel totem contro la mia incapacità di connettermi con gli altri, si stava trasformando in una domanda nuova: “E se la femminilità che cerco non fosse fuori, ma dentro di me? E se non necessariamente la femminilità fosse donna? Ho iniziato a chiedermi cosa significasse davvero quel reggicalze. Non era solo un oggetto, ma un simbolo di ciò che avevo sempre venerato: la sensualità, l’eleganza, la seduzione, l’identificazione di qualcosa estremamente femminile. Quindi non mi bastava più indossarlo sotto i pantaloni o nel segreto della mia casa perché percepivo troppo evidente quel contrasto di maschio con un indumento decisamente femminile.

E per renderlo vivo, mi dicevo, dovevo agire in prima persona perché nessuno mai avrebbe potuto percepire le stesse mie sensazioni, insomma dovevo incarnarlo io stesso. Non bastava indossarlo in segreto, dovevo diventare ciò che rappresentava. Insomma in quella fase della mia vita, il reggicalze piano piano si stava insinuando nella mia mente e ne prendeva il comando. Ero io l’oggetto e lui la guida! Quel pensiero mi terrorizzava e mi eccitava. Era un salto nel buio, ma sentivo che era l’unico modo per non soccombere alla solitudine e per trovare di nuovo un mio posto nel mondo. E per combatterla dovevo ricercare negli altri non la femminilità, ma l’attrazione verso la femminilità. Quindi trovare piacere non guardando un reggicalze, ma trovando negli occhi degli altri quell’ammirazione con cui lo avevo sempre guardato.

Ho iniziato piano, con cautela, come se stessi esplorando un territorio proibito. Una sera, ho aperto il cassetto della mia collezione e ho tirato fuori non solo il reggicalze, ma anche un paio di calze nere con la cucitura posteriore, comprate anni prima per una donna che non le aveva mai indossate. Le ho fatte scivolare sulle gambe agganciandole con estrema cura ai ganci del reggicalze come avevo visto fare nei film.

La sensazione era decisamente diversa, più completa: il nylon liscio che avvolgeva la pelle, la cucitura che disegnava una linea perfetta, il leggero peso dei ganci che tiravano appena. Mi sono guardato allo specchio e ho sentito un brivido correre lungo ogni mia vena. Non ero più solo Ludovico con un feticcio, non ero solo un contrasto ridicolo, ma qualcosa di più, qualcosa di nuovo, in divenire...

Sempre preso da quell’esplorazione sere dopo ho aggiunto un paio di mutandine, un modello di pizzo nero con ricami floreali, delicate e audaci. Le ho indossate sopra il reggicalze, come fanno le donne sofisticate, e mi sono sentito trasformato. Il pizzo delle mutandine si intrecciava con quello del reggicalze, creando un’armonia visiva, tattile e lascivamente femmina che mi faceva quasi girare la testa.

Ma c’era ancora una barriera per la grazia assoluta. Le mie gambe, coperte di peli, seppur radi, spezzavano ogni tipo di illusione. Così, una notte, ho preso un rasoio. Seduto sul bordo della vasca, ho rasato le gambe con cura, ogni passata era un atto di devozione e una promessa incondizionata, un battesimo alla mia nuova religione. La pelle liscia sembrava ora pronta a ricevere il mio feticcio come un’offerta. Quando ho indossato di nuovo le calze, ho sentito un’ondata di piacere.

Ero più vicino a ciò che desideravo, ma non ancora al top. Quei piccoli passi mi rendevano curioso e così concentrato su me stesso che per settimane intere non ho sentito il bisogno di uscire. Il passo successivo è stato il trucco. Ho comprato un kit base in una profumeria, balbettando scuse alla commessa sul fatto che fosse “per un regalo”.
A casa, ho passato ore davanti allo specchio, seguendo tutorial su YouTube. Il rossetto rosso era tremolante, l’eyeliner un disastro, ma quando ho completato l’opera, ho visto una versione di me che non conoscevo. Non ero una donna, non ancora, ma ero qualcosa di più morbido, più sensuale, qualcosa che mi dava una certa attrazione verso me stesso. Davanti allo specchio, vestito in lingerie e truccato, inevitabilmente mi sono chiesto: “Fino a dove voglio spingermi?”

