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RACCONTO

LIBERAEVA
BAGNI GIUDITTA
I rifiuti di notte
"Marta ha tra le mani un filo di perle,
lo gira tre volte attorno alle dita, nell’attesa lo sgrana, ma non
sono preghiere, ogni cinque s’impunta sulla perla più grossa."

Marta ha tra le mani un filo
di perle, lo gira tre volte attorno alle dita,
nell’attesa lo sgrana, ma non sono preghiere, ogni
cinque s’impunta sulla perla più grossa. Parla una
lingua che nessuno conosce, i suoi santi hanno barbe e
lunghi capelli, belli da volerli sposare, grandi
d’averne timore. Ha due seni accennati per ricordarsi
che è donna, due per al mercato che non comprerebbe
nessuno. Porta con sé due scarpette da bimbo, ma non ho
ancora capito se è un figlio o un aborto, se in qualche
casa di Mosca vive una madre che tiene a bada i suoi
affetti. Porta una fede all’anulare sinistro, chissà se
ha avuto mai un marito, chissà se è rimasto al freddo
oppure è da queste parti magari in galera. Marta ha
gli occhi di mare e la nostalgia che ci galleggia li
rende più belli. Chissà se pensano a suo marito, se il
padre del bimbo è la stessa persona. Ma ogni tanto
sgrana i suoi occhi mi dice che ha bisogno di soldi e
deve lavorare. La guardo fissa: “Ti va di battere sulla
Nazionale?” Non se lo fa ripetere due volte.
Ha
un paio di stivali lucidi rossi che sanno di mignotta,
una pezzo di stoffa che lei chiama gonna che la fa
ancora più nuda. Si sente bella, ma contro i fari di
notte luccica come una mortadella in vetrina, come un
cartellone luminoso che ti invita in Egitto. Ma quale
Egitto? È troppo magra per fare il mestiere, ma forse
per questa clientela credo faccia il suo effetto, sempre
che quegli occhi di voglia non le puntino il seno.
Marta ha le labbra screpolate dai tanti dai e dai ai
Bagni Giuditta, dalle poche notti di lune intatte
servite per mangiare. Dopo ogni giro le copre di
rossetto, luccicanti alla luce come i suoi tacchi di
lucido rosso, perché siano ogni volta più nuove e diano,
a chi dubbioso, l’irrefrenabile desiderio di volerci
rientrare. Perché chi passa da queste parti l’ha
conosciuta già una volta, ha il sapore della sua bocca
impresso tra le mani. Perché Marta succhia le dita prima
di inginocchiarsi sull’asfalto ed alle volte basta
questo per meritarsi il prezzo intero, ed alle volte
basta un seno che l’altro lecca e sa di poter
continuare.
Marta non è bella, ha la carne bianca
che si vede in trasparenza, venata come linee della mano
che le solcano il destino. Ha l’anima tra le gambe e i
polmoni intrisi di catrame, ma fa code lunghe quanto è
lunga una statale, perché nella penombra che riflette il
suo sesso è biondo come è nudo il suo cuore. La sua
andatura di zoccola e pelle è un insulto alle voglie di
palati sopraffini, ma sopra questa strada, davanti ad
un’insegna di gomme e benzina, basta un buco col
contorno, un’ombra che respiri dentro un’alba già
vicina.
Il ragazzo di colore addetto alla pompa
ci chiede una sigaretta e già pensa come lieviteranno i
suoi affari, i tanti comuni clienti che faranno amore e
benzina. Al primo accenno di coscia si ferma un
camionista, ubriaco ci offre la metà di quello che
chiediamo. Marta vorrebbe, ma io la trattengo. Fanny non
avrebbe mai accettato di vendersi per un briciolo di
pane, di respirare fiati di vino senza il giusto
compenso che tura il naso ed allarga le cosce.
