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RACCONTO

LIBERAEVA
BAGNI GIUDITTA
MI SONO FATTA BIONDA
“Mi rendo conto che sono solo lamenti di
una piccola borghese in cerca di compassione, che conosce il latino
ed ha studiato la storia. Ma a che serve se poi non faccio altro che
guardarmi allo specchio ed essere perfettamente uguale a ciò che gli
uomini vogliono vedere?”"

Stasera finalmente siamo
tutte e tre da sole, in un pub del centro divoriamo
birra e margherite. Bagni Giuditta fa il turno e
dall’agenzia nessuna chiamata. Neanche un festa di
compleanno o che so io un imprenditore di Udine che
cerca di allungare la notte. Fanny è arrabbiata non
parla, non scherza, detesta non lavorare. S’è truccata
come se avesse un dopocena già pieno, come se in questo
locale ci fossero occhi e mani che l’aspettano fuori.
Mi guardo intorno e sono solo ragazzini, feste di
scuola che consumano in un bacio la voglia d’amore. Ma
Fanny in questo momento arriverebbe anche a quello. La
guardo e la vedo smagrita, fissa e rifissa frenetica
l’ora sul telefonino, poi scrive messaggi e s’incazza.
Chissà questa sera dove sarà il suo uomo? Dopo che per
giorni e giorni le ha tolto il fiato, consumato la carne
e prosciugato il portafoglio. Ma lei non parla, mi
guarda sprezzante. Come se fossi io la colpa!
Continuamente si volta verso l’uscita.
Chiama il
cameriere. “Ti avevo ordinato una birra! Non il tuo
piscio riscaldato!” S’accende una sigaretta anche se
nel locale non è permesso fumare. “No non la voglio
più, non mi va più di mangiare, portami solo un
posacenere.” Dove sarà finita Fanny? Dove sarà
finita la musica africana dei suoi seni che per mesi
come tamburi avrei voluto battere, avrei voluto
sentirmeli addosso e farmi saltare i timpani. Dove sarà
finita l’estate dei suoi occhi dove ho visto bambini
incoscienti giocare, la sua faccia impertinente e senza
regola. Ora eccola qui, come una semplice donna
incazzata col mondo, che fa scontare al mondo e a sé
stessa le pene d’amore. Uno stupido amore che l’ha
minata di dentro ed ora servirebbe solo sfiorarla per
sentirne il fragore.
Mentre io e Marta ci
sfioriamo sotto il tavolo, vorrei dirle se si rende
conto che quel tizio è soltanto un uomo! Per un uomo sta
soffrendo e magari non ha soldi nemmeno per pagarsi una
pizza, una birra che solo il suo palato ne sente il
calore di piscio. Io e Marta come al solito ci
sentiamo comparse, come al solito lasciamo che ci
imponga l’umore della serata, ma in fondo, in fondo
stiamo bene perché abbiamo trovato entrambe un’amica,
anche se di quella sera in cucina nessuna dei due ne ha
più parlato.
Oggi pomeriggio sono stata a casa di
mia madre, mi sono portata Marta per non farmi
convincere. Mio padre ha alzato un attimo lo sguardo dal
suo giornale, come se avessi in mano un litro di latte,
come se non mi vedesse che da minuti. Erano due mesi che
non mettevo piede in quella casa! Mia madre in crisi
profonda per un chilo di troppo ci ha accolto con la
tovaglietta degli ospiti sotto tre tazze bollenti di tè.
Ci ha chiesto se ci vedevamo anche di notte. Come dire,
un modo discreto per informarsi sul mestiere di Marta e
cercare un’improbabile complicità. Poi ha cominciato a
parlare di sé stessa, quel chilo in più allontanava i
propositi di separazione. Perché quel grasso le aveva
tolto la forza di affrontare mio padre! Ma ormai ne era
certa, prima o poi avrebbe fatto il grande passo.
Accennò, senza vergognarsi poi tanto di Marta, ad un ex
compagno di scuola, disponibile nelle notti più lunghe
perché sua moglie faceva l’infermiera. E poi al
venditore di tappeti che ancora la chiamava ad ogni suo
ritorno dalla Cappadocia, ed una relazione iniziata la
sera prima con un cantante di lirica. Eccola mia
madre, quella che avevo sempre conosciuto. Eccolo il suo
ottimismo incosciente. Il vedere in qualsiasi uomo che
le rivolga una misera parola la cura dei suoi tanti
malesseri, il tappo delle sue insoddisfazioni dilaganti.
