|
CERCA NEL SITO
CONTATTI
COOKIEPOLICY

RACCONTO

LIBERAEVA
BAGNI GIUDITTA
IL SENO DELLA LATTAIA
"Marta è russa. Me la presentò Fanny ad
un tavolino dei Bagni Giuditta. Ridendo mi disse che ci sarebbe
servita per i clienti più esigenti, per quelli che dopo l’amore gli
resta l’amaro d’una voglia incompiuta, come il sapore d’una fetta di
torta senza ciliegia."

Marta è russa. Me la
presentò Fanny ad un tavolino dei Bagni Giuditta.
Ridendo mi disse che ci sarebbe servita per i clienti
più esigenti, per quelli che dopo l’amore gli resta
l’amaro d’una voglia incompiuta, come il sapore d’una
fetta di torta senza ciliegia. Ma Marta non era bella e
Fanny aveva ragione. Aveva un’andatura da contadina e
due seni appena accennati, sarebbero serviti davvero per
fare da scorta, per affollare le fantasie più ostili che
non si saziavano con quelli di Fanny, grandi come due
buste della spesa, come quelli della lattaia sotto casa
di mia madre. Marta la guardava cercando il suo assenso,
aveva due occhi verdi e grandi, così trasparenti da
scorgerci l’anima, la Russia e le tante traversie subite
ed imposte prima d’approdare ai Bagni Giuditta.
Accondiscendete rideva per un nonnulla, come per
un’inezia, pensai, avrebbe soddisfatto qualsiasi voglia,
alzato la gonna per essere all’altezza del giudizio di
Fanny. Lungo la mia schiena fece attrito un brivido di
gelosia, lungo le labbra marcate di Fanny un piccolo
bacio di riconoscenza.
La prima volta che
capitammo insieme cercai d’insegnarle i ritmi del
mestiere, di riconoscere il momento preciso per
abbattere la preda ed accompagnare il piacere fino a
farlo salire, per poi dare tutta sé stessa nell’attimo
che non permette distrazione. Nel momento dove non ci
sono più parole ma soltanto sussurri, dove non c’è più
poesia, ma soltanto un movimento meccanico che governi e
ti fai governare come un naufrago tra le onde, come un
uccello migratore che si riposa volando. Mi piaceva
l’idea di fare l’esperta a vent’anni, insegnarle che gli
uomini sono come il potere, i loro peni delle barche:
“Le più piccole dirigile al fiume, le più grandi sanno
già dove andare!” Le ripetevo ogni volta quando in
difficoltà mi chiedeva un aiuto cintando una frase di
chissà quale canzone. Mi fissava curiosa con lo
sguardo di chi non capiva, perché al suo paese bastava
aprire le gambe per sentirsi una vera mignotta, bastava
uno sguardo per ritrovarsi nel bagno di una birreria
fumosa o su un pezzo d’asfalto dove gli uomini fanno il
giro ed a ogni passaggio ti chiedono un piccolo sconto.
Mi faceva sentire bene, perché disponibile, perché aveva
voglia di imparare, perché aveva una ruga sotto gli
occhi di sofferenza e solitudine. Fanny la ospitò a casa
nostra, la mia amica era sempre generosa ai primi
approcci, per poi riprendersi a mano a mano tutto il
dovuto. Passai i primi giorni a truccarla ed a vestirla,
aveva le mie stesse misure ed io cataste di scarpe e
vestiti simile ad un banco dell’usato la domenica
mattina. Ad ogni cappello mi sorrideva allo specchio, ad
ogni paio di scarpe mi ringraziava felice.
Fanny
in quel periodo l’avevamo persa di vista, era alle prese
con un direttore di banca che secondo lei si era
innamorato dei suoi capelli flashati, che secondo noi
stava solo cercando di coprire l’ammanco dilapidato ai
Bagni Giuditta con una nostra collega. Anzi eravamo più
che certe visto che da qualche tempo Fanny era sempre a
corto di soldi, mentre noi la vedevamo lavorare ogni
sera senza un attimo di sosta. Io ne soffrivo pensandola
nelle braccia avide di quell’uomo, tanto che una sera
prima che uscisse cercai di guardarla negli occhi:
“Giuditta non mi rompere le palle, so quello che
faccio!” Mi zittì facendomi intuire tra il line-liner ed
