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Adamo Bencivenga
LA RETE 3
Il gioco mortale di Vittoria Evans
Ero sopravvissuta, sì, ma sapevo che non avrei mai potuto sfuggire al mio passato e alla mia condanna. Ero la sopravvissuta, ma anche la più sfortunata perché continuavo a vivere….



 
Il locale era un’esplosione di colori e suoni: luci viola e blu che danzavano sulle pareti, il ritmo pulsante della musica elettronica, il tintinnio dei bicchieri e le risate di una folla che sembrava non avere preoccupazioni. Indossavo un vestito verde smeraldo, aderente, ma meno provocante del mio solito, i capelli raccolti in una coda alta che mi dava un’aria quasi innocente. Claire, con un bicchiere di mojito in mano, chiacchierava di lavoro e pettegolezzi, ma io ero distratta, il mio sguardo vagava tra la folla, come se temessi di essere osservata.
Fu allora che lo vidi. Stephen. Seduto a un tavolo d’angolo da solo, un bicchiere di whisky davanti a lui, gli occhi fissi su di me come un predatore che studiava la sua preda. Il mio cuore si fermò per un istante, poi accelerò, un misto di rabbia e adrenalina che mi bruciava nelle vene. Non poteva essere una coincidenza, e poi quello non era certo il suo ambiente! Mi scusai con Claire, e mi feci strada tra la folla, il passo era deciso, ma il respiro corto.

“Cosa ci fai qui?” Lo aggredii. Lui alzò lo sguardo, il volto impassibile. “Questo è un locale pubblico. Non posso venire a bere qualcosa?”
“Non prendermi in giro.” Ringhiai con l’adrenalina in corpo. “Tutto questo è assurdo… Mi stai seguendo. Non mentire.” Il sospetto di Luke mi aveva reso paranoica, ogni ombra mi sembrava una minaccia, ogni sguardo un giudizio. “Sei pazzo, Stephen. Se qualcuno ci vede…”
Lui si appoggiò allo schienale della sedia, un mezzo sorriso che mi fece venire voglia di schiaffeggiarlo. “Rilassati. Non ti sto seguendo. Ero già qui quando sei arrivata. Coincidenza.” Ma il modo in cui lo disse, con quella calma studiata, mi fece capire che mentiva. Lo conoscevo troppo bene ormai, ogni sua inflessione, ogni pausa. Era lì per me, e il pensiero mi fece infuriare ancora di più.

Mi sedetti al suo tavolo. “Luke sospetta.” Sbottai, abbassando la voce. “Me lo ha detto ieri e tu cosa fai? Te ne vai in giro a pedinarmi come un ossessionato. Se qualcuno ci vedesse insieme, se Luke lo scoprisse…”
Stephen si irrigidì, il sorriso svanì. Strinse il bicchiere con forza. “Cosa vuoi dire? Luke sa qualcosa? Sospetta di noi? Di me? Cosa ti ha detto?”
“Non sa niente di preciso, ma è sospettoso. Mi ha chiesto se lo tradisco, Stephen capisci? Non è stupido. E se continua a farmi domande… non so quanto potrò reggere.” Mi passai una mano tra i capelli e aggiunsi. “Non capisci? Questo gioco sta diventando troppo pericoloso. Devi smetterla di seguirmi.”

Lui si alzò di scatto, il movimento così rapido che quasi fece cadere il bicchiere. “Non sono io quello che sta giocando, Vittoria!” Disse. “Sei tu che mi hai trascinato in questo casino. E ora mi dici di smettere? Come se fosse facile come girare un interruttore.” Si avvicinò quasi per baciarmi. “Non posso smettere. Non voglio.”
Sentii il mio sangue salire fino al viso, sentii tutto il mio corpo sciogliersi, un forse caldo tra le gambe e la voglia di cedere. Mi guardai intorno avevo paura che Claire mi potesse vedere. “Dobbiamo andarcene.” Dissi.
Vidi nei suoi occhi un lampo di trionfo, come se avesse ottenuto ciò che voleva. “Andiamo, allora.”
Tornai da Claire con un sorriso forzato sulle labbra. Lei era in compagnia di una sua vecchia conoscenza. “Scusa, tesoro, non mi sento tanto bene. Devo andare.” Claire mi guardò, preoccupata, ma non fece domande. “Sicura? Vuoi che ti accompagni?” “No, tranquilla, prendo un taxi.” Poi uscii dal locale e iniziai a camminare con Stephen dietro di me a debita distanza.

A pochi passi da The Alchemist, in una stradina stretta e male illuminata, vidi una pensione fatiscente, una di quelle strutture che sembravano esistere solo per ospitare segreti inconfessabili. Il Rose & Crown Inn aveva l’insegna al neon mezza bruciata e le finestre sporche.
Non ci pensai due volte ed entrai, era il posto perfetto per scomparire, per nascondersi dagli occhi indiscreti di Londra. Feci cenno a Stephen di seguirmi, il campanello arrugginito emise un suono stridulo, pagai in contanti per una stanza al secondo piano, senza fare domande né guardarmi indietro.

La stanza era squallida con un forte odore di muffa: un letto con lenzuola stropicciate, un comodino scheggiato, una lampadina nuda che pendeva dal soffitto. Ma non mi importava nulla. Stephen chiuse la porta dietro di noi, il rumore del chiavistello mi fece pensare ad un punto di non ritorno. Mi misi sul bordo del letto e Stephen era lì in piedi, il respiro pesante, gli occhi che bruciavano di un desiderio che non aveva nulla di romantico. Non era amore, non più. Era un’ossessione, una volontà feroce di possedermi, di farmi sua.
“Sei pazzo.” Dissi. “Tutto questo ci distruggerà per sempre, lo sai?”
Stephen non rispose subito. Si tolse l’impermeabile, lasciandolo cadere sul pavimento sporco, e si avvicinò. “Non m’importa.” Mormorò. “Non m’importa di niente, Vittoria. Sei mia.” Le sue mani mi afferrarono, ma non c’era dolcezza, solo una forza che era quasi violenza. Mi spogliò tutta e poi mi spinse contro il letto, e prima che potessi reagire, strappò le lenzuola dal materasso, usandole per legarmi i polsi alla spalliera di ferro. “Non ti muoverai. Sarai mia per tutto il tempo che voglio.”

