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DALLA PARTE SBAGLIATA 1
Il reggicalze, la mia ossessione
Ludovico, da sempre
ossessionato dalla lingerie femminile, non riusciva
a trovare donne che la indossassero con la
femminilità assoluta che lui sognava. Così una notte
provò lui stesso, e nello specchio vide finalmente
la femme fatale che aveva sempre cercato...

Mi chiamavo Ludovico, avevo
passato i 35, e vivevo da solo in un appartamento
silenzioso in una via tranquilla di Milano. Ero un
restauratore d’arte, ma non erano i dipinti che
accarezzavo con pennelli a definirmi, né le cornici
dorate che riportavo alla luce. A tutti gli effetti era
una malattia, un’ossessione che mi divorava, un fuoco
che mi accendeva e mi tormentava, un demone di seta e
pizzo che si chiamava reggicalze.
Non era un
semplice oggetto. Era un simbolo, un’ode alla
femminilità che veneravo e che, in segreto, volevo fare
mia. Ogni dettaglio era un verso di una poesia che
venerava la femmina, non la donna, ma la femmina, quella
creatura idealizzata che viveva solo nei miei desideri:
il pizzo, quel merletto fragile come un sussurro,
intrecciato come vene di una donna che non esisteva se
non nella mia mente. La seta, liscia come un peccato
confessato a mezza voce, che scivolava sotto le dita con
la promessa di un’intimità proibita. I fiocchetti,
minuscoli nodi di seta che sembravano sigillare un
segreto, un invito a scioglierli con mani tremanti. E i
merletti, oh, i merletti, con i loro arabeschi che
danzavano come sogni su una coscia nascosta.
Lo
vedevo ovunque. Sotto le gonne delle sconosciute che
attraversavano Piazza della Scala, sotto i vestiti delle
mannequin nei negozi di via Montenapoleone, sotto le
pieghe immaginarie delle tele che restauravo. Il
reggicalze insomma era la mia ossessione, il mio
feticcio che immaginavo di accarezzarlo, di sentirne la
trama sotto i polpastrelli, di lasciarlo scivolare sulla
mia pelle come un battesimo. Non era solo desiderio, ma
anche un bisogno di possederlo.
Ma non tutte le
donne erano femmine, non ai miei occhi. Le guardavo
passare, con i loro jeans sformati, le scarpe basse che
pestavano il pavé, i volti coperti di fretta e non di
mistero. Quelle donne, con le loro vite ordinarie, mi
ripugnavano. Non portavano seta, non conoscevano il
pizzo, non capivano il potere di un fiocchetto che si
slaccia sotto uno sguardo. Le disprezzavo perché non
erano il mio ideale, perché non incarnavano la creatura
che io bramavo in segreto.
Quando una donna
entrava nel mio laboratorio, con un tailleur banale o un
profumo dozzinale, distoglievo lo sguardo. Non c’era
pizzo sotto quelle gonne, nessun merletto a sussurrare
il loro valore e da subito mi rendevo conto che tra noi
non sarebbe mai potuta nascere una sorta di sintonia o
un filo di connessione. Solo la femmina, quella che
viveva nei miei sogni, nei miei tremori, meritava la mia
devozione.
Tutto era iniziato per caso, in un
mercatino di Porta Genova, sotto una pioggia che rendeva
Milano un acquerello sbiadito. Tra cianfrusaglie e libri
ammuffiti, una scatola di velluto nero aveva attirato la
mia attenzione. Dentro, un reggicalze di seta, bordato
di pizzo Valencienne, con due fiocchetti cremisi e un
fermaglio d’argento opaco.
Senza pensarci lo
avevo comprato come si compra un destino. Da allora,
ogni notte, lo tiravo fuori dal suo nascondiglio, lo
accarezzavo come un’amante, immaginando il fruscio delle
calze che avrebbe abbracciato, il modo in cui avrebbe
segnato la pelle della fortunata. Ma non era abbastanza.