Qui è proprio diverso dai Bagni Giuditta, le macchine
che passano sollevano le gonne, come se ci umiliassero
spogliandoci nude. Quelli che si fermano hanno un viso
assassino, un velo di sporco che sa di maniaco, come se
sotto al parasole dovesse spuntare un coltello, come se
tra le dita luccicasse del sangue d’una puttana caricata
da poco. Mi sento in balia, in precario equilibrio su
questi tacchi che mostro. Qui non c’è poesia, non c’è
mare, non ci sono le cabine dei Bagni Giuditta. Le mie
tette non hanno il sapore d’un nido d’uccelli, tanto
meno le mie cosce danno il calore di una tana. Siamo
solo due figure che battono un marciapiede a quest’ora
di notte, non c’è erotismo, un dettaglio di trama di
calze che scompare sotto la gonna. Un fragile filo di
perizoma che ti induce e t’invoglia a spostarlo quel
tanto che basta e che qualsiasi uomo ai Bagni Giuditta
ne apprezzerebbe l’effetto contro la luna. Siamo due
disperate che trattano un prezzo, due rifiuti a forma di
donna trascinate ai bordi come cartacce e immondizie.
“Marta andiamocene.” Lei mi guarda ma pensa solo al
suo aborto oppure a suo figlio. Un altro tir si ferma e
ci fa ombra, Marta sale ed io non voglio lasciarla da
sola. Salgo anch’io. Il camionista ha mani grandi ed
esperte, non ci mette che secondi a tastare la preda,
quella di Marta che già pensa ai soldi. Tocca e strofina
il suo tatuaggio di cuore, ride e s’annusa le dita, poi
le lecca con gusto e ci guarda come se fossimo due
povere sceme che non hanno ancora capito cosa le
aspetta. Stringo la mi amica per aver la certezza di non
essere sola, per aver l’illusione che in due non ci
potrà capitare niente, ma l’uomo ha un ghigno da
delinquente, una puzza di prigioni straniere e due denti
di meno. Tocca l’intimo di Marta senza passione come per
tastare che sia adatto a ciò che ci aspetta, come se
fosse un regalo e non volesse fare brutta figura.
Il camion si ferma in uno sterrato di arbusti e
immondizie, al di là della siepe vedo due uomini che
spuntano, forse polacchi, forse rumeni. Il camionista
parla la loro lingua, ride di gusto come prima leccava
il dito inumidito da Marta. Ci fanno scendere,
inginocchiare davanti ai loro piaceri, ai loro pantaloni
calati che sanno di stupro. Guardo la gonna di Marta, mi
fa tenerezza vederla così candida, vedere le sue tette
accennate che sarebbero adatte alla bocca d’uno
studente.
Che faccia faranno quando ci
scopriranno le gonne, quando s’accorgeranno che le
mutande che porto non sono che un fragile filo e sono
più adatte a chi scrive poesie? Penso al peggio, che
stasera il destino parla una lingua che io non capisco,
che se avessi avuto un minimo di testa sotto questi
capelli, non ci saremmo trovate a far da preda e
contorno a questi rifiuti di notte. Ne spuntano altri
due ancora polacchi, ancora rumeni, ancora eccitati e mi
sento morire. Mani pesanti mi spogliano, odori d’alcool
straniero mi fiatano da vicino come fossero sputi. Ho
paura, Marta si è presa già un ceffone e ora piange.
Assomigliano ad un branco di cani in astinenza e nessuno
di loro ha le sembianze di uomo.
Ci dividono, mi
trascinano di peso dietro la siepe dove sono spuntati.
Più che fare l’amore vogliono solo umiliarmi, loro in
piedi ed io di nuovo in ginocchio. Non mi picchiano e
questo è un buon segno. Ridono, fanno la fila dentro il
mio rossetto oramai sbafato, poi stanchi d’aspettare
stipano contemporaneamente i loro sessi tra il mio
contorno di labbra perfetto, allungato con cura nello
specchio del bagno. Cerco di rabbonirli, do il mio
meglio trattenendo il respiro, mi viene da pensare che
se fosse tutto qui, questa violenza sarebbe pure
sopportabile con l’unica differenza dalle altre notti
che sono tre e tutti insieme invece di essere
scaglionati per ore. Cerco di non deluderli, d’arrivare
dove s’annida lo zoccolo duro del loro piacere, ma
qualcuno si stufa presto del gioco e m’infila una mano
tra le gambe. Ha un dito che sembra un uncino. Io
respiro più forte. Sono fiati strozzati di dolore
represso, lamenti soffocati che scambia per piacere e si
eccita al pensiero di farmi godere.