il mascara che si stava innamorando. Per non ammettere
la sua debolezza mi urlò contro parole volgari, dopo tre
secondi era già fuori la porta, pazza ed invasata per
chi non la pagava.
****
Ora sono qui con Marta che sta cucinando, l’odore
d’arrosto mi gonfia di emozione, sa di famiglia, di
quando ero piccola, di mio padre e mia madre che si
baciavano davanti ai miei occhi. Marta ha trasformato
questo dormitorio in una vera casa. Con il grembiule ben
allacciato mi domanda stentata: “Perché ti preoccupi
tanto di Fanny? Forse non è vero quello che pensiamo!”
La guardo sorrido e non rispondo. Lei non conosce i miei
sentimenti, non sa quanto ora vorrei essere ai Bagni,
riempita e svuotata dal direttore di banca, pur di stare
vicino a Fanny e concederle un attimo di pausa quando si
passa due uomini alla volta per fare piacere e denaro al
suo amante che chiede. Che ne sa quanto sarei disposta
ad umiliarmi, ad essere trattata peggio di sempre? Per
Fanny andrei nuda nel culo della notte sobbarcandomi
bande di voglie che cercano un buco. Mi darei gratis per
chiunque la sfrutti, per la sua testardaggine, per
dimostrarle quell’infinito di bene che ora mi comprime
il torace. Rinuncerei ad un anno dei miei guadagni, a
questo paio di stivali che allaccio con cura fino
all’ultimo buco sotto il ginocchio.
Marta mi
guarda e m’accarezza i capelli, crede davvero che io sia
soltanto preoccupata per un’amica qualunque, senza
sapere che dentro quel seno di lattaia ci passerei le
ore notturne fino ad addormentarmi come un bimbo che
sogna e sa di pulito. Mi guarda di nuovo e sento
l’imbarazzo che cola dentro le sue lacrime di gioia e
ringrazia il destino che almeno per una volta le ha
fatto incontrare persone per bene. E pensare che siamo
soltanto delle puttane che ingoiano liquidi di piacere,
misere banche dove gli uomini depositano il loro seme.
Ma anche le puttane hanno bisogno d’amore infinito e i
loro cuori inevitabili si rifugiano imploranti tra le
sponde di tette abbondanti e materne. Non mi viene altro
da pensare mentre un “ti amo” improvviso rovina sul mio
stupore e per terra, come il tonfo di un uovo che cade,
come un fulmine muto che si lascia dietro l’odore di
bruciato. Mi viene vicino senza permesso con la
camicetta slacciata e due occhi di panna, un corpo
evanescente che se non conoscessi la sua storia giurerei
vergine e inadatto a sopportare voglie avide e grasse.
Rimango con gli occhi bassi e fisso il pavimento.
Non voglio vederla, mi fa male pensare d’essere attratta
da una donna che non abbia il viso di Fanny! Ma le sue
labbra si schiudono per un altro “ti amo”. Lo lascio
passare come il precedente, come questa mano che
s’infila e s’incunea e mi massaggia il cuore, avvolto
dalla tristezza del pensiero di Fanny. Ma tutto dura un
attimo, un secondo di spilli e di piume come fare
l’amore appoggiata alle spine dei rovi o alla corteccia
d’un pioppo che ti lascia ferite silenti. Ma non è lei a
graffiarmi la pelle, è quest’infinito bisogno di non
essere sola, è questa ricerca pazzesca di sentire
l’amore. E questo “ti amo” che sento, sfibra le labbra e
mi penetra dentro, mi devasta la carne peggio di un
sesso che enorme si mostra, e al solo guardare
m’accappona la pelle e mi fa stringere i muscoli. Peggio
di quando più sola e più persa cerco disperata
d’addolcire il mio carnefice e gli urlo falsa parole
d’amore, che non sono i soldi, che gli voglio bene
davvero e per sempre, al punto di inginocchiarmi ed
abbaiare al suo pene e strisciare nella melma del mio
amor proprio se solo, dentro questa sera qualunque, mi
risparmiasse o mi concedesse almeno una sosta. Perché
l’amore che sento è femmina e maschio, è una madre che
t’accoglie una domenica mattina nel letto, è una
spiaggia di bimbi e castelli di mare, un dolce sognare