La risposta è arrivata sere dopo con una gonna, comprata online per paura di entrare in un negozio. Era una gonna a tubino nera, semplice, ma elegante, che scivolava sui fianchi e metteva in risalto il reggicalze semi nascosto sotto. Mi guardavo con due occhi di uomo desideroso di scorgere il minino dettaglio e in particolare quei bozzetti dei ganci sulla gonna che nascondevano un paradiso.
Indossarla è stato come attraversare un confine. Non ero più solo un uomo con un segreto, ero qualcuno che stava diventando. Ma era pur sempre un percorso arduo, lottavo di giorno in giorno con la mia mente e l’immagine che gli altri avevano avuto di me fino ad allora. Mi chiedevo se stessi distruggendo Ludovico o se lo avessi comunque tenuto in vita facendolo camminare accanto a quella nuova figura di me stesso a cui non osavo al momento darle un nome.

Per rassicurarmi giuravo che quella fosse solo la mia versione notturna perché di giorno rimanevo comunque attaccato alla mia figura maschile sapendo benissimo che la vera identità passava per gli sguardi e i giudizi degli altri. E questa coscienza mi dava la sicurezza di essere comunque Ludovico per tutto il resto del mondo. Insomma non mi sentivo pronto, l’idea di uscire di casa vestito con abiti femminili mi terrorizzava, anzi non era assolutamente un’ipotesi. Mi dicevo che mai lo avrei fatto, ma passavo comunque ore in bagno, perfezionando il trucco, aggiustando la gonna, indossando il reggicalze, le calze, le mutandine.

Le ore serali erano dedicate esclusivamente a me stesso. Dopo cena mi accomodavo sul divano, mettevo un po’ di musica, un calice di vino rosso, l’impronta di rossetto lasciata sul bicchiere e passavo la sera lasciandomi andare a movenze che rispondevano perfettamente alla mia lingerie, ammirandomi e sentendo un misto di eccitazione e panico. “E se i vicini mi avessero visto? E se qualcuno mi riconoscesse? E se ora mi sentissi male e dovessi chiamare aiuto?”

La paura di essere giudicato, di essere ridicolizzato, era lì costante e presente come un peso che mi schiacciava. Ma il desiderio di essere quella versione di me stesso era più forte. Ogni tanto azzardavo, mi sedevo in terrazza, accavallando le gambe, dondolando i tacchi a spillo neri, che avevo acquistato qualche giorno prima sempre online. Ma lottavo contro me stesso, da una parte desideravo che qualcuno mi vedesse, così da lontano in modo che percepissero solo un abbozzo di ombra femminile, ma dall’altra sudavo freddo sperando che mai succedesse di arrivare al punto di dover rendere conto.

Ma quel viaggio era segnato, qualunque cosa avessi deciso, non si sarebbe discostato dal mio desiderio che ribolliva nella mia carne e nelle mie ossa. Il passo successivo fondamentale è stato l’acquisto di una parrucca rossa in un negozio di costumi cinematografici. Ora sì che ero pronto! Così una notte col fiato in gola, sono uscito di casa e mi sono infilato immediatamente in macchina. Pregavo che nessuno mi avesse visto, poi ho acceso il motore per andare chissà dove, non era importante la destinazione e tra l’altro non avevo alcuna intenzione di scendere, solo di guidare ed essere parte del mondo, di sentire la gonna che sfiorava le cosce, il reggicalze che mi abbracciava, le calze che accarezzavano le gambe. Nulla di più, solo la sensazione.

Guidavo per le strade di Milano con le luci della città che sfrecciavano fuori dal finestrino. Ogni semaforo, ogni camion, ogni autobus era un momento di terrore: “E se qualcuno mi guarda?” Ma nessuno faceva caso a me. Ero solo un’ombra indistinta in una macchina. Eppure, dentro, mi sentivo viva. Sì viva! Ho iniziato a parlare di me al femminile ed è stato un piacere indescrivibile! Il reggicalze, la mia seconda pelle, era lì, a ricordarmi e confermarmi chi e cosa stavo diventando. Giravo senza meta solo per il gusto di occupare un posto nel mondo. Quella notte, non sono scesa dalla macchina, ma ho sentito che qualcosa stava davvero cambiando.

Le notti seguenti, ho trovato il coraggio di spingermi oltre. Piccoli passi certo, come aprire lo sportello e poggiare il tacco sull’asfalto vedendo e saziandomi dell’effetto delle mie calze fasciate di nero, o come fare il giro dell’auto e sentire il rumore dei miei tacchi. Poi una sera ho scelto un viale isolato, lontano dal centro, dove le luci erano poche e le ombre molte. I primi passi distanti dalla macchina sono stati un’esplosione di emozioni come se mi stessi allontanando dal mio guscio. Sentivo il guinzaglio tirare e allo stesso tempo il terrore di essere senza difese, ma anche la volontà di liberarmi di quei fili.
Ho iniziato a camminare nella notte e quel leggero vento che si insinuava tra le mie gambe, l’andatura precaria e il rumore dei miei tacchi, nitido e ritmico, erano una dichiarazione di esistenza. La parrucca rossa mi cadeva soffice sulle spalle, la gonna mi avvolgeva i fianchi, e il reggicalze, sempre lui, era il cuore pulsante della mia femminilità.

