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Adamo Bencivenga
LA RETE 2
Il gioco mortale di Vittoria Evans
Ero sopravvissuta, sì, ma sapevo che non avrei mai potuto sfuggire al mio passato e alla mia condanna. Ero la sopravvissuta, ma anche la più sfortunata perché continuavo a vivere….



 
Alle nove in punto, il campanello squarciò il silenzio della mia casa. Mi ero alzata all’alba, per avere tutto il tempo necessario per trasformarmi in una tentazione vivente. Rossetto rosso sangue, un abito nero con spalline sottili che scivolava sulla mia pelle come un sussurro, i capelli sciolti, e sotto, solo un paio di autoreggenti nere, un’audace dichiarazione di sfida, un’arma con la quale lo avrei distrutto. Nessun intimo, solo la mia pelle e la consapevolezza di essere una provocazione ambulante, ma non solo, perché in quel momento per me rappresentava un'affermazione di autonomia e forza, ma anche un atto di ribellione alle convenzioni sociali rivendicando il controllo del mio corpo e la libertà di offrirlo. Non sapevo se avessi generato in Stephen ammirazione, desiderio o semplice curiosità, ma ciò che volevo fortemente era la sua destabilizzazione.

Aprii la porta, e lui era lì, immobile per un istante, il cappello calcato sugli occhi, l’impermeabile umido. I suoi occhi bruciavano di desiderio e quella tempesta mi trafisse senza bisogno di parole. Non disse nulla, e nemmeno io. Non ce n’era bisogno. Si avventò su di me, le sue labbra si schiantarono sulle mie, spingendomi contro la parete dell’ingresso con una forza che mi tolse il fiato. Fu come un’onda, un maremoto che mi travolse, e io mi lasciai andare, non per debolezza, ma per strategia. Ero la preda, sì, ma una preda che aveva già vinto.

Sentivo le sue mani ovunque, rabbiose, disperate, violente, come se volessero strapparmi via non solo il vestito, ma la mia stessa essenza, come se fossi io la colpevole del fuoco che lo consumava. “Maledetta…” sibilò, la voce roca, spezzata, mentre le sue dita affondavano nei miei fianchi, tirando i miei capelli con una furia che non chiedeva permesso. “Cosa mi stai facendo?” Urlò in silenzio.
Io sorrisi contro la sua bocca, un sorriso pieno di fiato umido e passione, mentre le mie unghie gli graffiavano il collo, senza curarmi dei segni che avrei lasciato sulla sua pelle. “Ti piace questo gioco, Stephen?” Sussurrai con la voce morbida, ma affilata come una lama. “Non è quello che vuoi? Perdere il controllo?”
I suoi occhi si scurirono, un lampo di rabbia pura. “Tu non sai cosa voglio.” Ringhiò, spingendomi più forte contro la parete, il suo respiro caldo contro il mio collo, i suoi denti, le sue labbra. Ma io non cedetti. Lo spinsi indietro con un gesto deciso, e lo trascinai verso il soggiorno, i nostri passi un groviglio, un duello senza regole. “Oh, lo so eccome. Mi desideri pazzamente e ti odi per questo…”

Arrivammo al centro della sala, e con un movimento rapido mi spinse contro il divano. Ma io non ero lì per essere dominata. Lo afferrai per l’impermeabile, tirandolo giù con me sul tappeto che copriva il pavimento. Il mondo si ridusse a quel rettangolo di tessuto, a noi due, a quella lotta che non aveva nulla di amore e tutto di guerra. Mi strappò il vestito e il rumore del tessuto che cedeva lo percepii come un altro passo verso la mia vittoria. Rimasi nuda, con solo le autoreggenti a fasciare le mie gambe, un’immagine che sapevo lo avrebbe fatto crollare.

Lui fissò il mio sesso nudo: “Guardati!” Mormorò con la voce tremante di desiderio. “Così disponibile… Sei un dannato veleno.”
“E tu lo stai bevendo, vero Stephen?” Risposi provocandolo. In meno di un secondo mi liberai dalla sua stretta e lo feci rotolare sotto di me, le mie mani sul suo petto, inchiodandolo al tappeto. I suoi occhi erano selvaggi, pieni di un conflitto che lo divorava. “Dimmelo, Stephen.” Continuai, abbassandomi verso di lui, i miei capelli che sfioravano il suo viso. “Perché sei qui? Per punirmi? Per punirti? O perché non puoi farne a meno?”