La seta mi chiamava, il pizzo mi implorava, batteva
contro le mura della mia anima, pronta a sciogliere ogni
fiocchetto e a saziare il mio tormento.
Vanessa A lungo andare la mia mania
aveva spezzato anche il mio matrimonio con Vanessa. Lei
era una donna concreta, una manager in carriera, con i
piedi piantati in un mondo di riunioni, numeri e
bilanci, lontana anni luce dal mio universo di pizzi e
fantasie, dove la seta sussurrava segreti e i fiocchetti
di un reggicalze erano versi di una poesia incompiuta o
di una tela che ancora non avevo dipinto.
Per
anni avevo provato a portarla nel mio sogno, a
intrecciarla nella mia ossessione. Le regalavo
reggicalze delicati come ragnatele, con fiocchetti di
ogni colore e ganci d’argento che scintillavano come
stelle cadute. Li sceglievo in mercerie nascoste che
sapevano di antico o li facevo cucire da sarte che
conoscevano l’arte del desiderio. Ma per Vanessa erano
solo oggetti, scomodi, estranei. “Ossessioni da
pervertiti” li chiamava, senza sapere che ogni sua
parola era una lama che mi scavava il petto, lasciando
ferite che sanguinavano in silenzio.
Una sera, in
un’esplosione di frustrazione, non ce l’ho fatta più.
Eravamo in cucina, il tavolo ingombro di piatti sporchi
e di silenzi più pesanti. Le ho confessato tutto, con il
cuore che batteva come un ladro. “Non riesco a
desiderarti senza quel dettaglio…” Ho detto, cercando di
tradurre in parole la febbre che mi consumava.
Ho provato a spiegarle che il reggicalze non era solo un
capriccio, ma l’essenza della mia passione, il simbolo
di una femminilità che mi faceva tremare. Il pizzo, le
ho detto, era come una tela su cui dipingevo la mia
anima, la seta poi, un respiro che volevo condividere
con lei. Ma Vanessa mi ha guardato come si guarda un
estraneo, gli occhi lucidi di lacrime e un’ombra di
disgusto che non dimenticherò mai. “Non sono il tuo
giocattolo, Ludovico, né la tua bambola! Quando lo
indosso, mi sento un oggetto, un feticcio per la tua
mente malata. Non sono quella donna, e non lo sarò mai.”
Le sue parole mi hanno trafitto, non perché fossero
ingiuste, ma perché erano vere, almeno per lei. Vanessa
non vedeva la poesia, non sentiva il richiamo. Per lei,
il reggicalze era una prigione, un costume che la
riduceva a un’immagine, non a una donna. Nei suoi occhi,
ho visto il dolore di chi si sente tradita, non
desiderata per ciò che è, ma per ciò che non potrà mai
essere. E in quel momento, ho capito che non era solo il
reggicalze a dividerci, ma due mondi che non si
sarebbero mai toccati.
Lei voleva essere amata
per la sua forza, per la sua mente acuta, per le sue
giornate di battaglie vinte in ufficio. Io, invece,
cercavo un sogno, una femmina mitologica che esisteva
solo nella mia ossessione.
I mesi successivi sono
stati un lento sgretolarsi, tra noi c’erano solo silenzi
che si accumulavano come polvere sotto il tappeto, le
sere in cui Vanessa tornava a casa troppo stanca per
parlare, le mie notti passate a sfiorare quel pizzo
nascosto in un cassetto chiuso a chiave. Ma quella
confessione era stata il colpo fatale. Vanessa non mi
guardava più allo stesso modo, nei suoi occhi c’era una
distanza che nessuna parola poteva colmare.
Una
mattina di primavera, con Milano avvolta in una luce
pallida, ho trovato un biglietto sul tavolo: “Non posso
essere ciò che vuoi. Addio.” Se n’era andata, portando
con sé i suoi tailleur impeccabili da donna in carriera
e lasciando me, solo, con la mia scatola di velluto e un
vuoto che odorava di seta.