Lo fissai, il cuore mi batteva forte, non di paura, ma di una strana accettazione. “Cosa vuoi fare, Stephen?” Chiesi. “Pensi di potermi domare? Che sarò tua in questo modo?” Lo sfidavo, anche immobilizzata, anche con i polsi legati e il corpo nudo. Ma dentro di me tremavo. Non per quello che lui poteva farmi, ma per la consapevolezza che questo gioco, questa danza mortale, stava sfuggendo al suo controllo razionale.
Stephen non rispose. Uscì dalla stanza senza una parola, lasciandomi lì, legata.

Rimasi sola, i polsi legati stretti alla spalliera di ferro del letto, il metallo freddo che mi mordeva la pelle ad ogni piccolo movimento. Il silenzio era opprimente, rotto solo dal ronzio intermittente della lampadina gialla sopra di me, che oscillava appena, proiettando ombre distorte sulle pareti scrostate. L’odore di muffa si mescolava al sentore acre del mio stesso sudore, e ogni respiro sembrava amplificare il battito del mio cuore. Mille pensieri mi travolgevano. Dove era andato Stephen? Sarebbe tornato, o mi avrebbe lasciata lì, prigioniera di quella squallida camera d’albergo, come un trofeo dimenticato?

Il terrore mi stringeva la gola. E se non fosse tornato? E se fosse successo qualcosa di irreparabile? Immaginai scenari cupi: il concierge che trovava la porta chiusa, i giorni che passavano, il mio nome su qualche giornale scandalistico. Pensai di gridare, di chiamare aiuto, di battere i piedi contro il materasso per attirare l’attenzione di chiunque potesse sentirmi. Ma il pensiero dello scandalo mi fermò. Cosa avrebbero detto di me? Una giovane donna trovata nuda in un motel di quart’ordine e legata dal suo amante, il famoso politico Stephen Williams! No, non potevo permetterlo. Mi imposi di calmarmi, di respirare profondamente, di contare i secondi per tenere la mente occupata. Uno, due, tre… Ma ogni scricchiolio del pavimento, ogni rumore lontano nel corridoio, mi faceva sobbalzare, convinta che fosse lui, o peggio, qualcun altro.

Eppure, in quel terrore, c’era una parte di me che non smetteva di analizzare, di sfidare. Cosa aveva in mente Stephen? Pensava davvero che questo gioco malato potesse legarmi a lui, che la paura mi avrebbe resa docile? O era lui stesso intrappolato, incapace di fermarsi, spinto da un’ossessione che lo consumava più di quanto consumasse me? Mi chiesi se lo conoscessi davvero, se l’uomo fascinoso che avevo circuito, raggirato, ingannato fosse mai esistito, o se fosse sempre stato questo spettro tormentato sotto la facciata di un uomo irreprensibile.

Il tempo si dilatava, ogni minuto un’eternità. Il sudore mi colava lungo la schiena, i muscoli delle braccia mi facevano male per la posizione innaturale. Cercai di muovermi, di allentare le lenzuola che mi stringevano i polsi, ma erano annodate con una cura maniacale. Mi sembrava di sentire ancora l’eco della sua voce – “Sarai mia” – e un brivido mi attraversò, non solo di paura, ma di una consapevolezza oscura: questo non era solo un gioco di potere, ma una discesa in un abisso da cui nessuno dei due sarebbe uscito indenne.
Poi, finalmente, un rumore. Passi pesanti nel corridoio. La chiave nella serratura. Trattenni il fiato, gli occhi fissi sulla porta, il cuore che sembrava voler esplodere. Era lui. Doveva essere lui. Ma quando la porta si aprì, e Stephen rientrò con un sacchetto di plastica in mano, il suo viso era una maschera di tormento, capii che il vero pericolo non era la solitudine, ma ciò che sarebbe successo ora.

“Stephen, slegami cazzo… Sei uno stronzo!” Gli urlai contro piena di rabbia. Lui tirò fuori dal sacchetto due bottiglie di whisky. Ne prese una e iniziò a bere. Poi mi venne vicino, mi baciò la fronte e inginocchiandosi accanto al letto, mi sussurrò. “Non voglio farti del male.”
“Ti ho detto di slegarmi!” Gridai ancora più forte.
E lui. “Non posso Vittoria. Non posso lasciarti andare. Non voglio che tu sia di qualcun altro. Devi essere solo mia.” Continuò a bere finché non vide la fine e con gli occhi di fuori afferrò la bottiglia ormai vuota e stringendola la portò tra le mie gambe. “Devi essere mia. Solo mia.”
Era quasi un lamento cercando di reclamare qualcosa che non poteva possedere totalmente. Con l’altra mano mi schiuse le labbra e poi senza guardarmi negli occhi iniziò a penetrarmi. Il dolore fu acuto, insopportabile. “Stephen, sei pazzo, smettila. Basta!” Urlai, le lacrime che mi bruciavano gli occhi, ma lui non si fermava. I suoi occhi erano vuoti, persi in un luogo dove non c’era più razionalità, solo il bisogno di dominarmi, di ridurmi a un oggetto che poteva controllare.

