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RACCONTO

LIBERAEVA
BAGNI GIUDITTA
Le mie notti
"Oddio, cosa direbbe stasera mia madre,
se mi vedesse appoggiata contro questo sfondo di stelle? Se sapesse
che il sabato sera non vado in discoteca ad imbottirmi di musica e
crack, come fanno in segreto tutte le altre ragazze, compresa
Clotilde la mia compagna di scuola."

Oddio, cosa direbbe stasera
mia madre, se mi vedesse appoggiata contro questo sfondo
di stelle? Se sapesse che il sabato sera non vado in
discoteca ad imbottirmi di musica e crack, come fanno in
segreto tutte le altre ragazze, compresa Clotilde la mia
compagna di scuola. Su questo lungomare ostento
scioltezza, in attesa che qualcuno capisca e m’inviti,
per come mi concio e per quello che offro,
schiacciandomi un occhio e un cenno d’assenso, se
proprio ha vergogna di venirmi vicino e respirare il
vapore del mio alito rosso. Aspetto paziente, tra la
folla che sciama, una faccia decente che abbia per sé la
pazzia e per me quattro soldi che conto ogni volta per
sentirmi orgogliosa e non farmi fregare. A volte mi
fermo e fingo d’essermi persa, in equilibrio precario su
questi stivali, che lucidi e neri riflettono i fari, che
alti e sfrontati mi fanno più bella, unica accanto a
questo muro scrostato di muffa e graffiti che mi separa
dal mare.
Cosa direbbe sul serio mia madre, se
sapesse che mi metto alla pari di quell’ambulante, che
vende panini e cuoce salsicce, di quella zingara che
rifila dei fiori, tulipani gelati ad amanti impacciati,
scovati per caso tra la folla a passeggio. Che direbbe
se mi vedesse davvero, che faccio concorrenza a quel
pappagallo spennato, che indovina la sorte beccando
biglietti, mentre distesa tra due cabine dei Bagni
Giuditta ingoio rena e presente di qualsiasi uomo che
stasera non cerca e non crede al futuro.
Poi
riprendo a camminare verso quel tratto, dove la notte è
ancora più notte, dove tra l’asfalto traballante e
sconnesso spuntano secchi fili timidi d’erba, e mi fanno
sentire tremendamente più sola, in faccia ad un vento,
che gonfio di sale, mi scompone la frangia e m’imbroglia
i pensieri. Le bancarelle di indiani si fanno più
rade alla luce di una fioca spenta fiammella, che sa di
miseria di fame e petrolio, mentre un branco muto di
cani fa la coda nel punto, dove il primo ha già sfogato
i bisogni e si ripulisce le zampe strusciando la terra.
M’innalzo fiera su questa immondizia, dove mi sento
più vera e più viva, perché oltre a muovere ad arte la
lingua conosco la storia e so parlare in latino, che,
per quanto mi riguarda, mi fa passare indenne ogni
notte, sospinta da questa scia di uomini e carte che da
ore m’insegue e mi fa mulinello. Mi guardano
timorosi e mi dicono bella, solo perché i miei guanti di
rete sembrano più adatti a mani da sposa, a culle
bianche per i loro sessi che dritti mi puntano ghiotti e
sanno di sporco. Ma sono davvero io quella che riempie i
loro occhi, quella che di giorno struscia il culo dei
jeans sopra lo stesso muretto? Prima figlia femmina di
famiglia borghese con mio padre che fa l’avvocato e mia
madre che di mestiere si cotona i capelli e si lacca le
unghie di un ciclamino che fa vomitare.
Sembrano
chiedermi se sono vera, se davvero faccio l’amore senza
togliermi la gonna, se i miei stivali hanno un senso
quando tingo di rosso la passione che impenna, ma non
hanno dubbi e mi dicono troia, perché non possono
avermi, perché valgo più soldi di quanti ne hanno, o
solo perché, a quest’ora di sera, sono semplicemente una
donna che si fa preda e cammina senza che un uomo le
guardi le spalle. Mi scrutano e mi spogliano, come se
dopo l’amore fosse tutto diverso, come se già si
sentissero maschi al solo guardarmi, al chiedermi
curiosi se non porto mutande e il vento che tira ha la
precedenza sugli altri. Ma per me è tutto normale,
perché non serve l’amore per farmi raschiare, il palato
o qualcosa che s’apre a conchiglia, fino a sentirmeli
dentro ansimanti ed illusi che un uomo soltanto possa
darmi piacere. Perché anche questa cagna che ora piscia
sul muro può fare il mio stesso lavoro, perché anche
quella scimmia in braccio al bambino, si prostituisce
per una foto alla stessa mia stregua. Mi faccio
soltanto scopare, senza far finta di esser convinta che
una donna possa allargare le gambe solo quando sente
parole d’amore. Mi faccio soltanto montare senza che
serva questa stupida luna a dire ti amo e giurare
promesse perché davvero sarebbe peggio far finta, magari
dentro un letto di anni e di spine e farmi otturare come
semplice moglie mentre di sopra spalanca la bocca ad un
conato più intenso che non può trattenere.