La rottura non era
solo la fine di un matrimonio, ma la fine di
un’illusione. Vanessa aveva ragione: non la desideravo
per ciò che era, ma per ciò che speravo fosse diventata.
Eppure, non potevo odiarla. La sua concretezza, il suo
rifiuto di piegarsi al mio sogno, erano la sua forza, la
stessa che io non avevo.
Mentre lei si
ricostruiva una vita altrove, io mi perdevo sempre di
più nel mio tormento. Il reggicalze, con i suoi
fiocchetti e i suoi merletti, non era più solo un
oggetto. Mi sono ritrovato solo, con il mio culto come
unica compagnia e un senso di colpa che mi stritolava:
“Perché non potevo essere normale?” Ma nonostante i miei
dubbi, la mia ossessione non mi lasciava tregua e così
per diverse volte, quando notavo delle pieghe sospette
sulle calze, mi capitava di chiedere sfacciatamente,
anche ad estranee incontrate per caso, se quella bella
trama velata fosse agganciata ad un reggicalze! Certo,
lo facevo con delicatezza, ma restava pur sempre una
domanda sfrontata e troppo intima per ricevere una
risposta garbata.
Preso dalla mia ossessione un
pomeriggio davanti all’Hotel Majestic, fermo sul
marciapiede, ho visto una donna, alta, avvolta in un
abito nero che le accarezzava le curve come un’ombra
innamorata. Mentre scendeva da una berlina scura ho
notato le sue gambe, lunghe e affusolate, fasciate da
calze nere, lungo le quali, a partire dal tallone,
correva una sottile riga nera. All’altezza del ginocchio
una piega appena accennata ha rapito la mia attenzione.
Ho socchiuso gli occhi e non ho potuto fare a meno di
chiedermi se quella calza così elegante fosse agganciata
ad un reggicalze. Tremante mi sono avvicinato, le mani
sudate, il volto arrossato da un misto di vergogna e una
forte curiosità di svelare quel mistero. La bella
signora intanto si era fermata davanti all’ingresso
dell’albergo, frugando nella pochette di seta, ignara
del mio sguardo. Ho deglutito cercando di assumere
un’espressione gentile e rassicurante, ma la voce è
uscita innaturale, quasi strozzata. “Mi scusi,
signora…” Ho iniziato… Lei si è voltata scrutandomi con
una freddezza aristocratica. Era bellissima, il tipo di
bellezza che intimidisce, con labbra rosse come un
peccato. “Non voglio disturbarla, davvero, ma… mi
perdoni, quelle calze…” Sentivo il peso della mia
sfrontatezza. “Sono… sono agganciate a un reggicalze?”
Lei incredula con un affilato disgusto ha risposto
semplicemente: “Prego?” Ho sentito in quel momento il
terreno sprofondare sotto i miei piedi. Le guance mi
bruciavano, sarei voluto sparire, dissolvermi nella
prima nebbia della sera. “Mi scusi tanto ma… non
volevo offenderla.” Alzando le mani come in segno di
resa. “È solo che… le calze, sa, quelle pieghe… la
trama… la cucitura… io…” Le parole mi sfuggivano,
incoerenti, mentre lei mi guardava come si guarda un
insetto ripugnante.
Eppure, mentre continuavo a
spiegare la mia curiosità ho notato, qualcosa nello
sguardo di lei. L’indignazione si era ammorbidita,
sostituita da una curiosità quasi compassionevole. Forse
aveva colto la disperazione nei miei occhi, il tormento
di un uomo schiavo di un’idea o peggio di un feticcio.
Poi abbassando le spalle ha sospirato: “Lei è…
singolare, lo sa?” La voce ora era più morbida, quasi
amichevole. Poi avvicinandosi di un passo quasi con aria
complice ha detto: “Mi dispiace deluderla, ma no, oggi
non porto il reggicalze. Quelle che ha visto sono solo
autoreggenti velatissime. Niente di così… romantico, mi
dispiace…”
Ho sentito il mondo crollarmi addosso.