“Non voglio.” Gridai ancora, mentre continuava a spingere, il suo respiro irregolare, le mani che tremavano. “Anche io non vorrei, ma devo. Devi capire che sei mia. Che non puoi essere di Luke e di nessun altro.” Le lacrime gli rigavano il viso, un contrasto grottesco con la brutalità dei suoi gesti, poi aggiunse. “Ti amo, cazzo, ti amo, ma mi stai distruggendo. Mi hai fatto diventare un mostro.”
Strinsi i denti, il dolore mi attraversava dal basso verso l’alto come una corrente elettrica. Senza esitare arrivò oltre il collo della bottiglia. Respirai forte per sentire meno dolore supplicandolo di smettere, ma anche in quel momento, una parte di me, quella parte oscura che aveva dato inizio a tutto, trovava una sorta di trionfo in quella disperazione. Lo avevo spinto oltre il confine, lo aveva portato a un punto di non ritorno. Ma il prezzo era alto, troppo alto. “Stephen.” Ansimai. “Smettila. Non sei questo. Non sei… un mostro. Tu sei l’uomo più affascinante che abbia mai conosciuto! Credi che se non ti avessi amato avrei dato inizio a tutto questo solo per la voglia di giocare?”

Lui indeciso se smettere lottò con i suoi fantasmi finché diede un altro colpo secco che mi fece sobbalzare e gridare aiuto, cercai di voltarmi per attutire i colpi, poi però tutto ad un tratto si fermò e lasciò la presa, la bottiglia scivolo tra le mie cosce e cadde a terra con un tonfo sordo. Crollò accanto a me piangendo. “Cosa ho fatto?” Disse, come se si fosse svegliato da un incubo. “Cosa sono diventato?” Mi sciolse i polsi e poi le caviglie. “Perdonami, Vittoria. Ti prego… perdonami.”
Non risposi. Mi alzai, il corpo dolorante, il vestito verde strappato. Lo guardai e vidi un uomo distrutto, ridotto a una larva umana, un’ombra di ciò che era stato. Non provavo pietà, non provavo amore, ma neanche odio. Solo una fredda consapevolezza: il gioco era andato troppo oltre. “Non può continuare così.” Dissi, mentre raccoglievo il cappotto. Mi coprii alla buona e uscii dalla stanza, lasciandolo lì, solo con il suo whisky, la sua disperazione e il peso di ciò che aveva fatto. Sapevo che non sarebbe stato l’ultimo capitolo. Ma una cosa era certa: il baratro era più vicino che mai, e nessuno dei due ne sarebbe uscito indenne.


*****

Passai una settimana isolata da tutti. Presi cinque giorni di ferie e andai a Sutton a trovare i miei. A Luke inventai la scusa che mia madre stava poco bene, anche se in realtà avevo solo bisogno di spazio per schiarirmi le idee. Nonostante le telefonate insistenti di Stephen, cercai di mettere da parte l’accaduto, ma non fu facile. Più volte al giorno ripensavo al suo cinismo, alla sua freddezza e alla sua consapevolezza di farmi del male. Era decisamente andato oltre, anche se nonostante tutto mi addossavo razionalmente una parte di quella colpa. Ogni sera, dopo cena, mi chiamava. Lui passeggiava con il cane sotto le stelle, mentre io mi chiudevo nella mia vecchia stanzetta da adolescente, circondata dai poster sbiaditi e dai ricordi di un tempo più semplice.

La prima sera, il telefono squillò mentre fissavo il soffitto, persa nei miei pensieri. Risposi, e la voce di Stephen, carica di emozione, ruppe il silenzio. "Vittoria, ti prego, dimmi che stai bene. Non ce la faccio a saperti così lontana, arrabbiata con me."
Risposi con una calma estrema. "Non sono arrabbiata, Stephen. Sono… confusa. Non so più cosa voglio, cosa stiamo facendo."
"Lo so, lo so, ho sbagliato. Quella sera… è stato un errore. Ero frustrato, la nostra situazione mi sta logorando. Ma non è una scusa. Ti giuro, non succederà più."
Sospirai, stringendo il telefono. Le sue parole erano sincere, ma le avevo già sentite troppe volte. "Non è solo quella sera, Stephen. Il fatto è che abbiamo una visione diversa del nostro futuro."
"Lo so, amore.” Rispose. “Ma io ti amo, lo sai. Cambierò, farò tutto il possibile per renderti felice. Dimmi cosa vuoi, dimmi cosa posso fare."

Ci fu una pausa. Sentivo il suo respiro dall’altra parte della linea, il rumore della pioggia mentre camminava. Sapevo che la mia felicità era lontana mille miglia da lui, ma non glielo dissi. Chiusi gli occhi, cercando di immaginare un futuro che non riuscivo a vedere chiaramente. Infine dissi: "Non lo so Stephen. Vorrei poterti credere, ma ogni volta che penso di potermi fidare, succede qualcosa. E poi c’è Luke… come faccio?"
"Luke non sa chi sei veramente. Solo io ti conosco, amore. Ma hai ragione, dobbiamo cambiare qualcosa. Dimmi cosa vuoi, qualsiasi cosa, e lo farò anche ignorando la presenza di Luke."
Le sue parole mi colpirono. Era la prima volta che sembrava davvero disposto a trovare una soluzione senza per questo mettere in discussione il mio rapporto con suo figlio.

Passammo il resto della settimana a parlare, ogni sera, cercando un modo per salvare ciò che avevamo. Lui insisteva, giurando che sarebbe cambiato, ma sentivo che il suo fine era avere con me un rapporto alla luce del giorno, ma questo non sarebbe stato mai possibile, anche se mi fossi lasciata con Luke, lui sarebbe rimasto pur sempre il padre!
Dopo giorni arrivammo a un compromesso. Una sera, mentre ero seduta sul letto con le ginocchia raccolte al petto, mi propose: "E se trovassimo un posto nostro? Un appartamento, solo per noi due? Un luogo dove nessuno può scovarci, dove possiamo essere noi stessi e vivere la nostra vita fatta anche di piccole cose? Tu e io senza la paura di Luke o di chiunque altro."

