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RACCONTO

LIBERAEVA
BAGNI GIUDITTA
GIUDITTA
"Mi piace Fanny quando si guarda allo
specchio, l’ammiro perché s’ammira, perché rimane incantata come se
dentro il vetro ci fosse una Madonna, un miracolo vivente che il
cielo l’ha scelta come testimone di bellezza. I suoi seni sono mele
verdi che mai s’arrosseranno per diventare mature, i suoi occhi sono
mare calmo di notte."

“Mamma, faccio la puttana.”
E dire che mi ero preparata un discorso a memoria
facendo appiglio alla mancanza d’affetto, alla
situazione tra lei e mio padre. E dire che sarebbe stata
l’ultima cosa da dire annunciandole prima che sarei
andata ad abitare con Fanny, che avevamo trovato una
mansarda in faccia sul mare poco distante dai Bagni
Giuditta. Mi rendevo conto che questo mestiere non
avrebbe mai visto una fine, che Fanny era troppo
importante per pensarla lontana, che dopo quel
pomeriggio prima del Plaza non avrei trovato più la
forza di partire da sola e cercarmi un destino dove lei
non fosse coinvolta.
Le labbra di mia madre
rimasero incollate al vapore della tazza da tè, i suoi
occhi cercarono il nulla, magari uno sfondo per
ripetersi quelle quattro parole: “Mamma, faccio la
puttana!” Ribadii sfrontata per il timore che non avesse
capito. Respirò profondamente per prendere tempo nel
dubbio se darmi uno schiaffo o riversarmi tutto il
contenuto della tazza bollente. Ma dopo un attimo di
smarrimento l’adagiò delicatamente sul piattino, mi
fissò negli occhi senza cercare altre parole. “Tutto
qui, solo questo dovevi dirmi?” La vedevo che in quel
momento m’odiava, ma non perché facessi la puttana, ma
solo perché l’avevo messa in difficoltà e in quel
momento non sapeva cosa dire senza riuscire a
trasformare il disgusto in una cascata di schifo. Anche
perché non l’aveva mai fatto, non ricordo negli anni
d’essere stata sgridata, picchiata. Non sarebbe riuscita
a sostenere la parte senza risultare goffa e ridicola in
quel locale così elegante che prenderci solo un tè mi
pareva uno spreco. “Buona fortuna.” Prese la borsa
senza aggiungere altro.
Rimasi a guardarla dalla
vetrina mentre attraversava la strada. Piansi, tanto che
il cameriere si avvicinò e mi chiese se avevo bisogno di
aiuto. Piansi, ma non erano lacrime di pentimento,
piansi perché avevo aggiunto un altro pensiero alla sua
vita già desolata. Perché non avevo avuto la forza di
seguirla, perché magari avrebbe voluto parlare di altro,
magari di quella cena dai nomi inventati, del suo nuovo
tailleur colore di malva oppure del suo nuovo smalto su
quelle unghie di una lunghezza impossibile.
Povera mamma che avrebbe voluto una vita diversa, una
figlia diversa per pensare soltanto a sé stessa. Non
aveva amiche, le restava solo Don Armando conosciuto ai
tempi del liceo, chissà come ora avrebbe fatto a portare
quel peso… Eh già una figlia puttana che andava a vivere
da sola per aver più tempo per aprire le cosce, per fare
il mestiere con devozione e dedicarci tutta sé stessa.
Chissà se in quel momento mentre scompariva nel buio di
un taxi sarebbe andata dal prete o magari ad un
appuntamento con qualcuno conosciuto per sbaglio al
telefono. “Cara aveva una voce da impazzire! Mi ha
chiesto di uscire, sai? Ma giuro che lo faccio aspettare
e cuocere nel suo brodo, magari fino a domani sera.”