“Capisco.” Ho risposto con un filo di voce. Lei mi ha
guardato con un’aria di pena: “Comprendo la sua
delusione… conosco il potere seduttivo del reggicalze…
ma mi creda non è per nulla comodo e per quanto mi
riguarda cerco di utilizzarlo solo in particolari
occasioni…” Quella risposta per quanto pratica mi
aveva lasciato più che un amaro in bocca ed ho risposto:
“Mi scusi ancora. Non so cosa mi abbia preso.” Mi sono
voltato pensando a quanto fosse prosaico e volgare un
paio di autoreggenti e mentre mi allontanavo rimuginavo
sul mio fallimento: “Come avevo potuto sbagliarmi?” Mi
sentivo un idiota, un voyeur sconfitto dalla realtà.
Eppure, anche in quella disfatta, l’ossessione non
mi abbandonava. Da qualche parte, ne ero certo, avrei
trovato una donna con un reggicalze vero, una musa,
fiera di indossarlo, che avrebbe dato un senso alla mia
follia. Dovevo solo trovarla, o almeno provarci ancora…
I miei fallimenti Dopo
la separazione da Vanessa, avevo provato a ricostruire
la mia vita, cercando nell’altro sesso comuni interessi
e sintonie che andassero oltre quel feticcio, ma mi
rendevo conto quanto fosse ardua quell’impresa, perché
il reggicalze era sempre lì nella mia mente come un
demone che mi possedeva, come una droga a cui non potevo
rinunciare.
In quel periodo, anche per via del
mio lavoro, incontravo donne, belle, sensuali, artiste e
di classe, donne che qualsiasi uomo avrebbe desiderato
fino allo sfinimento, ma il mio sguardo cadeva sempre
oltre le loro gonne, lungo gli spacchi di quel vedo e
non vedo dove cercavo di cogliere il minimo indizio per
indovinare se lo indossassero. Lungo quegli spacchi
sensuali immaginavo di vedere un luccichio di ganci o un
bordo più scuro, che ritenevo a tutti gli effetti il
solo lasciapassare per un assiduo corteggiamento.
Nei momenti intimi, seduto su un divano, al cinema o
in un ristorante romantico, la verità mi tagliava come
un coltello e quando mi rendevo conto di un banale
collant o una dozzinale autoreggente e non una calza
appesa a un reggicalze, entravo nel buio fitto di un
tunnel mentale che mi toglieva ogni tipo di energia. Il
mio desiderio svaniva immediatamente, lasciandomi vuoto,
impotente non solo nel corpo, ma soprattutto nell’anima.
Con Elena, una collega restauratrice, pensavo di
aver trovato un’ancora su cui aggrapparmi. Era elegante,
il suo corpo una promessa di piacere, le sue cosce un
abisso nelle quali sprofondare. Per non fallire mi ero
insolitamente aperto con lei e davanti ad una vetrina di
un negozio di lingerie le avevo detto chiaramente quali
fossero le mie preferenze. Lei mi ha guardato con un
accenno di intesa, credevo che avesse capito, ma qualche
sera dopo, a casa mia, quando finalmente avevamo deciso
di passare una serata intima, dopo una cena perfetta e
romantica, seduti sul divano ho accarezzato leggermente
la sua gonna cercando di trovare il mio paradiso, ma
salendo e risalendo sotto il palmo della mia mano si è
materializzato all’istante un collant nero, banale,
senza vita, erotismo e lussuria. Il mio cuore si è
fermato alla stessa velocità della mia mano che aveva
raggiunto i suoi fianchi, la stanza si è ristretta, il
sangue si è condensato in infiniti stallatiti. Ho
provato comunque a far finta di nulla, a proseguire, mi
dicevo che non potevo perderla, che era una donna
fantastica, colta, sensibile all’arte, sensuale, e che
di certo me ne sarei pentito, ma in realtà non sentivo
niente.