"Un appartamento?” Chiesi. “Stephen, non è così semplice. E poi, come lo giustificherei? Luke non è stupido, se ne accorgerebbe."
"Lo so, ma ascoltami. Tu affitti l’appartamento a nome di un’agenzia. Sarà il nostro segreto, un nido d’amore. Luke non lo saprà mai. Potremo vederci lì, passare del tempo insieme, senza guardarci le spalle. Ti prego, pensaci."
Ci pensai. Ci pensai per tutta la notte, rigirandomi nel letto. Era rischioso, ma l’idea di avere un posto nostro, un rifugio dove poter essere semplicemente noi, mi attirava. Certo sì lui non avrebbe lasciato Ingrid, come io Luke, ma sarebbe stata comunque una prova.
Alla fine, cedetti.
"Va bene, Stephen. Lo farò. Affitterò un appartamento. Ma deve rimanere tra noi, capito? Nessuno deve saperlo."
"Te lo giuro. Sarà il nostro segreto. Ti amo, lo sai, vero?"
"Lo so. Ma non farmi pentire di questa scelta."


*****



Una settimana dopo, trovai un piccolo appartamento a Londra, in una strada tranquilla di Camden. Era modesto, ma accogliente, con grandi finestre che lasciavano entrare la luce del pomeriggio. Firmai il contratto e quando diedi le chiavi a Stephen, nei suoi occhi vidi un misto di gioia e speranza.
"È perfetto. Questo è il nostro inizio, vedrai. Qui possiamo essere felici. Goderci le piccole quotidianità, amarci!"
Lo guardai. "Lo spero, Stephen. Ma dobbiamo essere prudenti. Promettimelo."
"Te lo prometto. Questo posto è solo nostro. Nessuno ce lo porterà via."
Ci abbracciammo, e per la prima volta dopo tanto tempo, sentii che forse, solo forse, potevamo farcela. Ma in fondo al cuore, una piccola voce mi avvertiva che i segreti, anche quelli costruiti con amore, hanno sempre un prezzo da pagare.
Il lunedì e il venerdì erano i giorni dedicati ai nostri incontri, momenti rubati al resto del mondo in quel piccolo appartamento a Camden, il nostro rifugio segreto dove fingevamo di essere una coppia normale. Io cucinavo, lasciando che il profumo di rosmarino e aglio riempisse la cucina, mentre Stephen apparecchiava la tavola con una cura quasi maniacale, come se ogni gesto potesse rendere reale l’illusione di una vita che non avremmo mai avuto. Dopo cena, sistemavamo la cucina insieme, i nostri movimenti sincronizzati come in una danza silenziosa, poi ci sedevamo sul divano con un drink in mano, il ghiaccio che tintinnava nei bicchieri mentre le luci di Londra filtravano attraverso le tende. In quelle ore, il mondo fuori – Luke, Ingrid, le aspettative, i segreti – sembrava svanire, ma c’era sempre un’ombra, un peso che ci seguiva, anche in quel nido che avevamo costruito con tanto sforzo.

Un lunedì sera, mentre lavavo i piatti e Stephen asciugava le posate con uno strofinaccio, il silenzio tra noi si fece più pesante del solito. Lo sentivo, il modo in cui i suoi occhi mi seguivano, come se stesse cercando qualcosa che non riuscivo a dargli.
“Vittoria… tutto questo… è abbastanza per te? Dimmi la verità, è ciò che desideravi?”
Mi voltai, le mani ancora bagnate e lo fissai. “Cosa vuoi dire? Non è quello che volevi? Un posto tutto nostro?” Lui rise, un ghigno amaro che non aveva nulla di allegro. Si avvicinò, appoggiandosi al lavello, così vicino che potevo sentire il calore del suo corpo. “Non fraintendermi, amore. Questo posto è… perfetto. Ma non è abbastanza, non ci rende una coppia. Non quando so che torni da lui, che dormi nel suo letto, che gli sorridi come se fosse tutto normale.” La sua voce si incrinò e nei suoi occhi vidi di nuovo i fantasmi di un tempo. “Ogni volta che ti immagino con Luke, è come se qualcuno mi strappasse qualcosa dentro.”

Sospirai, asciugandomi le manie cercando di mantenere la calma. “Stephen, lo sapevi sin dall’inizio. Sapevi chi ero, chi è Luke per me. Questo appartamento, questo… compromesso, è una tua idea. Non puoi cambiare le regole ora.”
“Regole?” Mi prese per un braccio. “Non ci sono regole in questa cosa, Vittoria. Ogni volta che ti tocco, ogni volta che ti guardo, voglio di più. Voglio tutto. Non voglio dividerti con mio figlio, non voglio nascondermi come un ladro. Voglio una vita con te, cazzo!”
Eravamo di nuovo sul baratro. Mi avvicinai, posando una mano sul suo petto, sentendo il battito accelerato del suo cuore sotto la camicia. “E cosa proponi, Stephen? Che lasci Luke? Che distruggiamo tutto? La tua famiglia, la tua carriera, la mia vita? Pensi che potremmo essere felici, con il peso di tutto questo sulle spalle?”

Lui mi strinse più forte il braccio. “Sì, lo penso. Lo penso ogni dannata notte, quando non riesco a dormire. Dimmi che lo vuoi anche tu. Dimmi che sogni una vita dove non dobbiamo nasconderci, dove non dobbiamo fingere.” Lo fissai. Una parte di me voleva dirgli di sì per vedere fino a che punto sarebbe arrivato, fino a quale abisso, ma l’altra parte mi tratteneva. “Non è così semplice.” Sussurrai, liberando la mano dalla sua presa. “Non possiamo cancellare tutto il resto. Almeno non ancora.”
Stephen si allontanò di un passo. “Non ancora…” Ripeté, come se stesse assaporando l’amarezza di quelle parole. “Ma un giorno, Vittoria. Un giorno dovrai scegliere. E io prego che sceglierai me.”
Non risposi. Finimmo di sistemare la cucina in silenzio, e quando ci sedemmo sul divano con i nostri drink, il peso di quella conversazione rimase tra noi, come un ospite indesiderato.