Oppure stava pensando soltanto a sua figlia così
eterea e leggera che mai avrebbe pensato che passasse le
notti a infornare le pizze e fremere e sentirsi
soddisfatta solo quando un respiro profondo le sporcava
la gonna, solo quando con un fazzoletto di carta
ripuliva con cura la sua vittoria, mentre l’uomo ormai
cotto aveva l’ardire di strapparle un altro incontro,
magari domani, magari ancora ai Bagni Giuditta.
*****
Io e Fanny ci stiamo preparando,
questa sera dopo una settimana si ritorna ai Bagni,
finalmente lavoreremo insieme, spartirò con lei anche
quei momenti di intimità che ogni tanto per mestiere ci
vedono lontane. In quei momenti mi sento scompagnata,
come un calzino che rimane in lavatrice o come una
tavola apparecchiata senza i bicchieri dell’acqua. Mi
sento davvero quella che sono senza che l’alibi mi possa
dare la forza di pensare che senza la mia amica avrei
fatto tutt’altro.
Mi piace quando si guarda allo
specchio, l’ammiro perché s’ammira, perché rimane
incantata come se dentro il vetro ci fosse una Madonna,
un miracolo vivente che il cielo l’ha scelta come
testimone di bellezza o prototipo di donna. I suoi seni
sono mele verdi che mai s’arrosseranno per diventare
mature, i suoi occhi sono mare calmo di notte che
t’invita e t’ammalia ad entrare nel ventre, a scoprire i
fondali d’un’anima opaca che nessuno in superficie
avrebbe l’ardire di conoscerla a fondo. “Ti amo Fanny,
ti amo quanto la pena che sento di non poterti legare ai
miei sogni, magari con questo filo di phon che ora
t’asciuga i capelli.”
Squilla il telefono, esco
dal bagno, ma non sento. Nella piccola casa c’è solo il
buonumore di Fanny che canta, fuma, si depila le gambe e
s’asciuga i capelli. Ogni tanto s’interrompe, mi chiama
e mi sospira che mi vuole bella come vorrebbe un cliente
che paga. “Chissà stasera se mi metto i pendenti le
entro dritta nel cuore? Se ogni tanto le ossigeno il
sangue come lei nutre e sfama il mio sogno. Chissà
stasera se mi metto la gonna di lino le rubo lo sguardo?
Ed insieme ci contiamo i capelli, ad ogni doppia punta
un bacio sul collo, ad ogni mille ricominciamo daccapo.”
Al telefono è la voce di mia madre che mi tratta di
nuovo bambina e mi chiede se ho mangiato. Di coprirmi
perché fuori fa freddo e minaccia la pioggia, alludendo
alle mie gambe scoperte, al mestiere che diventa un
dettaglio. Dice che papà è fuori fino a sabato prossimo
e che se ho un buco da offrirle potremmo parlare in pace
e da sole. “Mamma, ma io non ho niente da
aggiungere!” Le urlo tappandomi l’altro orecchio con
Fanny che esce dal bagno e mi confonde.
Se
sapesse mia madre! Il fatto è che non mi ha dato il
tempo di spiegarle fino in fondo la mia scelta, ma poi
penso, mentre mi parla di una vicina che si è risposata,
che forse è stato meglio così, meglio non aver aggiunto
altro perché si sarebbe ritrovata in un giro d’un niente
con una figlia lesbica che fa la puttana. Chiudo il
telefono convinta che davvero non abbiamo più nulla da
dirci, che una puttana non può accettare d’essere
figlia, d’avere una madre che si preoccupa che stasera
fa freddo e di portarsi magari un golfino di lana.
Rido, pensandola ingenua, perché non immagina come la
sera mi scopro davanti e mostro le tette e mostro altro,
perché come cagna bagnata cospargo d’odori sedie, tavoli
e muri all’aperto e lascio la scia per chi cerca riparo
o un nido di caldo che apro, che slargo senza mai
portare un ombrello.