Camminavo piano, il cuore che batteva all’impazzata, la paura di essere vista mescolata a un’euforia che non avevo mai conosciuto. Mi sentivo femmina, non solo per gli abiti, ma per il modo in cui il mondo sembrava piegarsi al mio passaggio. E così ogni notte, osavo un po’ di più. Camminavo per viali più lunghi e meno isolati, incrociando da lontano qualche figura di passaggio, tipo un uomo a spasso col cane, tipo una suora alla fermata del bus o un ragazzo che non staccava gli occhi dal suo cellulare.

Il cuore mi batteva, l’ansia saliva, ma osavo sempre un po’ di più continuando a passeggiare di proposito sotto lampioni o davanti a qualche vetrina piena di luce che illuminavano la cucitura della calza e la vernice dei miei tacchi impossibili. La parrucca rossa era un velo che mi proteggeva dal mondo, il rossetto acceso una richiesta smisurata, il trucco pesante la mia sfrontatezza. Ma il reggicalze rimaneva il centro di tutto, la mia verità vera e ogni volta che sentivo tirare la calza percepivo di essere più vicina a me stessa. Ogni tanto da sopra la gonna lo accarezzavo per essere sicura che ancora fosse lì e che mai mi avrebbe tradito e abbandonato in quel percorso.

Di giorno tornavo Ludovico e mi abbandonavo a riflessioni sul mondo transgender che confesso, mi suscitava un misto di disagio e incomprensione. Lo vedevo da lontano, come un’esplosione di colori, di voci, di corpi che gridavano la loro verità senza filtri, come un circo che non conosceva pause. E io, in quel caos, mi sentivo un estraneo.
Non era invidia, né giudizio, ma una distanza che non riuscivo a colmare. Quelle manifestazioni così sfrontate, così dichiaratamente esibite, mi sembravano lontane anni luce dal mio modo di essere. La mia condizione era un’altra, più silenziosa, più intima. Era un soffio leggero, un’ombra che danzava, non aveva bisogno di megafoni o bandiere: era un dolce segreto, un giardino nascosto che coltivavo con cura, lontano da sguardi indiscreti. Mi piaceva pensarla come una melodia appena accennata, che solo un orecchio attento avrebbe potuto cogliere.

Mi ripetevo, quasi come un mantra, che mai avrei imposto la mia diversità a qualcuno. Non volevo essere un manifesto, né una provocazione. Semmai, desideravo il contrario: proteggermi, custodirmi, svelarmi solo a chi avrebbe saputo vedere oltre la superficie, oltre il Ludovico che il mondo conosceva. Sognavo un incontro, uno di quelli rari e preziosi, con qualcuno che non solo avrebbe capito, ma avrebbe provato piacere nello scoprire la donna che viveva in me. Non chiedevo molto: solo uno sguardo che non giudicasse, un sorriso che accoglieva e che avesse tremato nel toccare la seta del mio reggicalze.

Insomma Non avevo bisogno di urlare per esistere. Non avevo bisogno di approvazione per sentirmi completa. La mia femminilità era mia, e questo bastava. E se un giorno qualcuno fosse entrato in quel giardino segreto, lo avrebbe fatto con rispetto, con curiosità, con amore. Fino ad allora, sarei rimasto Ludovico, il restauratore, con un segreto che rendeva ogni mio giorno un po’ più bello e un po’ più vero.



Giovanni
Poi una notte, mentre camminavo in un viale deserto, è successo qualcosa che non avevo previsto. Un ragazzo, poco più che ventenne, è apparso dall’ombra sfiorandomi la spalla. Aveva i capelli spettinati, una giacca di pelle, un’aria trasognante di chi si perdeva nella notte. Mi aveva seguita senza che io me ne accorgessi.

Ho cercato di proseguire, ma lui mi ha pregato di fermarmi un attimo. Mi guardava e io sentivo il panico stringermi il petto. Era la prima volta che qualcuno mi vedeva così da vicino. Terrorizzata mi sono chiesta se mi avesse riconosciuta, se mi avesse visto come un fantoccio vestito da donna, ma lui mi ha sorriso e mi ha detto: “Ciao… come ti chiami?” Ho esitato, la voce non usciva. Lui se ne è accorto e per tranquillizzarmi ha aggiunto: “Sei molto bella sai!” Non ci potevo credere e con la voce tremante ho risposto: “Mi chiamo Ludovica.” Era la prima volta che usavo un nome femminile, e mi è sembrato naturale, come se fosse sempre stato mio.