Pensai convinta che quella casa non era stata il giusto compromesso, anche perché nel frattempo, Luke stava diventando sempre più distante, come se il suo istinto gli stesse gridando qualcosa che non voleva ancora accettare. Il giovedì precedente, mentre eravamo a cena in un piccolo ristorante italiano vicino a casa sua, notai il suo atteggiamento diverso. Non era il Luke aperto e fiducioso che conoscevo, ma un uomo che mi studiava, che pesava ogni mia parola. Eravamo seduti a un tavolo d’angolo, le piccole fiamme delle candele che ondeggiavano tra noi, ma l’atmosfera era tutt’altro che romantica.
“Vittoria.” Iniziò, posando la forchetta accanto al piatto. “Dall’ultima volta che ci siamo parlati non è cambiato nulla, continui ad essere strana. Sempre di corsa, sempre con la testa altrove. Non credo più che sia solo un problema di lavoro, sai?”
Deglutii, cercando di mantenere il sorriso. “Luke, te l’ho detto, è solo un periodo intenso. Il lavoro, il matrimonio da organizzare… è tanto.” La bugia mi uscì con facilità, ma il modo in cui mi guardava mi fece capire che non se la stava bevendo.
“Non è solo il lavoro.” Ripeté. “Lo vedo, sai? Il modo in cui guardi il telefono, come se stessi aspettando qualcosa. O qualcuno.” Si sporse verso di me, gli occhi socchiusi. “Dimmi la verità, Vittoria. C’è un altro? È per questo che sei così distante ed evasiva?”

Il mio stomaco si contorse. Ogni fibra di me voleva negare, ma il suo sguardo era così penetrante che per un istante temetti che potesse vedere attraverso di me, fino al mio segreto, fino a leggere il nome di suo padre. “Luke, no, non c’è nessuno.” Dissi, posando una mano sulla sua, cercando di trasmettere una sicurezza che non sentivo. “Ti amo. Lo sai. È solo… stress. Passerà vedrai…”
Lui non ritirò la mano, ma non ricambiò la stretta. “Ti amo, Vittoria, ma non sono cieco. È come se… come se ci fosse una parte di te che non mi appartiene più.” Fece una pausa, il viso teso, come se stesse soppesando le parole successive. “Non lo so.” Disse, scuotendo la testa. “Ma c’è qualcosa che non quadra. Da un po’ di tempo c’è un sospetto che mi sta lacerando…. Non vorrei dirtelo. Anzi mi vergogno…”
Vidi i suoi occhi inumidirsi e mi si strinse il cuore.

Dopo una pausa, prese coraggio e aggiunse: “Riguarda mio padre… Lo vedo quando parla di te, il modo in cui ti guarda quando sei a casa nostra. È… diverso. E tu… tu sei sempre così attenta quando c’è lui. Troppo attenta…”
Mi sentii gelare. Ogni parola di Luke era un passo verso la verità, e io non ero pronta a affrontarla. “Luke, ma cosa diavolo ti viene in mente? Stai immaginando cose che non esistono!” Dissi, alzando leggermente la voce. “Tuo padre è tuo padre. Io sono la tua fidanzata. Non c’è niente di strano, te lo giuro.”
Lui mi fissò per un lungo momento, come se cercasse una crepa nella mia facciata. Poi sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia. “Spero che tu abbia ragione.” Disse, ma il suo tono era privo di convinzione. “Perché se scopro che mi stai mentendo, Vittoria… non so cosa farò.”
Quelle parole mi seguirono per il resto della serata, come un’ombra.

Quella sera volle che dormissi da lui. Luke era stato insistente, quasi autoritario, come se volesse reclamarmi, segnare un confine che sentiva scivolargli via. Accettai malvolentieri, ma sentivo che non potevo contraddirlo. Andammo a casa sua, e quando entrammo nel soggiorno, trovammo Ingrid e Stephen seduti sul divano, immersi in una conversazione che si interruppe al nostro arrivo. Ingrid alzò lo sguardo con il suo sorriso educato, ma freddo come sempre, mentre Stephen, con un bicchiere di whisky in mano, si irrigidì visibilmente.
Luke, senza dire una parola, mi strinse platealmente tra le braccia davanti a loro, le sue mani possessive mi avvolsero i fianchi come una morsa, e mi baciò ardentemente. Era tutto chiaro. Voleva mettermi alla prova, come se stesse cercando di capire se fossi davvero sincera, se fossi davvero sua. Mi baciò ancora ed io ovviamente corrisposi con la stessa intensità, ma ogni suo bacio era un messaggio diretto non solo a me, ma a chiunque ci stesse guardando, un’affermazione di proprietà che pesava come un macigno nell’aria già carica di tensione.

Stephen ci guardò senza dire nulla, ma il suo volto tradiva una tempesta che ribolliva sotto la superficie. Vidi la sua faccia arrossarsi, le guance che si tingevano di un rosso cupo, come se il sangue gli stesse salendo alla testa, pronto a esplodere. Il suo sguardo, solitamente controllato in quelle situazioni, scintillò di una rabbia che non poteva esprimere. Stringeva il bicchiere con tanta forza che le nocche gli sbiancarono tradendo il tumulto che cercava di nascondere.
Per un istante, il suo sguardo si incagliò nel mio, e ciò che vidi non era solo gelosia, ma un misto di dolore, desiderio e furia repressa, come se stesse combattendo una battaglia interiore per non alzarsi e strapparmi dalle braccia di suo figlio. La sua mascella si contrasse, e per un momento temetti che potesse esplodere lasciando cadere la maschera che indossava con tanta fatica.