Lui rise in segno di sfida e le sue mani mi afferravano con più forza i fianchi. “Tu credi di avere il controllo, vero?” Disse, il tono rauco, pericoloso. “Pensi di potermi piegare? Che la tua figa sia più importante di qualsiasi altra cosa al mondo?” Con un movimento rapido mi fece girare, inchiodandomi sotto di lui come per dominarmi. Ma io non mi scomposi. Allargai le gambe provocatoriamente, e lo fissai sfidandolo. “Eccola, guardala! Dimmi quanto l’hai desiderata l’altro giorno nella tua macchina! Dimmelo! E ora potrebbe essere tua e non solo oggi!”
Lui mi fissò stordito. “La voglio!”
“Prendila… Cosa aspetti?” Dissi allargando ancora di più le gambe. “Fammi vedere chi sei veramente. Giù la maschera Stephen!”

La sua mascella si strinse, i suoi movimenti divennero più frenetici, quasi violenti. Attratto da quella calamita mi prese con rabbia, consapevole che ogni suo colpo non era altro che un grido soffocato della sua resa. “Non vincerai.” Ringhiò, ma le sue mani tradivano il contrario, tremanti, disperate, come se volessero possedere ogni parte di me e allo stesso tempo accalappiarmi.
Lo baciai mentre le mie gambe lo avvolgevano, guidandolo in una danza che era solo mia. “Non sto vincendo, Stephen.” Dissi, fissandolo dritto negli occhi. “Ho già vinto.”

Ci rotolammo sul tappeto, ogni nostro movimento era una lotta mentale, un gioco di potere. Lui cercava di dominarmi, di prendersi ciò che pensava gli spettasse, ma ogni suo colpo era un trofeo per me. “Smettila di giocare.” Sibilò, il suo respiro caldo contro la mia pelle, mentre le sue mani mi stringevano i polsi sopra la testa. “Non è un gioco, Vittoria.”
“Oh, lo è.” Risposi, liberando un polso e afferrandogli il viso, costringendolo a guardarmi. “E tu stai perdendo.” Lo spinsi via, solo per attirarlo di nuovo. Il tappeto bruciava sotto la mia schiena, sentii il suo acciaio fondersi nel mio calore, ma non sentivo dolore, solo piacere. Stava prendendo il mio corpo, ma io avevo già preso la sua mente, la sua vita, il suo potere, il suo ruolo di padre!

Quando tutto finì, restammo lì, ansimanti, il silenzio rotto solo dai nostri respiri affannati. Guardammo il soffitto senza guardarci negli occhi. Non ce n’era bisogno. Provocatoriamente gli chiesi: “Che sensazione hai provato a scoparti la fidanzata di tuo figlio?” Lui ci pensò un attimo e poi disse: “Te ne pentirai…” Poi si alzò e aggiustandosi l’impermeabile con mani che tremavano ancora fece per andare. Io mi appoggiai su un gomito, nuda sul tappeto, le autoreggenti strappate, e sorrisi. “Forse…” Dissi mantenendo una calma regale. “Ma non ti vedo pentito.” Lui si fermò sulla soglia del salone e disse: “Non finisce qui.” Più a se stesso che a me. Io sorrisi piano. “Lo so. È solo l’inizio...” Dissi guardandolo allontanarsi.


*****


Da quel giorno, la nostra relazione divenne un segreto ingombrante. Ci vedevamo a casa mia, in momenti rubati, quando Luke era al lavoro o Ingrid era impegnata. Ogni incontro era un’esplosione. Stephen perdeva la testa, letteralmente. Quell’uomo che aveva costruito una carriera impeccabile, che aveva sempre gestito i suoi sentimenti con la precisione di un diplomatico, si trasformava in un amante ossessionato. Mi cercava con una fame che non aveva mai conosciuto, mi stringeva fino a farmi male, come se volesse fondersi con me. Una volta mi afferrò per le spalle e mi urlò: “Chi sei tu? Chi sei tu?”. Era fuori di sé, e io lo lasciai percuotermi, sbattermi contro il pavimento, perché quella violenza era la prova della sua capitolazione. Lui era mio, completamente, e io lo sapevo.