“Ludovica, ti ho seguita da quando sei scesa dalla macchina, ma non ho avuto il coraggio di fermarti subito.” Poi guardandomi negli occhi, mi ha detto: “Sei affascinante!” A quelle parole mi sono calmata e seduti su una panchina lì vicino abbiamo iniziato a parlare. Mi chiamava Ludovica e ogni volta che lo faceva, sentivo un’ondata di estasi. Mi guardava con desiderio, con ammirazione, e io mi sentivo apprezzata, non come un uomo, ma come una donna. “Ero davvero Ludovica?” Quando mi ha detto, con una sincerità disarmante “Sei più femmina di qualsiasi donna che abbia mai conosciuto…” Ho sentito un trionfo interiore, una gioia che mi ha travolta. Sì, aveva ragione non avrei mai potuto essere una donna, ma di certo una persona che si sentiva femmina! E in quel momento: il reggicalze, le calze, la gonna, la parrucca, il rossetto, il trucco, i tacchi, la camicetta di seta, tutto si stava fondendo con il mio essere. Quello che mostravo di me non era più solo un feticcio, ma la chiave che aveva aperto la porta alla mia vera identità.

Quella sera Giovanni non mi ha presa per mano, non ha tentato di baciarmi, insomma non è successo nulla. Del resto non avevo bisogno di altre prove. L’adorazione nei suoi occhi, il suono del mio nome sulle sue labbra, erano abbastanza. Con una prontezza che mi ha disarmata mi ha chiesto: “È la prima volta che esci così?” Non so da cosa lo avesse dedotto, ma risposi sinceramente ossia che era la prima volta che un uomo mi rivolgeva la parola. E lui: “E come ti senti?” Anche questa volta ho risposto diretta: “Un po’ a disagio, ma me stessa.” Lui ha annuito: “Devi sempre sentirti te stessa e non lasciare mai agli altri il potere di darti il permesso …perché sei già tutto quello che devi essere.”

Le sue parole mi hanno colpito come un raggio di luce in una stanza buia. Mi guardava con una dolcezza che non aveva nulla di forzato, come se vedesse davvero chi ero, senza filtri, senza giudizi. Mi sono sentita improvvisamente più leggera, come se il peso di anni di dubbi e paure si fosse dissolto, almeno per un istante.
“Grazie.” Ho sussurrato, abbassando lo sguardo. La mia mano tremava leggermente mentre giocherellavo con l’orlo della gonna, un gesto nervoso che tradiva il tumulto dentro di me.
“Sai, non so perché ti ho fermata. Cioè, sì, lo so… C’era qualcosa in te. Camminavi con una grazia… non so, come se stessi ballando con il mondo, ma allo stesso tempo sembrava che stessi trattenendo il respiro.”
“Trattenendo il respiro?” Ho ripetuto.
“Come se fossi pronta a spiccare il volo, ma non fossi ancora sicura di poterti fidare delle tue ali. Scusa, forse sto dicendo cose senza senso.”
“Non è senza senso. È esattamente così che mi sento. Sempre… al confine tra chi sono e chi vorrei essere.”

Lui mi ha guardata, i suoi occhi brillavano sotto la luce del lampione. “E chi vorresti essere, Ludovica?”
La domanda mi ha colpita come un pugno. La sua non era curiosità morbosa, non c’era traccia di giudizio nel suo tono. Era una domanda vera, di chi vuole capire, di chi vede oltre la superficie. Ho deglutito cercando le parole. “Vorrei… vorrei essere me stessa senza paura. Senza chiedermi ogni secondo se sto sbagliando, se sto facendo qualcosa di… innaturale. Vorrei che il mondo mi vedesse come mi vedo io quando mi guardo allo specchio.”

Lui è rimasto in silenzio per un momento, come se stesse soppesando ogni mia parola. Poi ha sorriso: “Sai, il mondo è un posto complicato. A volte ci vuole più coraggio per essere se stessi che per combattere un drago. Ma tu… tu ce l’hai quel coraggio. Sei qui, no? Stasera, in questo viale, con me. Non è poco.”
“A volte penso che sia solo incoscienza. O disperazione.”
“Può darsi, ma anche l’incoscienza è una forma di coraggio. E poi, guardati. Sei qui, sei Ludovica, e sei reale. Non c’è niente di più potente di questo.”