Elena era lì, nuda, bellissima, la sua
pelle liscia, il suo corpo come una venere, ma senza il
reggicalze era come un quadro senza luce, una crosta
d’autore di un falsario. “Cosa c’è che non va?” Mi ha
chiesto distesa sul letto con le gambe accoglienti. Non
potevo dirle la verità. Dentro di me, una voce urlava:
“Perché non riesco a desiderarti? Perché sono così
sbagliato?” Alcuni giorni dopo mi ha mandato un
messaggio sul telefono con scritto che le dispiaceva, ma
non si sentiva desiderata come donna. Insomma mi ha
lasciato perché convinta di non essere abbastanza. Mi
sono odiato per averla ferita.
Poi c’è stata
Martina, incontrata per caso in un bar. Gonne a tubino
aderenti, tacchi alti, calze velatissime e un’eleganza
che mi faceva tremare. L’ho corteggiata con un’urgenza
disperata, come se potesse redimermi e farmi dimenticare
in fretta Elena. A lei non ho confidato la mia mania,
certo che davanti a quella femminilità ne avrei potuto
fare a meno. Mi ripetevo: “Ludovico, non puoi fallire, è
la tua ultima possibilità.”
Una sera, a tavola
in un ristorante bohemienne, seduti uno a fianco a
l’altra ho intravisto il bordo della sua calza nera. Il
mio cuore è esploso, e nonostante fossi sicuro che non
portasse il reggicalze, non ho resistito. La mia mano,
nella remota speranza di un miracolo, è salita lungo la
trama di quel nylon, ma si è ritratta subito dopo. Al
mio tatto un paio di autoreggenti, fredde, senza pizzo,
senza ganci, senza poesia e sensualità! Il desiderio si
è spento, e con lui la mia capacità di soddisfarla. A
casa ho provato a fingere, ma il mio corpo mi ha
tradito. “Non mi vuoi?” Ha chiesto Martina con gli occhi
pieni di apprensione. “Sei perfetta!” Ho mentito, ma
dentro di me infuriava una tempesta: “Perché non posso
essere normale? Perché questo feticcio mi controlla e
segna inevitabilmente le mie serate mandando all’aria
ogni mio proposito?” Dopo quella sera, per la vergogna e
il timore di svelarmi, non l’ho più cercata.
Nel
mio cervello malato avrei voluto una donna che intuisse
autonomamente senza bisogno di chiedere la potenzialità
di quel feticcio, anche perché la mia semplice richiesta
di indossarlo svaniva e depotenziava la carica stessa di
quell’oggetto, per cui nei miei diversi incontri non
avevo mai chiesto ad una donna di indossarlo. O c’era o
non c’era, questa era la discriminante, ma anche la
misura con la quale giudicavo la femminilità della
donna!
Ho provato a parlarne con Lino il mio
compagno di doppio a tennis. Lui aveva conosciuto sia
Elena che Martina, e quando gli ho confidato dei miei
fallimenti, mi ha guardato con un’espressione piena di
pena: “Ma tu sei matto!” Ecco, non mi ha detto altro!
Forse davvero avevo bisogno di cure e ogni volta, il
conflitto interiore mi dilaniava. Quelle donne erano
splendide, dei veri monumenti alla femminilità, ma senza
il reggicalze diventavano vuote, come se avessero un
corpo senza l’anima e automaticamente diventavano un
niente vicino allo zero assoluto. Insomma non erano
femmine!
Mi odiavo per questo, per non riuscire
a desiderarle, per vedere nei loro occhi la confusione e
nei miei un enorme rifiuto. “Cosa ti manca?” Mi
chiedevo, e l’altro me taceva, soffocando una verità che
mi strangolava. Mi chiedevo se fossi malato, se fossi
destinato a rimanere solo, prigioniero di un’ossessione
che mi rendeva alieno ed estraneo anche a me stesso.