Eppure, dentro di me, sentivo un vero e proprio conflitto. Amavo Luke, o almeno credevo di amarlo. Era il mio ragazzo, il mio futuro, la stabilità che una parte di me desiderava. Ma Stephen era la mia ambizione, il mio specchio oscuro, l’altra faccia della mia anima e l’uomo che mi faceva sentire potente. Concedermi a lui non era solo un atto d’amore, ma un modo per affermare me stessa, per dimostrare che potevo avere tutto: l’amore di Luke, la passione di Stephen, il controllo su entrambi. Mi sentivo la scheggia impazzita di quella famiglia, un morbo, un tarlo che entrando a passi felpati aveva finito per contaminare ogni cosa. Certo non era facile, mi sentivo comunque in bilico, ma di certo non sarei caduta. Il mio danno mi rendeva invincibile! Stephen, invece, stava crollando. La sua vita, così ordinata, così perfetta, si stava sgretolando. Era geloso di tutto: di Luke, del mio lavoro, delle persone che incontravo.

Quando gli dissi che sarei andata a Parigi con Luke per un weekend, la sua reazione fu devastante. Mi chiamò, mi implorò di non andare, mi minacciò. Venne perfino nel mio ufficio tra l’imbarazzo dei miei colleghi e l’eccitazione dell’avvocato Harris. Stephen del resto era una persona troppo conosciuta per passare inosservato. Harris si prostrò quasi inginocchiandosi, ma non fu difficile a Stephen inventarsi una scusa, ero pur sempre la fidanzata di suo figlio!

Ma nonostante tutto io partii lo stesso. Avevo accettato quell’invito di Luke non perché ne fossi entusiasta, ma per sfidare suo padre e rendermi conto fino a che punto avesse rischiato. E lui mi seguì. Inventò un impegno domenicale di lavoro improbabile a Ingrid e venne a Parigi! Non so come avesse fatto a scoprire l’hotel dove alloggiavamo, ma durante il pomeriggio sentii il telefono squillare. Era Stephen che mi chiamava dalla hall dell’albergo! Mi sorpresi per la mia freddezza, non ero affatto agitata. Semplicemente inventai una scusa per Luke di una immaginaria amica francese e scesi. Appena mi vide mi prese sottobraccio, ma in realtà era una morsa d’acciaio. Mi trascinò in una stradina buia e per prima cosa volle sapere se avessi fatto l’amore con Luke. Annuii sfidandolo: “Perché non avrei dovuto?” Lui era fuori di sé, forse sì, in quel momento avrebbe voluto picchiarmi, ma mi strinse ancora più forte finché riparammo dentro un portone. Contro la parete mi tirò su la gonna e scostando le mutandine mi prese con una rabbia che era amore e disperazione insieme. “Cosa mi hai fatto, Vittoria? Ti amo, non posso vivere senza di te!” Ripeteva, mentre il suo corpo si muoveva dentro il mio. Era l’atto più crudo e sincero della nostra storia, ma anche il momento in cui capii che quella storia sarebbe stata la nostra distruzione.
Tornai in albergo, Luke era ancora sotto la doccia e non si era reso conto del tempo passato, la sera a letto mi chiese della mia amica francese ed io per non dirgli un’altra bugia gli chiesi di fare l’amore, non per voglia, ma per provare il brivido di sentire due uomini dentro di me a poche ore di distanza.

*****


Tornati a Londra con Stephen riprendemmo i nostri incontri segreti, la parentesi di Parigi gli aveva lasciato uno strascico di forte insicurezza. Sembrava un uomo distrutto e il peso della nostra relazione giorno dopo giorno lo stava consumando. Lui diceva di amarmi, ma io sapevo che non era amore, era qualcosa di tossico che stava scavando solchi profondi. Eravamo in un piccolo caffè di Bloomsbury, nascosti in un angolo, lontano da occhi indiscreti. La pioggia batteva contro le vetrate, un sottofondo che amplificava il silenzio teso tra noi. Stephen stringeva la tazza di caffè, le nocche bianche, gli occhi persi in un punto indefinito.
“Devo farlo, Vittoria. Non posso più vivere così. Devo dire tutto a Ingrid. A Luke. Non ce la faccio più a fingere. Io amo te!”