Ingrid, ignara del terremoto che si stava scatenando a pochi passi da lei, sfiorò il braccio di Stephen con un gesto casuale, quasi meccanico. “Luke, Vittoria, siete arrivati giusto in tempo per il dessert.” Non si era accorta del rossore sul volto di Stephen, né del modo in cui il suo respiro si era fatto più corto, più affannoso. Ma io sì. Lo vedevo, lo sentivo, il modo in cui ogni fibra del suo essere gridava per me, anche se le sue labbra restavano sigillate. Poi si alzò per versarsi un altro whisky. Ma mentre il liquido riempiva il bicchiere, vedevo la sua mano tremare e il whisky che traboccava dal bicchiere. Poi allungò il braccio tenendo la bottiglia in mano e puntandola verso di me. Era un gesto violento, simile a quando mi aveva legata in quella pensione, che solo io potevo capire.

In quel momento capii che non avrebbe potuto sopportare quella situazione ancora a lungo. Sperando che Luke non si fosse accorto di quel dettaglio, lo pregai di avviarci nella nostra stanza rifiutando cortesemente il dessert di Ingrid. “Luke, tesoro, sono stanca.” Sussurrai con una punta di urgenza, sfiorandogli il braccio per distoglierlo dalla scena. “Andiamo di sopra, ti prego.” Lui mi guardò con i suoi occhi che cercavano di leggere i miei, come se stesse cercando una crepa nella mia facciata. Poi annuì, riluttante, e mi prese per mano, guidandomi verso le scale.

Mentre salivamo, sentii lo sguardo di Stephen che mi bruciava la schiena, come un marchio. Non avevo bisogno di voltarmi per sapere quanto i suoi occhi fossero fissi su di me, che la sua rabbia inespressa stava scavando solchi nel suo cuore. Una volta nella stanza, Luke chiuse la porta con un gesto deciso, e si voltò verso di me. “Cos’è stato, Vittoria?” Chiese. “Perché sembravi così nervosa là sotto? È per mio padre? È per il modo in cui ti guarda?”
Il mio cuore si fermò per un istante. “Luke, non essere ridicolo.” Risposi, cercando di mantenere la calma. “Tuo padre non c’entra nulla. Ero solo imbarazzata davanti ai tuoi, non mi aveva mai baciata così in presenza di altre persone, tutto qui.” Mentivo, e lo sapevo. Ogni parola era un altro chiodo nella bara della fiducia che un tempo ci univa. Luke mi fissò, il suo sguardo che scavava nel mio. “Spero che tu stia dicendo la verità.” Disse, avvicinandosi e posando una mano sulla mia guancia. “Perché non sopporterei di perderti. Non per lui. Non per nessuno.”

Non potevo cedere. Gli sorrisi, un sorriso che era più una maschera che un’espressione sincera, e lo baciai, sperando di spegnere i suoi sospetti con il calore del mio corpo e la mia disponibilità. Ma mentre le sue labbra incontravano le mie, la mia mente era altrove, con Stephen, con quella rabbia che avevo visto nei suoi occhi, con il pericolo che si stava avvicinando sempre di più. Sapevo che me l’avrebbe fatta pagare perché quella scena, quel bacio davanti a lui, aveva acceso una miccia che non potevamo più spegnere. Stephen non avrebbe mai lasciato che Luke mi reclamasse così, non senza combattere. E io, intrappolata tra loro due, sentivo il peso del mio gioco mortale stringersi intorno a me come un cappio.

Luke non ancora soddisfatto non perse tempo, salì sopra di me e mi pretese senza permesso. Ero esausta e mi chiedevo se fosse stato possibile che i due uomini della mia vita intendessero il sesso solo per ribadire il loro diritto sul mio corpo? E mentre lui mi penetrava sentivo un dolore insopportabile non diverso da quello della bottiglia.
Dopo l’amore non riuscii ad addormentarmi, il pensiero di Stephen, del nostro appartamento, del nostro segreto, mi consumava. Sapevo che il tempo stava per scadere, che i sospetti di Luke e l’ossessione di Stephen stavano avendo la meglio sul mio gioco. E quella parte di me, quella parte oscura che amava il rischio e l’azzardo, non poteva fare a meno di chiedersi quanto ancora avrei potuto spingermi oltre, prima che tutto crollasse. Eravamo all’epilogo? Mi sentivo in pericolo tanto che ogni mattino quando aprivo gli occhi credevo fosse l’ultimo.


*****


Come ogni lunedì, Stephen entrò nella nostra casa alle tre del pomeriggio, e come sempre mi facevo trovare sexy per lui con indosso un baby doll nero, un paio di autoreggenti e i tacchi alti. Come al solito iniziammo la nostra giornata amandoci con passione. Il piccolo appartamento a Camden si trasformava in un’alcova dove i nostri corpi si intrecciavano con una furia che era insieme passione e distruzione. Ma Stephen, quella volta, nella fretta di prendermi e fare l’amore, lasciò le chiavi nella toppa esterna. Fu un errore fatale, un dettaglio che avrebbe cambiato completamente le nostre vite.
Mentre facevamo l’amore e Stephen era dentro di me la porta si aprì! Di tutti le persone al mondo, l’unica che non avrebbe dovuto varcare quella soglia fece irruzione sapendo già cosa avrebbe trovato. Io e Stephen eravamo distesi sul pavimento e Luke ci vide fare l’amore. I suoi occhi, spalancati, passarono in un attimo dallo shock al dolore, come se il mondo che conosceva fosse impensabilmente più crudele e malvagio di quanto si aspettasse.