L’unico sollievo lo trovavo girando per vetrine e
negozi. Entrare in una boutique di lingerie era come
rifugiarmi in un tempio o come incontrare un vecchio
amico che ti capisce e sa tutto di te. Camminavo davanti
a quelle vetrine, come su un sagrato di una chiesa, il
respiro corto, gli occhi che divoravano il pizzo di
Cantù, i fiocchetti di seta, i ricami perfetti,
l’abbinamento sobrio dei colori tenui, i ganci dorati
che promettevano il Paradiso. Affascinato rimanevo ore
in contemplazione immaginando la donna che lo avrebbe
indossato e non spostando mai lo sguardo da quella
fissazione.
Una volta, in via Montenapoleone, ho
fissato un reggicalze nero con ricami floreali per così
tanto tempo che la commessa cortese si è sentita in
dovere di chiedermi se stessi bene. Nella mia ossessione
avrei voluto chiederle se lo avesse indossato per me, ma
poi per l’imbarazzo l’ho comprato pregandola di farmi un
pacco regalo per non destare ulteriori sospetti. L’ho
portato a casa come fosse una reliquia. Ogni acquisto
era una tregua, un momento in cui il mio feticcio era
mio, senza delusioni e senza giudizi. Ma anche lì, il
conflitto mi seguiva: “Perché ne ho bisogno? Perché non
posso liberarmi?”
Quello però non era stato il
mio primo acquisto. Dopo l’esemplare vintage comprato al
mercatino di Porta Genova, il primo in assoluto lo avevo
comprato a Firenze. Ero in quella città per un convegno
d’arte ed anche per disintossicarmi dalla mia mania, ma,
passeggiando per Santa Croce, una vetrina di lingerie,
come uno spacciatore che ti vende droga, ha richiamato
la mia attenzione. Sono entrato e con il cuore in gola
ho scelto la mia dose, un modello rosso, intrigante, con
i nastri di velluto e sei gancetti dorati. La commessa
lo ha avvolto in una carta velina ed io mi sono sentito
mancare quando, estasiato dalla grazia, ho visto le sue
unghie lunghe smaltate di rosso accarezzare quell’ostia
sacra.
In albergo l’ho guardato per ore,
accarezzando i dettagli con le dita tremanti. Non avevo
nessuno a cui regalarlo, ma non importava: era perfetto,
un oggetto di bellezza che esisteva per se stesso e
soprattutto era tutto mio! Eppure, anche allora, sentivo
una voce dentro di me: “È sbagliato? È troppo?”
Le delusioni si accumulavano, e mi sentivo sempre più
estraneo e distante da tutti, certo che donne e uomini
mai mi avrebbero compreso. Insomma nutrivo una specie di
amore e odio verso quell’oggetto tanto desiderato, ma
che inesorabilmente mi allontanava da tutto il resto
ovvero dal bisogno di essere normale e quindi accettato
dal mondo.
I primi segnali
Così, una sera, ho fatto qualcosa di impensabile. Nel
silenzio della mia ossessione ho aperto il cassetto
della mia collezione di decine di reggicalze, di cui
alcuni ancora nelle confezioni. Rapito da quella
bellezza ho scelto un modello vintage, pizzo nero con
ganci d’argento, formato da una fascia di seta nera,
morbida come un sussurro, che si adagiava liquida tra le
mie dita. La superficie interna era foderata con un
sottile strato di cotone nero e sulla parte esterna, la
seta era impreziosita da un pizzo Chantilly nero. Quel
pizzo era un intricato intreccio di motivi floreali, con
rose stilizzate in un disegno barocco. Al centro della
fascia, un piccolo fiocchetto di raso nero aggiungeva un
tocco di civetteria femminile.
Con le dita
tremanti seguivo l’andamento sinuoso dei nastri che
terminavano in ganci di metallo placcati in argento e
coperti ognuno da un fiocchetto di seta lucida. Ogni
gancio era decorato con un minuscolo cristallo
Swarovski, incastonato come un gioiello, che scintillava
appena nella penombra della mia stanza da letto.