Lo fissai. “Stephen, ti prego, fermati un attimo. Pensa a cosa stai dicendo. Vuoi davvero distruggere tutto? La tua famiglia, il tuo matrimonio, il rapporto con tuo figlio? Tu sei una persona pubblica, hai responsabilità di potere e così facendo rovineresti per sempre la tua immagine…” Lui scosse la testa con un gesto brusco, quasi rabbioso. “Non capisci, vero? La mia non è più una famiglia. Ogni volta che sono con loro, è come se stessi recitando una parte. Ingrid… lei non conosce chi sono veramente e Luke… Dio, Luke merita un padre che non sia un ipocrita. Io ti amo, Vittoria. Tu sei l’unica cosa vera nella mia vita.”
Le sue parole mi colpirono come un pugno, ma cercai di mantenere la calma. “E cosa pensi di ottenere, Stephen? Credi che confessare tutto risolverà qualcosa? Ingrid sarà devastata. Luke… non ti perdonerà mai. E noi? Pensi che potremmo costruire qualcosa di buono sulle macerie di tutto questo?”
Mi guardò senza parlare ed io aggiunsi: “Cosa dirai a tuo figlio? Che ti sei innamorato della sua ragazza? E a Ingrid? Che la lasci perché vuoi stare con una donna che potrebbe essere tua figlia?”

Vidi sul suo viso contratto una smorfia di dolore. “Non lo so. Non so cosa accadrà. Ma non posso continuare a vivere così. Ogni giorno che passa, sento che sto tradendo me stesso. E te. Non voglio più nasconderti, come se fossi un segreto sporco. Meriti di più. Noi meritiamo di più.”
Mi sporsi verso di lui. “Non correre ti prego… è nato tutto come un gioco e come un gioco potrebbe finire… Ci hai mai pensato?”
“Quindi non mi vuoi?” Disse fissandomi. “Stephen. Non voglio essere la causa della tua rovina. Se butti via tutto… la tua carriera, la tua famiglia non troverai più pace. Sarai divorato dal senso di colpa. E io non voglio vivere con quel peso. Possiamo trovare un altro modo. Io… io sono disposta a fare qualsiasi cosa per tenerti vicino. Anche sposare Luke, se è quello che serve. Posso recitare la parte della moglie perfetta, fingere, purché tu resti nella mia vita.”

I suoi occhi si spalancarono. “Sposare Luke? Ma sei matta? Come puoi anche solo pensarlo? Non capisci che mi ucciderebbe vederti con lui? Sapere che sei sua, che ci vai a letto insieme… mentre io… io non sono niente?” Si interruppe poi a voce più alta aggiunse. “Non voglio una vita in cui devo rubarti momenti, nascondermi come un ladro. Voglio tutto di te. E sono disposto a perdere tutto per averlo.”
Le sue parole mi travolsero, ma il terrore di ciò che stava proponendo mi tenne ancorata al mio posto. “Stephen, ti prego.” Sussurrai, prendendogli la mano sotto il tavolo. “Non fare qualcosa di cui ti pentirai. Non distruggere tutto per un impulso. Dammi tempo. Troveremo una soluzione, te lo giuro. Ma non così. Non ora.”
Lui ritirò la mano, lentamente, come se quel gesto gli costasse un’enorme fatica. “Tempo.” Ripeté, con amarezza. “È proprio il tempo che mi sta consumando. Ogni giorno che passo senza di te, muoio un po’ di più.” Si alzò, il cappotto ancora umido di pioggia. “Vittoria… Non so quanto ancora posso resistere. Ma non chiedermi di continuare a fingere. Non ce la faccio più.”
Lo guardai allontanarsi, il cuore stretto in una morsa. Sapevo che la sua ossessione lo stava spingendo verso un baratro, e che, purtroppo non ci sarebbe stata alcuna soluzione. Qualunque cosa avesse fatto o avessi deciso io di fare.

Non ero pentita, affatto, anzi quelle manifestazioni d’amore mi facevano sentire più viva anche se non nutrivo lo stesso sentimento, sia nei confronti di Stephen che di Luke. Mi sentivo un’identità frammentata, nel contempo vittima e carnefice, seduttrice e cinica con indosso una maschera che copriva il mio profondo vuoto emotivo. Certo sì, alle volte mi chiedevo: “A che pro?” ma la perdita di mio fratello gemello aveva plasmato la mia personalità, spingendomi a cercare il controllo attraverso la manipolazione e nello stesso tempo mi aveva resa immune da qualsiasi dolore anche quello dell’abbandono, anche quello prodotto dal mio stesso veleno.