Le sue parole erano calde quanto un abbraccio. “E tu?” chiesi, trovando il coraggio di spostare l’attenzione su di lui. “Perché sei qui, a parlare con una sconosciuta in un viale deserto?”
“Bella domanda… Forse perché anch’io sto cercando qualcosa. Non so bene cosa. Ma quando ti ho vista, ho pensato… ecco, lei sembra qualcuno che sa cosa significa cercare se stessi. E mi sono detto: magari ha qualcosa da insegnarmi.”
“Da insegnarti? Io? Io sono un disastro. Non so nemmeno se sto facendo la cosa giusta.”
“E chi lo sa?” Ha risposto alzando le spalle. “Nessuno ha un manuale per vivere. Ma tu ci stai provando, Ludovica. E questo è più di quanto facciano tante persone.”
Le sue parole mi hanno lasciato senza fiato. Non sapevo cosa dire, ma non volevo che quel momento finisse. “Posso chiederti una cosa?” Ho osato: “Quando mi hai vista… cosa hai pensato? Voglio dire, davvero. Non… non ti è sembrato strano?”
E lui senza esitazione. “Ho pensato che eri bellissima. E non parlo solo di come sei vestita o di come ti sei truccata. Parlo di te. Della tua energia, del tuo coraggio.”
Non c’era bisogno di altro.

Lui, Giovanni, era uno studente universitario al quarto anno e prima di salutarmi mi ha chiesto il numero di telefono e soprattutto se ci fosse la possibilità di rivederci. Anche quello era un altro passaggio, critico, doloroso, ma anche intenso e pieno di soddisfazione. Ho detto di sì e sono andata via, e mentre riprendevo la mia auto sentivo i suoi occhi su di me, sulla riga della mia calza, sul mio sedere che spontaneamente ha iniziato ad ancheggiare. Ero femmina! Per la prima volta, sentivo di aver unito il mio desiderio al mio essere. Il reggicalze non era più un oggetto inanimato: era vivo, perché io ero viva.

E Ludovica non era solo un nome, era la mia verità più profonda, la sintesi appunto del mio desiderio e del mio essere. La donna che viveva fasciata perennemente dal pizzo del reggicalze senza doverlo elemosinare nelle altre o fantasticare nella solitudine della notte. Ero la donna che viveva nel suono dei tacchi, nel frusciare della gonna, nei dettagli, nelle pieghe delle calze, negli atteggiamenti. Ma rappresentava anche la mia vulnerabilità, la mia paura, il mio coraggio di camminare sotto le luci di un lampione sapendo che il mondo avrebbe potuto ancora giudicarmi. Ludovica era la mia ribellione contro la solitudine, contro il vuoto che il reggicalze, da solo, non aveva colmato.

Ludovica non cancellava Ludovico. Erano due facce della stessa moneta, due voci che convivevano dentro di me. Ludovico era l’uomo che restaurava dipinti, che camminava per Milano in giacca e cravatta. Ludovica era la donna che danzava nella notte, che aveva incontrato un uomo ed aveva ricevuto apprezzamenti, che si guardava allo specchio e vedeva bellezza, che trovava nel reggicalze non solo un feticcio, ma un simbolo di trasformazione.

Non sapevo se Ludovica sarebbe mai diventata la mia identità principale, o se avrei trovato un equilibrio tra i due. Ma sapevo che lei mi aveva salvato. Mi aveva dato un nome per il vuoto, un corpo per il desiderio, una voce per la mia verità. Il reggicalze, la mia seconda pelle, era il ponte tra Ludovico e Ludovica, il filo che univa il mio passato al mio futuro.

Certo si Giovanni non lo aveva notato, ma aveva visto qualcosa di più, l’effetto di quella causa da cui succhiava coraggio e determinazione.
Passavo davanti alle boutique, sorridevo, e sapevo che non ero più sola. Ludovica era il mio trionfo, la mia libertà, la mia casa. Il reggicalze era ancora la mia religione, ma Ludovica era il suo tempio.

Felice per come mi ero sentita quella sera, per giorni non avevo più preso le sembianze di Ludovica aspettando comunque un messaggio da parte di Giovanni e fantasticando sul primo appuntamento. Beh sì certo, non mi aveva promesso nulla, ma ero certa che prima o poi si sarebbe fatto risentire e questa sicurezza riempiva la mia attesa.
Lui era stato finora l’unico che mi aveva vista da vicino, letta a fondo e chiamata per nome. Ho ripensato più volte a quell’incontro su quella panchina, e ogni volta mi venivano in mente le sue parole di coraggio e il suo sorriso enigmatico come se contenesse un segreto.


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Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
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