Con le mani ancora tremanti l’ho indossato, avvertendo
una sensazione unica con la seta che scivolava sulla mia
pelle come una carezza, fresca e liscia, mentre il pizzo
leggermente ruvido, amplificava il contrasto e la
consapevolezza di ogni movimento. I nastri, con il loro
lieve peso, oscillavano appena, e i ganci tintinnavano
debolmente emettendo un suono simile ad una melodia
segreta e coinvolgente.
Non ero una donna ovvio,
ma il reggicalze mi trasformava, mi faceva sentire parte
di quel culto che veneravo. Era una liberazione certo,
ma anche un nuovo tormento. “Chi sono diventato?” Mi
sono chiesto davanti allo specchio. “È questo ciò che
voglio? E se gli altri sapessero della mia ossessione?”
Eppure, in quel momento, il reggicalze era tutto: la mia
identità, il mio desiderio assoluto, la mia verità.
Sconvolto ho rimesso tutto a posto, ma il giorno
dopo la mia ossessione era di nuovo lì, che mi chiamava
ed è stato in quel momento che mi sono reso conto di
quanto fosse impari quella lotta. Una sera, invitato al
vernissage di un amico artista, ho deciso di spingermi
oltre. Ho scelto un reggicalze discreto, nero, con pizzo
sottile e ganci minimali, e l’ho indossato sotto i
pantaloni di un completo scuro. Non so cosa mi abbia
spinto: forse il bisogno di portare il mio segreto nel
mondo, di sentirlo vivo ed animato sulla la mia pelle in
mezzo alla gente.
Ovvio non era solo una
sensazione fisica, ma anche mentale. Ogni passo era un
rischio, il pizzo che sfiorava la mia pelle, i ganci che
premevano leggermente. Il cuore mi martellava, la paura
mi stringeva la gola: “E se qualcuno lo avesse notato? E
se i pantaloni avessero tradito il mio segreto?” Ma
c’era anche un’eccitazione, una sfida a me stesso, una
voce che sussurrava: “Questo sei tu. Non nasconderti.”
Tra calici di Prosecco e chiacchiere sull’arte
moderna e surrealista, ho visto Sophie, una vecchia
amica francese che non incontravo da anni. Sophie era
sempre stata una donna libera e magnetica e pure in quel
momento non smentiva la sua essenza femminile. Gonna
longuette, tacchi alti, una camicetta leggera da cui
traspariva la sua prima sensuale, un sorriso che
catturava ogni sguardo.
Abbiamo iniziato a
parlare, rievocando i vecchi tempi del mio soggiorno a
Parigi. Rideva, mi sfiorava il braccio, e io sentivo il
reggicalze sotto i pantaloni, un segreto che mi rendeva
audace e in un certo senso rivale e competitivo, ma allo
stesso tempo mi inchiodava a un terrore paralizzante.
Ecco in quei momenti non sentivo per nulla il bisogno di
conoscere se Sophie indossasse il mio feticcio
preferito, la consapevolezza di indossarlo era più che
sufficiente per non dipendere dagli altri. Dentro di me,
comunque, due voci si scontravano: una mi spingeva a
seguire Sophie, a lasciarmi andare e vivere il momento,
l’altra invece mi urlava di fuggire. Quando mi ha
invitato a casa sua per continuare la serata, ho
accettato, ma il mio stomaco era un nodo di angoscia.
Da Sophie, l’atmosfera si è fatta subito densa e
carica di tensione. Luci soffuse, un bicchiere di
Bordeaux, la sua voce che scivolava come seta. Ma io ero
un relitto dilaniato dal conflitto interiore. Sapevo
cosa sarebbe successo: lei si sarebbe avvicinata e io
avrei dovuto affrontare e svelare la mia ossessione.
Quando mi ha preso la mano e mi ha guidato verso la sua
alcova, il mio cuore era un tamburo, la mente un caos.
“Scappa!” Urlava una voce. “Non puoi darle ciò che
vuole.” Ma un’altra voce, più oscura, mi tratteneva: “E
se fosse diverso? E se questa volta non fallissi? E se
potessi sentirmi normale, per una volta?”