Non dimenticherò mai il suo sguardo: non era solo la coscienza di essere tradito, ma orrore puro. Un orrore che non si limitava alla scoperta di me e suo padre, ma che sembrava scavare più a fondo, come se avesse visto il vero volto di entrambi, due mostri che avevano distrutto la sua vita senza alcun riguardo. Stephen sopra di me era di spalle e si voltò solo quando cacciai un urlo sovrumano. Temevo il peggio, una reazione violenta da parte di Luke, ma lui non disse nulla e non si avvicinò. Lo schifo che provava gli impediva qualsiasi reazione. Si limitò a fissarci, il suo respiro corto, il volto pallido, la fronte sudata, poi sputando sul pavimento si voltò e corse fuori sbattendo la porta. Solo a quel punto Stephen si alzò di scatto, il suo volto era una maschera di panico. “Luke! Luke!” Gridò, ma era troppo tardi. Il silenzio che seguì fu assordante, rotto solo dal rumore delle chiavi che ancora dondolavano nella toppa.

La prima cosa che ci chiedemmo fu come Luke avesse scoperto l’indirizzo e la cosa più ovvia fu accusarci a vicenda, ma effettivamente non conoscevamo affatto la verità. Poi piano piano misi insieme i pezzi del puzzle… Luke non era arrivato lì per caso. I suoi sospetti, che si erano accumulati lo avevano spinto a cercare risposte. Non era più il ragazzo fiducioso che mi teneva la mano con adorazione; era diventato un’ombra di sé stesso, tormentato da dubbi che non osava confessare. Notava i miei ritardi, le mie scuse vaghe, il modo in cui evitavo di guardarlo negli occhi quando parlavamo di suo padre. Due giorni prima del lunedì fatale, mentre eravamo a cena in un ristorante sbadatamente prendendo il telefono era uscita dalla mia borsa una ricevuta di pagamento per l’affitto dell’appartamento a Camden. Non era intestata a me, ma il nome dell’agenzia e l’indirizzo erano lì, scritti in nero su bianco. Luke non aveva detto nulla, ma evidentemente aveva memorizzato l’indirizzo.

Quel lunedì, dopo il lavoro, aveva deciso di togliersi quella curiosità. Forse mi aveva seguita o forse aveva seguito il padre. Forse si era nascosto nell’ombra di un vicolo, finché dopo aver visto suo padre entrare era salito e aveva trovato le chiavi ancora nella toppa. Non aveva bussato. Aveva aperto la porta, e il mondo gli era crollato addosso.


******

Lo stesso giorno si consumò la tragedia. Stephen, tormentato dal rimorso e dal dolore dello sguardo di suo figlio, volle tornare a casa, convinto ormai di dire tutto a sua moglie e a suo figlio. Non potevo lasciarlo solo e lo seguii ed entrati in casa trovammo il corpo di Luke appeso a una corda sulla scala di legno che portava al piano superiore. La scala, con i suoi gradini lucidati e il corrimano intarsiato, era sempre stata il cuore della casa. Ora, era diventata una scena di orrore. La corda, una comune fune da giardinaggio presa dal capanno sul retro, era annodata con precisione, come se Luke avesse pianificato in anticipo ogni dettaglio, come se la scoperta di me e suo padre non fosse altro che una conferma ai suoi sospetti.
Il suo corpo pendeva immobile, il volto pallido, gli occhi chiusi, come se il sonno lo avesse finalmente liberato dal dolore. Nessun biglietto, nessuna spiegazione, solo il silenzio di un gesto che gridava più forte di qualsiasi parola.

Stephen si fermò ai piedi della scala, mentre io lo osservavo sulla soglia di casa. Per un istante, credette che fosse un incubo, che il suo cervello, consumato dalla colpa, stesse giocando con la sua mente. “Luke…” Sussurrò mentre si avvicinava lentamente, le gambe che tremavano sotto il peso di ciò che vedeva. Toccò il corpo del figlio, freddo, inerte, e un urlo gli sfuggì, un suono primordiale, disumano. Cadde in ginocchio, le mani che coprivano il viso, un lamento acuto che sembrava squarciare l’aria. “No, no, no!” Gridava, mentre cercava di afferrare le gambe del figlio, come se potesse riportarlo indietro con la sola forza della sua disperazione. I paramedici arrivarono mezzora dopo, seguiti dalla polizia. La casa, un tempo un simbolo di perfezione, si riempì di estranei, di voci sommesse, di domande che nessuno osava fare ad alta voce

Le domande senza risposta pesavano come macigni. Perché Luke non aveva lasciato un biglietto? Cosa lo aveva spinto a un gesto così estremo? La polizia parlava di “motivazioni personali”, ma solo io e suo padre sapevamo la verità. Ingrid non era in casa ed io sgattaiolai fuori. Non volevo destare alcun sospetto per cui rimasi nei paraggi senza farmi vedere e poi quando vidi Ingrid rientrare aspettai circa una mezzora e rientrai in casa.

Ingrid era seduta sul divano, avvolta in una coperta, gli occhi vitrei, incapace di parlare. Stringeva una foto di Luke, scattata durante una vacanza in Cornovaglia anni prima, quando era solo un ragazzo con un sorriso aperto e il futuro davanti a sé. Ogni tanto, un singhiozzo le scuoteva il corpo, ma non c’erano lacrime, come se il dolore fosse troppo grande per essere espresso. Gli agenti le chiesero se Luke avesse mostrato segni di depressione, se ci fosse stato qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse spiegare il suo gesto. Ingrid scuoteva la testa, la voce ridotta a un sussurro. “Era il mio ragazzo… il mio bambino… era felice… o almeno, pensavo che lo fosse…” Le sue parole si spezzavano, e ogni frase era un coltello che si conficcava nel cuore di Stephen, che stava in piedi in un angolo, muto, il volto una maschera di pietra.