“Allora questa cazzo di birra?” Fanny mi sveglia dai
miei pensieri. Continuamente tira su col naso e va in
bagno. “Oh no Fanny, questo non è giusto!” Mi guarda
come se non avesse altri nemici, come se fossi l’essere
più spregevole mai visto. “Ma tu che cazzo ne sai di
quello che ho dentro?” Si rivolta come una bestia.
“Proprio perché lo intuisco e non voglio arrivare alla
fine del pensiero.” Calma rispondo. “Ma che cazzo
dici? Parla chiaro!” “No Fanny, ti prego, lascia
perdere. Ricordo solo il pretesto per cui abbiamo
cominciato. Respirare aria pura di mare, invece di
imbottirci di schifezze in discoteca.” Marta mi
guarda e non capisce, le fa strano pensare che una
puttana non abbia cominciato per soldi, che eravamo due
stupide bambine con la noia dentro il cuore. “Fanny
ti prego, non urlare!” Ma lei è invasata, quasi quasi
scopre la sua quarta misura proprio lì davanti. “Queste
sono pure! Se hai appena qualche soldo … le dovresti
almeno baciare per riconoscenza. Cara mia lesbica! Altro
che amore!” Non mi dà tempo di rispondere, dopo
neanche un minuto è di nuovo di buon umore, remissiva,
come un cane dopo aver sbranato un uomo, fa progetti per
la serata. Come se non m’avesse colpita, come se fosse
tutto così naturale.
Squilla ancora il
telefonino. E’ il suo uomo che dopo cinque minuti ci
raggiunge. Lo vedo e mi sento male. E’ brutto, tarchiato
con le mani grasse, quattro peli da riporto sulla testa.
Oddio Fanny, ma come hai fatto! M’escono parole senza
fiato. Lei è già un’altra, i suoi occhi sono fari
abbaglianti, la sua pelle liscia e distesa. Ci presenta
come due amiche. Mentre si baciano senza un attimo di
respiro, lui la cerca e le sfiora una tetta. La stessa
che per mesi era stato il mio cruccio e il mio ciuccio,
la stessa che poco prima avrebbe offerto a qualunque
ragazzo per una margherita e una birra. Io quell’uomo
non l’avrei accettato neanche come cliente, neanche se
mi avesse offerto il doppio della tariffa che chiedo.
Invece ora le sue mani più pelose della testa sfiorano
avide quel corpo da modella. Imbarazzata mi alzo e loro
smettono immediatamente. Oscar, non poteva avere
nome più brutto, mi guarda da sfida e sorride. “Ah tu
saresti la sua amichetta?” Mi sento avvampare. “Dai
Oscar smettila.” Dice Fanny senza energia. Ma lui
eccitato scopre l’altra tetta. “Scommetto che muori
dalla voglia d’assaggiarla.” Solo ora mi accorgo
quanto l’amore possa distruggere una amicizia e quanto
Fanny mi abbia sputtanata. “Dai smettila!” Anche
Fanny s’accorge che sta andando oltre. Ma lui è lì
che rincara la dose toccando tette senza che ora la sua
mano abbia un pizzico di voglia, ma solo per ribadire ai
miei occhi d’essere l’unico, d’essere il più potente e
il padrone indiscusso di quel corpo.
“Dio Fanny
come ti sei ridotta!” Lo penso ma non lo dico perché
sono già fuori, Marta mi segue, Fanny non potrebbe mai
farlo. M’accarezza i capelli, ora sa tutto. Anche se non
era questo il modo, la forma per farglielo capire.
Di fuori si sente settembre, rade bancarelle offrono
residui di mode di un’estate passata. Ci appoggiamo su
un muretto. Le nostre scarpe da tennis sospese danno
calci all’aria e non fanno più voglia. M’accorgo che è
lo stesso muretto dove tempo fa una ragazza che sapeva
il latino s’appoggiava contro uno sfondo di stelle,
convinta che quella era la sua strada, quello il pezzo
d’asfalto per sentirsi regina proprio davanti ai Bagni
Giuditta. Ma sapeva che non l’avrebbe portata lontano,
che per sentirsi importante non c’è bisogno di uomini
che colano piacere. D’essere la stella più bella che
brilla mentre l’alba si spiega e qualcuno indomito per
tutta la notte ti continua a svasare la gonna.