*****


Alcuni giorni dopo Stephen mi chiamò per dirmi che era finita, che sarebbe tornato alla sua vita di prima. Quando il telefono di casa squillò sapevo che era lui, era troppo tardi per una chiamata qualunque.
“Vittoria…” Faceva difficoltà a parlare, come se ogni sillaba gli costasse uno sforzo immenso. “È finita. Non posso più… non ce la faccio.”
Mi sedetti sul bordo del letto. “Cosa significa è finita?”
Un singhiozzo soffocato dall’altro capo del telefono. “Ho detto a Ingrid tutto... Le ho detto di noi... Di te... Non potevo più mentire... È tutto distrutto... Tutto...” La sua voce era tremolante, impastata come se si fosse scolato una bottiglia intera di whisky.
“Stephen, calmati.” Non gli credevo. Qualcosa mi diceva che volesse solo una mia reazione, un segno che lo trattenesse. “Hai davvero parlato con Ingrid? Le hai detto di me? Di noi?”
Silenzio. Un silenzio pesante, interrotto solo dal suo respiro irregolare. “Dai Stephen non mentire, devo sapere la verità, tua moglie dirà tutto a Luke ed io devo sapere come comportarmi… Davvero le hai detto di noi?”
“No…” Ammise subito dopo, la voce ridotta a un filo. “Stavo per farlo, ma non ce l’ho fatta. Ci ho provato, Vittoria. Sono andato da lei, ho aperto la bocca, ma… le parole non uscivano. Mi guardava con quegli occhi, così pieni di fiducia, e io… io sono un codardo. Un maledetto vigliacco.” Un altro singhiozzo, più forte, come se stesse crollando. “Ma non posso continuare così. Non posso vivere con questo… questo veleno che mi stai iniettando ogni giorno.”

Mi alzai, camminando verso la finestra. La pioggia scivolava sul vetro, distorcendo le luci di Londra. “Allora perché mi chiami, Stephen?” Chiesi, con una punta di freddezza. “Se vuoi davvero finire tutto, perché sei al telefono con me, a quest’ora, con la voce che trema? Dimmelo.”
“Perché ti amo!” Gridò, la voce che esplodeva come un tuono. “Ti amo, e mi stai uccidendo. Ogni volta che penso a te, è come se un coltello mi si rigirasse nel petto. Non riesco a dormire, non riesco a lavorare, non riesco a guardare mio figlio negli occhi senza sentirmi un mostro. Tu… tu mi hai rovinato. E la cosa peggiore è che non riesco più ad amare lui e a odiare te!”
Le sue parole mi colpirono, ma non lasciai che la mia voce tradisse l’emozione. “Stephen, non sono io che ti sto rovinando. Sei tu che hai scelto di venire da me. Quel sabato mattina, alla mia porta… non ti ho costretto. Non ti ho mai costretto.”
Un riso amaro, quasi isterico. “Scelto? Credi che abbia avuto scelta? Dal momento in cui ti ho vista, con quel dannato vestito rosso, con quel sorriso che mi ha fatto a pezzi… non ho avuto scampo. Sei come una droga, Vittoria. Ogni volta che penso di poterti lasciare, di tornare alla mia vita, tu sei lì, nella mia testa, nei miei sogni. Non riesco a liberarmi di te.”

Mi appoggiai al vetro freddo della finestra, chiudendo gli occhi. Le sue parole erano un’arma a doppio taglio: mi lusingavano, mi eccitavano, in effetti sapevo di essere l’unica responsabile che deliberatamente aveva iniziato quel gioco in segno di sfida, del fascino del potere, ma allo stesso tempo mi spaventavano. “Stephen, ascoltami, se davvero vuoi che finisca, allora fallo. Non chiamarmi più. Non venire a cercarmi. Torna da Ingrid, da Luke. Torna alla tua vita perfetta.”
“No!” Urlò, e sentii un tonfo, come se avesse sbattuto il pugno contro qualcosa. “Non capisci? Non c’è più niente! Non c’è più nessuna vita perfetta, non ho più una vita affettiva! Tu hai catalizzato ogni mio sentimento! Ogni volta che sono con loro, vedo te. Ogni volta che tocco Ingrid, è la tua pelle che immagino. Lo sai vero che non ci faccio l’amore dal nostro primo incontro? Cazzo tu sei ovunque, anche nel mio letto matrimoniale! E ogni volta che parlo con Luke, penso a come ti guarda, a come ti ama, a come ti scopa! Vorrei urlargli la verità, dirgli che sei mia, che lui non potrà mai averti totalmente, che…” Si fermò, il respiro spezzato, come se si fosse reso conto di quanto fosse andato oltre.