Sophie
ha iniziato a spogliarsi, i suoi capezzoli turgidi
brillavano come punte di stelle, la stanza girava, il
mio petto era stretto in una morsa, ma poi, seduto sul
letto, in un momento di follia, ho deciso di non
nascondermi più. Se dovevo crollare, che fosse con la
verità. Se dovevo essere rifiutato, che fosse per ciò
che ero.
Appoggiato alla spalliera del letto, con
le mani che tremavano e il sangue che mi pulsava nelle
tempie, ho iniziato a togliere lentamente i pantaloni.
Ero cosciente che ai suoi occhi avrei creato stupore se
non disgusto. Poco dopo il reggicalze, nero e discreto,
era lì, esposto. L’imbarazzo mi ha travolto come
un’onda, il volto in fiamme, il respiro corto. Non
riuscivo a guardarla, temevo il suo giudizio, la sua
risata, il suo ribrezzo. Dentro di me, il conflitto
infuriava tra la paura di essere giudicato e l’apparire
come realmente fossi.
Sophie è rimasta immobile,
attonita, il suo sguardo fisso su di me. “Ludovico…” Ha
detto in un misto di sorpresa e incertezza. Il silenzio
che è seguito è stato un coltello, ogni secondo
un’agonia. Mi aspettavo che mi cacciasse, che mi
chiamasse folle. Invece, dopo un’eternità, si è
avvicinata. “Non capisco…” Ha detto. “Ma… è
interessante, non so... forse mi eccita.” Non trovava le
parole, ma nel contempo non c’era condanna nei suoi
occhi, solo una curiosità che mi ha spiazzato. Ho
balbettato, la voce rotta: “È ciò che sono, Sophie. Non
so spiegartelo, ma… è la mia vita.” Lei portava un
banale collant, ma è successo lo stesso, anche se con
poco trasporto nei suoi confronti. Mi diceva: “Mi stai
facendo vivere una mia prima volta, prendimi!” Ed io per
mantenere accesa la passione ogni tanto mi guardavo e
alla fine mi sono reso conto di aver fatto l’amore con
me stesso.
Quella notte non mi sono sentito un
irregolare, un pervertito, ma un uomo con un segreto
che, forse, non era così terribile. Per la prima volta
ho sentito una specie di strana competizione interna,
come se la femminilità fosse qualcosa di diverso dal
sesso e di certo non una sua prerogativa in quanto
donna. Eppure, dentro di me, il conflitto non si è
spento: “È abbastanza? Sarò mai libero da questa
ossessione?”
Non ho più rivisto Sophie. Ovvio lei
era una mente libera e quindi un’eccezione. Ma grazie a
lei, quella notte mi aveva segnato. Ho smesso di cercare
relazioni, di inseguire donne che non potevano capire.
Vivevo per il mio feticcio, per le serate in solitudine
davanti allo specchio, per i nuovi pezzi che
arricchivano la mia collezione. Ogni tanto, indossavo il
reggicalze sotto i pantaloni, uscivo di casa, mi sedevo
in un bar e mi sentivo vivo sentendo la stoffa sulla mia
pelle e i ganci che mi ricordavano ad ogni passo la mia
unicità.
Mi ripetevo che non era solo un
indumento, ma un simbolo di seduzione, un’icona di
eleganza e trasgressione che non tutte le donne potevano
provare. Ogni dettaglio era un richiamo alla femminilità
che veneravo, ma anche un riflesso della mia identità,
un ponte tra ciò che desideravo e ciò che ero. Insomma
un mio segreto che portavo con me come un talismano. La
seta e il pizzo erano un promemoria della mia solitudine
e della mia devozione, un simbolo che incarnava il mio
conflitto interiore: bellezza e isolamento, desiderio e
rifiuto, libertà e prigione.
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Questo racconto è opera di pura
fantasia. Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e qualsiasi
somiglianza con fatti, scenari e persone è del
tutto casuale.
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