Marta mi stringe la mano ed io mi sento più vecchia. Che
serve ora sapere la causa del mio destino e perché mi
trovo a quest’ora di notte con una russa che non riesce
a capire quello che cazzo dico. Non si tratta
d’italiano! Non si tratta di latino! E’ l’amore che
cerco e non è scritto sui diari di scuola, non è nelle
telenovele che vede mia madre, nello shampoo della sua
parrucchiera che ogni giorno le tormenta i capelli.
È qui, dentro questo tombino che raccoglie rifiuti di
acqua piovana. Solo che, mi rendo conto, non riuscirò
mai a trovare le parole per spiegarlo alla russa e
magari a me stessa. Cosa vado cercando tra le bassezze
degli uomini? Dentro quelle mutande che non sanno di
violetta? Cosa cerco nella mia carne quando una patina
d’umido ricopre i Bagni Giuditta?
Sarà che i
pensieri che mi girano attorno non sono gli stessi di
quando mi sveglio, sarà che non hanno ragione o meglio
ragionano senza che il cervello ne tiri le fila. Come
questo tombino m’abbandono e respiro tutti gli odori che
produce la notte. Il mestiere lì è a portata di mano e
quegli stivali in vetrina sono come una siringa piena di
buono per un drogato che vuole smettere, come il tesoro
del Sultano per un ladro che s’accorge che non c’è
nemmeno un allarme.
Marta tu mi chiedi di
parlare! Ma che ti dico? Che la notte è un buco nero,
che è aperta e slabbrata come le mie cosce. Che cazzo ti
dico a quest’ora di notte? Che mi sento soltanto un nido
d’uccelli, che potrei farli volare, scappare, perché, ti
giuro, altro non so fare! Mi rendo conto che sono
solo lamenti di una piccola borghese in cerca di
compassione, che conosce il latino ed ha studiato la
storia. Ma a che serve se poi non faccio altro che
guardarmi allo specchio ed essere perfettamente uguale a
ciò che gli uomini vogliono vedere? Tu sì che avresti
storie vissute! Tu sì che mi potresti raccontare come
sei finita qui e a quanti stronzi hai dovuto obbedire e
quanto è durato il tuo viaggio e se i chilometri che hai
fatto sono più o meno gli uccelli dei camionisti che hai
visto. Mentre io qui ho confuso per anni l’amore col
sesso fino a convincermi che l’amore, quello vero, nasce
e s’alimenta solo dentro questa fogna. Hai voglia a dire
che tutto questo è un gioco e che tutto potrebbe
cambiare, che se solo volessimo domani sarebbe un giorno
diverso. Ma la puttana è come un malato, non può
prescindere da quello che ha dentro, da quello che
interno le cola. Che significa essere ex puttana? Come
se un omicida fosse un ex assassino, come se tutte le
voglie infeconde che m’hanno deposto potessero domani
generare dei figli.
Magari vestirmi di bianco e
fare l’amore con Luca e pensare che è il primo come
davvero solo lui ci crede. Sentirmelo dentro giurando
che ha una forma diversa. Che non è un pene! Che non è
un maschio! Che davvero di niente, d’uguale avevo mai
sentito tra le mie pieghe ristrette. Che cogliona che
sono! M’illudo cosciente di mentire anche a me stessa!
Che cazzo ti dico Marta? Che mi sono fatta bionda come
se cambiasse qualcosa! Tanto sono e resto quella che
sono, perché quello che vale non è di certo il trucco o
il colore dei capelli, ma è come metto la bocca e quanta
saliva ci metto tra le cabine dei Bagni Giuditta.
Cazzo, ma che ti dico Marta? Che per me ogni uomo è
cliente e nessuna puttana si ritrova l’anima in mezzo
alle gambe. Sarà dura domani, ma io ci provo a
svegliarmi, sarà dura perché con queste scarpe da tennis
poco ci azzecco, perché con questa gonnellina che mi dà
gli anni che porto non riesco nemmeno a guardarmi allo
specchio. Sarà dura perché Fanny è davvero lontana e mia
madre fa finta di aspettarmi pensando al suo venditore
di tappeti.
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Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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