“Stephen…” Iniziai, ma lui mi interruppe.
“Non dire niente. Non dirmi che devo calmarmi, che devo ragionare. Non ce la faccio più a ragionare. Voglio solo… voglio solo te. Voglio la tua figa, il tuo culo, ma non una volta ogni tanto per tua gentile concessione, non mi basta più, ti voglio per sempre!” La sua voce si abbassò, divenne un lamento. “Dio, Vittoria, cosa mi hai fatto? Chi sono diventato?”
Era sull’orlo di un abisso, dovevo calmarlo assolutamente: “Sei ancora tu, Stephen. Sei l’uomo che comanda una stanza con un solo sguardo, che tiene in pugno il potere, che fa tremare gli altri. Non sei debole. Non sei distrutto. Sei solo… umano.”
“Umano?” Ripeté, con un’amarezza che mi fece quasi male. “No, Vittoria. Sono un relitto. Un uomo che ha tradito sua moglie, suo figlio, se stesso. E tutto per cosa? Per una donna che gioca con me come se fossi una pedina. Dimmi la verità, Vittoria. È tutto un gioco per te? Io sono stato solo un tuo gioco? Tu non mi hai mai voluto, ma volevi metterti alla prova di quanto saresti stata capace a circuire un uomo in vista e padre del tuo ragazzo. Questo volevi e ci sei riuscita, eccome, cazzo!”

Per un istante, persi la mia armatura. “No.” Dissi. “Beh sì all’inizio lo è stato e tu lo sapevi, ma ora mi sembra tutto più grande di me ed io non posso essere la tua salvezza, Stephen. Non posso essere la risposta a tutto. Se distruggi la tua vita per me, non sarà mai abbastanza. Lo capisci?”
Silenzio. Un silenzio così lungo che pensai avesse riattaccato. Poi, un sussurro. “Voglio vederti. Un’ultima volta. Ti prego.”
“Stephen… non è il caso…” Lui mi interruppe di nuovo.
“Non dire di no. Non dirmi che non puoi. Ho bisogno di te, Vittoria. Ho bisogno di guardarti negli occhi, di toccarti, anche solo per un momento. Se deve finire, che finisca davvero. Ma non così, non al telefono, non con questa distanza che mi sta uccidendo.”
Chiusi gli occhi. “Non si può, tra poco viene Luke.”
Lui urlo: “Cazzo chiamalo, inventati una scusa, digli che sei malata. Devo assolutamente vederti!”
“Stephen, non si può, Luke sospetterebbe…”
“Non me ne frega niente! Chiamalo, io tra mezz’ora sono da te!”
“Non fare stupidaggini…” Intanto pensavo ad una soluzione. Sapevo che non avrei dovuto accettare. Sapevo che ogni incontro con lui era un passo in più verso il baratro. Ma la sua voce era così piena di disperazione. “Va bene.” Dissi infine. “Stasera no, ma domani ci vediamo tutto il giorno te lo prometto!”
Sentii un sospiro di sollievo, quasi un singhiozzo. “Grazie… grazie, Vittoria.”
“Sì ok, ma non qui in città, oramai vedo le ombre dappertutto…”
Lui ci pensò un attimo e poi disse: “Andiamo nella mia villa a Dover. Ti piace l’idea? Saremo soli per tutto il giorno, io e te… Domani ci vediamo lì.”

Riattaccai, lasciando cadere il telefono sul letto. La pioggia continuava a battere contro la finestra ad un ritmo che sembrava il battito del mio cuore. Sapevo che il giorno dopo non sarebbe stato un addio. Non poteva essere un addio. Quello che c’era tra noi era troppo grande, troppo oscuro, troppo tossico per finire con un semplice arrivederci. Ma mentre mi preparavo mentalmente per quell’incontro, una parte di me si chiese se non fossi io quella che stava perdendo il controllo, se non fossi io quella che, alla fine, sarebbe caduta nel baratro che avevo creato.


*****


La villa di Stephen vicino a Dover era un rifugio isolato. Il mare ruggiva in lontananza, le onde che si infrangevano contro le scogliere con una violenza che rispecchiava il tumulto dentro di noi.
Arrivai per prima, il vento che mi scompigliava i capelli mentre aspettavo fuori, avvolta in un cappotto nero che nascondeva il mio segreto: sotto non indossavo il vestito, ma solo un paio di calze nere agganciate ad un reggicalze, null’altro. Sì certo, volevo distrarlo, stupirlo, ma sapevo benissimo che per lui sarei stata solo un’arma letale.