quando il sole è già alto. Un circo sotto Natale, è Luca
che crede davvero che nessuno m’abbia ancora vista nuda.
Perché l’amore che ho dentro bussa e s’incazza e mi fa
ogni volta tornare bambina, fare tre passi per camminare
di fianco a mio padre che mi prende per mano. L’amore
che ho dentro sono mani capienti, sono ancora seni
abbondanti ripieni di latte, sono quelli di mia madre
sempre occupati, che portano in grembo la gioia di
avermi concepita, la colpa d’avermi partorita.
L’amore che ho dentro è un pene di uomo dove ci appoggi
la faccia, dove chiudi gli occhi e ha il gusto di
bambola, come nei sonni da piccola, come ora da grande
t’aspetti che sgorghi solo seme d’amore. L’amore che ho
dentro è Fanny che mi manda affanculo, che mi chiama
Giuditta mentre la montagna dei suoi capelli s’abbassa e
mi copre la vergogna di provare piacere. L’amore che ho
dentro è questo mio rifiuto di sentimi una lesbica,
d’amare gli uomini se solo assomigliassero alla loro
parte di femmina. E’ questa ragazza dalla pelle venata,
queste gambe che indossano i miei stivali, sono queste
parole stentate che sanno di russo che ora vorrebbero
donarmi l’unica cosa che davvero posseggono.
La
guardo, ma non è Fanny, sorrido pensando che nonostante
gli uccelli che prendo mi sento fedele, che non si può
ricevere amore semplicemente scambiando un corpo. Lei
s’avvicina, mi chiama Giuditta, mi copre gli occhi e
slaccia il grembiule. Ha due seni che aspettano solo
saliva, che sanno di pane bagnato e zucchero, che
aspettano un treno in una grande stazione. Sanno che
prima o poi avvicinerò la bocca, che i miei occhi non
s’apriranno per non essere coscienti di quello che
faccio, che sto tradendo, che una forza da dentro m’ha
impietrito su questa sedia, che m’ha inchiodata in piedi
sul pavimento. La chiamo Fanny e lei mi sussurra di
nuovo Giuditta, mi chiama amore, ma dalla mia bocca esce
soltanto saliva che spargo e cospargo sulla sua voglia
stupita d’avere davanti una semplice donna, sulla sua
mano sorpresa che ora cerca piacere dentro mutande di
donna.
Squilla il telefono e ci blocchiamo,
coscienti di aver fatto qualcosa di male, contente di
non essere andate oltre. E’ Fanny che ci chiama, che
stasera ai Bagni Giuditta c’è una festa d’addio
all’estate e per noi un superlavoro, per noi, uomini che
ci gonfieranno almeno le tasche. Ma lei non ci sarà,
perché il suo direttore la sta portando in una villa
dove l’aspettano una decina di uomini soli. Nonostante
sia lontana dal mio cuore, dalla mia pelle che ancora
chiede, mi rendo conto che è sempre lei la padrona di
questo gioco che poco prima ci aveva quasi convinto a
ritagliarci una nicchia segreta, a ricevere affetto come
i tombini fanno con l’acqua piovana ed ora ci blocca
perché lei ha deciso, perché basta la sua voce per
sentirmi in colpa e desiderare soltanto di tornare tra
sue braccia.
|
CONTINUA LA
LETTURA
Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
© All rights
reserved Adamo Bencivenga
LEGGI GLI ALTRI RACCONTI
© Tutti i diritti riservati
Il presente racconto è tutelato dai diritti d'autore.
L'utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma, senza il consenso
dell'autore



Tutte
le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi
autori. Qualora l'autore ritenesse
improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione
verrà ritirata immediatamente. (All
images and materials are copyright protected and are the
property of their respective authors.and are the
property of their respective authors.If the
author deems improper use, they will be deleted from our
site upon notification.) Scrivi a
liberaeva@libero.it
COOKIE
POLICY
TORNA SU (TOP)
LiberaEva Magazine
Tutti i diritti Riservati
Contatti

|
|