Sento Marta
che grida. Povera piccola voleva arrivare fino all’alba
pensando d’aver fatto il proprio dovere, quattro stupidi
soldi da mettere da parte contro il destino che la vuole
lontano. Come vorrei esserle d’aiuto! E’ a due passi da
me, la vedo, sta facendo il tonno dentro un panino, un
isolante tra due muri picchiati dal sole. Se tutto andrà
bene anche quella sarà la mia fine. E pace a quei sogni
che mi volevano intatta almeno in parte, mi volevano
vergine la prima notte con Luca.
Ed io che questa
notte cercavo poesia, ed io che parlavo con l’ombra di
Luca attenta a non farmi fottere l’anima e il cuore. Ora
sono qui, con quello più giovane che mi cerca dietro
mentre il terzo continua a farsi ammollare il piacere
ostinato. Bagno ed ammollo la preda per tentare di
metterne almeno uno fuori uso. Penso che prima o poi
doveva accadere, che il via vai sul marciapiede è una
sfida continua alle voglie represse di uomini persi che
chiamano il sesso di donna con nomi d’abitanti di fogna.
Ma poi penso che sono gli stessi che ci permettono di
comprarci stivali che riflettono ai fari di notte, che
ci fanno solo belle quando si limitano a fare il loro
dovere, di cliente, di uomo ridotto a scambiarsi le
parti più intime con un essere raccolto sul marciapiede.
Chissà per quanto potrò ancora resistere, ho paura
che le mie forze non mi sorreggano ancora per molto, che
svenendo non potrò più dargli piacere. Hanno gli occhi
cattivi e la mia esperienza è l’unica via di salvezza.
Il più giovane puzza di vino e di sporco, solo ora si è
accorto che porto un fragile filo che chiamo mutande, mi
vuole, mi brama a costo di scoparsi una morta. Mi prende
e mi sbatte a terra, mi cerca e mi sputa perché sono
troppo bella, perché si rende conto che col solo suo
sesso non potrà sentirsi mai soddisfatto. E’ un gioco
grezzo e pacchiano dove devo far finta d’essere sazia e
cacciare degli urli di dolore e passione, di puttana
ripiena, fottuta da un maschio che mai prima avevo
sentito. Ma non è così. Si muove, s’affanna ma è poca
cosa. Ho paura che s’accorga che fingo, che altri sessi
ai Bagni Giuditta m’hanno fatta gridare davvero.
Marta ormai non grida, non geme. Povera piccola,
intravedo la sua gonnellina leggera appesantita dal
fango. Gli stanno sopra, di lato, dietro, davanti, dalle
parti della bocca che ancora si muove ostinata a dare
piacere.
Ad un tratto si sentono sirene,
s’accostano ai bordi della strada, scendono uomini
armati. Tra loro spunta un ragazzo di colore che indica
la siepe ai poliziotti. I polacchi fuggono tranne il più
giovane che ancora caparbio mi cerca. Non ho la forza di
alzarmi, ho paura per Marta, ma lei alza la testa e mi
sorride. Un poliziotto mi copre alla buona, m’abbassa la
gonna e scuote la testa. Di sicuro sta pensando che me
la sono cercata, che qualsiasi uomo a quest’ora parla
polacco davanti al mio perizoma.
Ora è tutto
finito, domani i polacchi saranno ancora qui a fare
branco sperando che un ragazzo di colore non faccia la
spia e pensi soltanto a fare benzina mentre noi a
sperare davvero che i Bagni Giuditta riaprano in fretta.
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Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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