Quando Stephen arrivò, il suo volto era una maschera di tormento. Scese dalla macchina, l’impermeabile spiegazzato, gli occhi rossi, come se non avesse dormito. Non disse nulla, si avvicinò a me con passi lenti, come se ogni movimento gli costasse uno sforzo immenso. Mi prese il viso tra le mani, le dita tremanti, e mi guardò come se fossi l’ultima cosa che lo teneva in vita.
“Vittoria… Non ce la faccio. Non ce la faccio a lasciarti andare.”
Lo spinsi dentro, chiudendo la porta dietro di noi. “Allora non farlo.” Dissi, togliendomi il cappotto e lasciandolo cadere a terra. Gli ordinai di guardarmi e i suoi occhi percorsero ogni mia nudità con una fame disperata. “Smetti di combattere, Stephen. Smetti di fingere che puoi tornare indietro.”
Mi afferrò, le sue mani mi strinsero con una forza che era quasi dolore. “Non capisci.” Mormorò, il viso a un soffio dal mio. “Se resto con te, perdo tutto. Ingrid, Luke, la mia carriera… tutto. Ma se ti lascio… perdo me stesso.”
Lo baciai, non per consolarlo, ma per ricordargli chi ero. Le nostre labbra si scontrarono, un bacio pieno di rabbia, di rossetto e di tutto ciò che ci stava distruggendo. “Allora scegli, scopami! Ma smettila di torturarmi. Fai di me il tuo oggetto di piacere, ma torna te stesso ti prego!”

Mi spinse contro il muro con violenza, il suo corpo che premeva contro il mio, le mani che cercavano di afferrare qualcosa di reale, qualcosa che lo ancorasse. “Non voglio scegliere!” Gridò, la voce che si spezzava. “Voglio te, Vittoria. Voglio tutto di te. Ma non solo il tuo corpo, non solo quando ti vesti da puttana per me!”
Lo afferrai per il colletto, costringendolo a guardarmi. “Allora non vivere. Brucia con me. Lascia che tutto il resto vada in cenere. Non è quello che vuoi? Non è per questo che sei qui?”
Lui mi strinse il collo con tutte e due le mani. Respiravo a fatica, ma lui non lasciò la presa, anzi strinse più forte. Riuscii a dire: “Fallo Stephen, ora o mai più. Stringi più forte, uccidimi e risolverai tutti i tuoi problemi…” Lui lasciò immediatamente la presa: “Ti amo. Ti amo e sei tu che stai uccidendo me.”

Ci amammo lì, sul pavimento freddo, con il suono del mare che copriva i nostri gemiti e i nostri insulti. Affondava i suoi colpi pieni di rabbia e mi chiamava troia ed io rispondevo che era un uomo inutile. Mi stringeva fino a farmi male ed io lo graffiavo, lo mordevo come se ogni gesto fosse un tentativo di distruggere l’altro, di distruggere noi stessi.
Era un addio, ma anche una dichiarazione di guerra. Sapevamo entrambi che non sarebbe finita, che il nostro amore, o qualunque cosa fosse, era troppo grande, troppo oscuro, troppo vicino alla morte per spegnersi. Ci era scappato di mano ed entrami eravamo consapevoli che non saremmo più riusciti ad addomesticarlo. Certo sì, il suo era amore vero, mentre io sentivo un appagante e dirompente piacere narcisistico rendendomi conto che se lo avessi perso mai più nella vita ne avrei provato ancora.

Quando finì, restammo lì, sdraiati. “Non possiamo continuare così. Ma non posso smettere.” Disse con un filo di fiato.
“Lo so.” Risposi, chiudendo gli occhi. “È solo l’inizio...”
E in quel momento, con il mare che ruggiva fuori e il silenzio che ci avvolgeva, capii che non c’era via d’uscita. Non per lui. Non per me. Eravamo intrappolati, due anime condannate a consumarsi a vicenda, fino a quando non sarebbe rimasto nulla.


*****


Andammo ancora avanti per qualche mese, intrappolati in una danza pericolosa di segreti e bugie. Continuavamo a vederci, rubando momenti fugaci, ma il peso della nostra relazione clandestina iniziava a lasciare crepe visibili. Luke, non era più il ragazzo spensierato che conoscevo. I suoi occhi, un tempo pieni di fiducia, ora mi scrutavano con un’ombra di dubbio, come se cercasse risposte che non osava chiedere ad alta voce.