Guardo
la mia ombra che sale sul muro e mi domando cosa direbbe
se potesse parlare, cosa direbbe parlando a mia madre,
che sua figlia imperterrita non si dà vinta e ostinata
cammina e testarda ancheggia aspettando che il cielo non
si rischiari domani, quando la sua anima intima è gonfia
abbastanza di denaro frusciante. Credo che creperebbe
d’invidia perché io sono fatta di forme e colori, perché
questa sera indosso una gonna di fiori leggeri che un
giapponese appostato immortala ogni volta, e gioco col
vento e faccio la ruota, o mi volto e m’inchino a
raccogliere un fiore, d’un innamorato di turno, d’un
militare spaurito, che non ha ancora compreso il
mestiere che faccio, che recito al mondo puntuale a
quest’ora.
Ma io non ho bisogno di fiori, d’odore
che annuso e riempio i polmoni. Ho solo bisogno di occhi
incollati, come zampe di mosche intrappolate nel miele,
di voglie che fanno rumore strisciando, sulla vernice
lucente dei miei stivali, che per quanto mi sono costati
non basteranno tre albe per tornare alla pari. Vorrei
ogni volta essere nuova, indispensabile agli occhi che
divorano tette, come panini e porchetta in mezzo alla
strada. Vorrei davvero che ora giocassero ad indovinare
quanto sia depilato il mio sesso e se solo una striscia
li separa dal nulla, li divide dall’oblio d’accarezzarlo
con cura. E poi salire e scalare sempre più in alto,
fino all’ultimo strato di pelle più scura, dove altri
clienti non hanno avuto il coraggio, per paura del vuoto
che s’ingrandiva ai colpi, e diventava infinito voragine
e buco, ventre di terra dove non è più possibile uscire.
Ma io davvero vorrei che restassero a lungo, svernarci
le notti come dentro ad un nido, una casa di legno in
riva ad un lago, per la sola assillante amarezza che
nessun’altra donna potrà più dare loro un brivido tanto,
incontenibile quanto questo profumo fruttato che
risalirà nel naso ogni volta che faranno l’amore.
Se sentisse mia madre quello che penso, se mi
vedesse mio padre quello che calpesto! S’arrabbierebbe
soltanto perché sporco le suole di piscio di cani che a
rivoli corrono verso la strada. “Non ridete di me, Vi
prego! Potrei essere vostra figlia che di giorno fa
finta di studiare, e a vent’anni si fa baciare ancora la
fronte come da bimba quando tornate!” Voglio solo che il
mio cuore si annaffi di sangue e s’affoghi di momenti
che rubo alla vita, che strappo convinta ad una grigia
morale che mi vorrebbe anonima mentre cotono i capelli
ed ebete e finta odoro sottobraccio tulipani gelati.
Ma ho paura che tutti questi sessi che prendo mi
procurino calli, che un giorno quando decido non potrò
più sentire l’amore. Ho paura di tendere ugualmente la
mano e pretendere soldi per un giusto compenso, perché
l’amore è rimasto tra la striscia di peli, fuori da quel
sentimento che dicono bello, e s’è fatto pietra
appuntita che m’ha procurato soltanto tagli e ferite.
Ma credo che non arriverò mai a quel punto, di
pensare che un uomo da solo possa riempirmi la vita!
Manca ancora del tempo per limitarmi il destino, illusa
e convinta di non poter avere altri uomini oltre a
quello che dice di amarmi davvero.
Ora davanti
c’è solo il mio pollo, che non vede l’ora d’infilare la
mano, tra gli stivali bagnati d’asfalto, lungo la trama
di un impalpabile velo, e venirmi vicino col fiato più
corto, che sa di mangiato e m’annusa il profumo,
dolciastro e smaccato di femmina calda, ma è timoroso e
mi chiede per quanto, chiamandomi signora con un filo di
voce, ma è maledettamente bugiardo perché già sa che
conosco il latino e sotto questa gonna, che nuda mi
copre, porto le stesse mutande, le uniche che reputo
all’altezza del contenuto che offro.
Tra poco
gli ordinerò di seguirmi per non destare sospetti, per
non allarmare quel poliziotto che ogni sera vorrebbe
scoprirmi in flagrante. Vorrei andargli vicino e dirgli
che non faccio nulla di male se offro il mio seno a
queste bocche affannate che hanno ancora bisogno di
ciuccio intinto nell’acqua di mare, impregnato di
ricordi e d’occasioni perdute, che sanno di seni di
moglie e di madri rimpiazzate troppo presto con buste di
latte. Vorrei, ma sarebbe difficile fargli capire quanta
poesia possa nascere tra quelle cabine, quanto amore
possa nascere dentro questi stivali. Sarebbe davvero
difficile spiegarlo quando non ci sono né rime e né
versi, ma un uomo qualsiasi che ti cerca di sopra e di
sotto, al riparo di questa stupida luna, che se non
faccio attenzione, un giorno o l’altro mi farà pure
arrestare.
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Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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