Fanny smette di depilarsi e
mi guarda curiosa. Le vado incontro e porgo ad occhi
chiusi la guancia a questa bocca perfetta che sarebbe un
peccato soltanto baciarla. Dopo un attimo di smarrimento
mi scansa perché è tardi, perché è sempre maledettamente
tardi ed io non sono mai pronta, perché perdo tempo a
parlare con una stupida madre che s’è sposata ed ha
fatto uno sbaglio ed ora la dà in giro senza beccarci
una lira. “Si può essere più cretine? Dille che ai
Bagni Giuditta c’è posto per chiunque sia disposta ad
ascoltare parole d’amore mentre odora lo sterco di cani
romantici che preferiscono la sabbia all’asfalto, una
barca ai muri sul lungomare!”
Convinta di quello
che dice, mi riviene incontro guardando l’effetto.
“Ora si sente gli scrupoli ammassati alla colpe, perché
sua figlia fa la puttana, perché avrebbe dovuto
accorgersi da sola, ed ha perso ancora una volta
l’occasione per fare la madre!” Fanny mi viene ancora
più vicina, il suo corpo odora di crema, non sono
d’accordo su quello che dice, ma in questo momento non
potrei mai contraddirla.
Con due dita mi chiude
le palpebre, sento nitido l’odore del suo rossetto che
si fonde col mio fiato sorpreso, col mio battito in gola
in attesa d’essere strozzato lì in fondo. Sento nitide
le sue mani che mi ridisegnano le braccia, che ora si
fermano, indugiano, saltellano, picchiettano i miei seni
protesi. Cazzo è la prima volta che una donna
s’impadronisce dei miei seni, ma non me ne rendo conto
che sono mani di Fanny? Mani di donna che conoscono i
contorni, che ora mi schiaccia tra la nicchia del bagno
e l’ingresso e mi dice parole di uomo. M’accarezza e si
ritrae, mi dice mignotta come tante volte ogni sera
sento quella parola da voci diverse. Ma solo ora ne
sento il velluto, la trama del suono che m’entra e mi
devasta il cervello. Mi faccio più piccola per farla
sentire potente, per darle il gusto di sbattermi al muro
e schiacciare quel piccolo cuore proteso a forma di
tette.
“Chiamami pure Giuditta, stasera non mi
offendo! Chiamami Giudy perché da stasera non c’è altro
nome che mi tenga legata, che mi faccia sentire protetta
da queste mani capienti come cabine, perché davvero come
donna sono nata in quel posto ed ogni volta rinasco dove
qualsiasi altro nome non chiamerebbe nessuno.” Apro
gli occhi per esserne certa, per vedere la montagna dei
suoi capelli che s’abbassa sul mio seno. “Fanny davvero?
Fanny amore mio!” Aspetto solo che mi dia un segno di
quanto mi vuole, che scivoli in ginocchio fino
sgualcirsi le labbra perfette dopo ore nel bagno.
“Chiamami Giuditta! Marchiami a fuoco dove meglio io
possa vederlo, lasciami un segno indelebile a forma di
labbra, perché non permetterò più a nessuno di chiamarmi
in modo diverso.” Sento il suo fiato scorrermi lento,
è fiato di donna che lentamente s’adagia e provoca
brividi all’interno. Sento le mani, sono mani incorporee
che non lasciano traccia, che non toccano pelle ma ti
scavano l’anima e fanno più male come se avessero calli
o fosse un cliente di fretta.
Ma non dura che il
tempo di ripianare il cruccio sulla mia fronte, di
distrarmi da mia madre e magari a suo modo chiedermi
perdono. Si alza e sorride, come per dirmi quanto
lungo è il guinzaglio che mi tiene stretta, che se
volessi scappare non arriverei oltre quel platano in
mezzo alla piazza, dove farci i bisogni e rendermi conto
che non ci sarebbe altro albero, altra strada per
camminarci da sola. Si alza ed è di nuovo davanti
allo specchio a raddrizzarsi la riga della calza che
incauta ho storto, a riordinarsi la frangia che per un
momento ho creduto di cambiarla di posto. “Dai
Giuditta è tardi.”
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Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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