Una sera, mentre eravamo a casa sua, seduti sul divano ruppe il silenzio. La televisione era accesa, ma nessuno dei due la guardava davvero.
“Vittoria, c’è qualcosa che non mi stai dicendo, vero?” Chiese con la voce calma, ma tagliente, come una lama nascosta sotto un panno di seta. Posò il bicchiere sul tavolino, senza mai distogliere lo sguardo da me.
Sussultai, stringendo il mio bicchiere un po’ troppo forte. Mi sentivo tremendamente in difetto anche perché avevo passato tutto il pomeriggio con suo padre facendo l’amore. Dopo un attimo di esitazione dissi: “Cosa intendi, Luke? Non c’è niente… sto bene, davvero.” Cercai di sorridere, di prendere tempo, ma sentivo il mio viso tradirmi.

Lui inclinò la testa, come se volesse carpire i miei segreti. «Non so, è solo… ultimamente sei diversa. Sempre distratta, sempre da un’altra parte. Manchi gli appuntamenti, sei perennemente in ritardo…” Cercai di imbastire qualche scusa riguardo il lavoro, ma lui continuò a parlare: “Sento che non è un buon periodo, anche per me sai? Mi sembra che tutto stia cadendo a pezzi, la mia storia con te, il rapporto con mio padre…”
La sua espressione si fece amara come se stesse masticando qualcosa di sgradevole. L’accenno a suo padre mi fece sudare freddo. Deglutii…
“Perché cosa c’è che non va, nel vostro rapporto?” Dissi sperando che fosse lui a cambiare discorso. Mi guardò e disse: “Sinceramente non lo so, ultimamente mi tratta con sufficienza, come se la mia presenza gli desse fastidio… Anche nel lavoro, prima mi elogiava, mi diceva spesso che ero il suo miglior collaboratore, ma oggi…”
Lo interruppi accarezzandogli il viso: “Tesoro, ma tu sei grande ormai, non devi sentirti al centro del mondo, è possibile che tuo padre abbia i suoi problemi e non devi pensare che sia tu la causa…” Mentivo e le mie parole uscivano in fretta, troppo in fretta, come se stessi cercando di convincere me stessa oltre che lui.

Si sporse verso di me, gli occhi socchiusi. “Sì, sì ma non è di lui che voglio parlare, sento che tra noi c’è qualcosa che non va e non è solo lavoro. C’è qualcosa… qualcosa che non mi quadra. Vittoria mi tradisci? Hai un altro uomo?” Fece una pausa, passandosi una mano sul viso. «Dimmi la verità!”
Il mio stomaco si contorse. Ogni fibra di me voleva confessare, liberarmi di quel peso, ma sapevo che la verità avrebbe distrutto tutto: Luke, la sua famiglia, il fragile equilibrio che stavamo cercando di mantenere. “Luke, ma cosa vai a pensare? Dissi, stringendogli il braccio. «Non c’è niente di cui preoccuparti. Ti amo.” Le parole mi bruciavano in gola, ma le pronunciai con tutta la convinzione che riuscii a raccogliere.

Lui si ritrasse leggermente, come se il mio tocco lo disturbasse. “Ti amo, Vittoria. Lo sai. Ma non posso fare a meno di pensare che mi stai nascondendo qualcosa. Perché non sei più la stessa?” La sua voce si incrinò, mostrando una fragilità che mi fece male. “Se c’è qualcosa, dimmelo. Non voglio scoprirlo per caso.”
“Non c’è niente da scoprire…” Mentii ancora, abbassando lo sguardo per non affrontare il suo. “Sono solo stressata, tutto qui. Il lavoro, il matrimonio da organizzare… è tanto. Dammi un po’ di tempo, okay?”
Luke non rispose subito. Si limitò a fissarmi, come se stesse cercando di leggere tra le righe. Poi, con un sospiro, si alzò dal divano. “Va bene. Ma non sono cieco. E non sono uno che si arrende facilmente. Se c’è qualcosa che devo sapere, lo scoprirò.”
Quelle parole rimasero sospese nell’aria, come una minaccia velata. Da quel momento, il destino iniziò a tessere la sua rete, e ogni passo falso ci avvicinava inesorabilmente alla rovina. Luke non si fidava più, e i suoi sospetti, come un’ombra, ci seguivano ovunque.

Uscii da quella casa con un forte desiderio di fuga, di un momento per respirare lontano dal peso delle bugie. Così quando la sera dopo la mia amica Claire mi propose di uscire per una serata tutta nostra, accettai senza esitazione. “Andiamo al The Alchemist a Shoreditch.” Mi disse Claire, con un entusiasmo che non riuscivo a provare, ma fingevo per non deluderla. “Cocktail spettacolari, luci al neon, un po’ di vita. Ti farà bene, sembri un fantasma ultimamente.” Lei non sapeva nulla della mia storia.



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dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
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