Lei non si dava pace, poi ad un certo punto esplose verso suo marito: “Cos’hai fatto? Cos’hai fatto?!” Urlò, come se una parte di lei, in quel momento, avesse intuito che la colpa non fosse nella depressione di Luke.
Poi si calmò e iniziò a ricostruire gli ultimi giorni di Luke, cercando disperatamente un indizio. “Era silenzioso, ultimamente.” Mormorò a un agente, stringendo la foto così forte che i bordi si piegarono. “Ma pensavo fosse lo stress… il lavoro, il fidanzamento con Vittoria… non pensavo…” Si interruppe, il mio nome le bruciava sulle labbra. Guardò Stephen, e per un istante, nei suoi occhi passò un’ombra di sospetto. “Tu lo sapevi, vero?” Chiese, la voce tremante. “Sapevi che c’era qualcosa che non andava. Perché non hai fatto niente?” Stephen non rispose, il suo silenzio un’ammissione di colpa che Ingrid non era ancora pronta a comprendere.

Dopo che la polizia se ne andò, rimanemmo soli nella sala, il silenzio interrotto solo dai singhiozzi di Ingrid al piano di sopra. Si sedette sulla scala, proprio sotto il punto in cui aveva trovato Luke, e fissò la corda che era stata tagliata e lasciata sul pavimento. Le sue mani tremavano mentre la toccava, come se potesse trovare una risposta in quel groviglio di fibre. “Luke…” Disse. “Perché non mi hai detto niente? Perché non mi hai affrontato?” Ma dentro di sé, conosceva la risposta. Luke non aveva bisogno di parole per esprimere il suo dolore; lo aveva visto, lo aveva vissuto, e quel dolore lo aveva consumato.
Stephen si alzò e andò nello studio, dove prese una bottiglia di whisky dal mobile bar. Bevve direttamente dalla bottiglia, il liquido che gli bruciava la gola ma non riusciva a spegnere il fuoco della colpa. Ogni sorso era un tentativo di anestetizzare il dolore, ma il volto di Luke, il suo sguardo di orrore nell’appartamento, tornava a tormentarlo. “È colpa mia.” Sussurrò, le lacrime che gli rigavano il viso. “Ti ho tradito, ti ho distrutto… mio figlio…” Si lasciò cadere sulla poltrona, il bicchiere che gli scivolava dalle mani e si frantumava sul pavimento.

Poi si voltò verso di me. Mi guardò come fosse la prima volta e urlò: “Ti odio! Cosa hai fatto?” Non c’erano risposte al dolore, al suo, al mio. Me ne andai lasciandolo lì nel dramma, nella cenere di una carriera e di una famiglia bruciata. Disperato si chiedeva se avesse potuto fermarlo, se avesse potuto parlargli, confessare tutto prima che fosse troppo tardi. Ma il tempo non torna indietro, e il rimorso era l’unica cosa che gli rimaneva.


******


Tornai a casa e dopo circa un’ora ricevetti la telefonata di Ingrid. La sua voce mi colpì come un pugno. “Luke non c’è più, come faremo? È finita, Vittoria. È tutto finito.” Riattaccò prima che potessi rispondere, lasciandomi con il telefono in mano, il cuore che batteva così forte da farmi male. Fu in quel momento sentendo la voce disperata di una madre che realizzai e il peso della colpa mi travolse. Crollai sul pavimento, le ginocchia che cedevano sotto di me. Luke, il ragazzo che mi aveva amata, che aveva sognato un futuro con me, che mi aveva guardata con occhi pieni di fiducia, era morto per causa mia, per il mio maledetto gioco! Non c’era bisogno di un biglietto per sapere la verità: lo avevo distrutto.
Io e Stephen, con il nostro gioco egoista, lo avevamo spinto in un abisso da cui non era riuscito a uscire. Mi strinsi le braccia al petto, come se potessi contenere il dolore, ma era troppo grande, troppo oscuro. Le lacrime non venivano; al loro posto, c’era un vuoto, un buco nero che minacciava di inghiottirmi.

Mi alzai e corsi allo specchio, fissando il mio riflesso come se fosse quello di un’estranea. Chi ero diventata? La donna che aveva iniziato tutto questo per sfida, per il brivido del potere, ora non riconosceva più il proprio volto. Ogni ruga, ogni ombra sotto gli occhi, sembrava gridare la mia colpa. Pensai a Luke, al suo sorriso, alla sua dolcezza, al modo in cui mi aveva stretta la mano quella sera al ristorante, cercando risposte che non gli avevo dato. “Ti amo.” Gli avevo detto, ma quelle parole erano state una menzogna, una maschera per coprire il mio tradimento. E ora lui non c’era più.

Chiamai Stephen, ma non rispose. Provai ancora, e ancora, finché non mi resi conto che non avrebbe risposto, che anche lui era perso nel suo dolore. Mi sedetti sul divano, le mani che tremavano, e ripensai a ogni momento, ogni scelta che mi aveva portata a questo punto. Il vestito rosso, il gioco di sguardi, l’appartamento a Camden, le chiavi nella toppa. Ogni passo era un chiodo nella bara di Luke, e io ero la mano che lo aveva conficcato.

Non potevo andare al funerale Stephen non mi avrebbe voluta. Non potevo affrontare Ingrid, con il suo dolore e il suo sospetto, né Stephen, con la sua colpa che specchiava la mia. Mi chiusi in casa, spegnendo il telefono, ignorando il mondo. Ma il silenzio non portava sollievo; portava solo il ricordo di Luke, del suo sguardo, del suo corpo appeso a quella corda. Ero stata io a tirare il cappio, anche se non avevo annodato la fune. Ero stata io a spezzarlo.
Eppure, in fondo al mio cuore, una parte di me, quella parte oscura che aveva dato inizio a tutto, si chiedeva se fosse davvero finita. Stephen era ancora là fuori, consumato dal suo dolore, ma ancora legato a me da quel filo tossico che ci univa. Sapevo che non sarebbe stato l’ultimo capitolo. Il nostro gioco, il nostro veleno, ci aveva distrutti, ma una parte di me temeva o forse sperava che non fosse ancora la fine.


******


Dopo quella tragedia, tutto sparì di colpo. Il mondo che conoscevamo, quello fatto di segreti, passione e illusioni, si disintegrò come cenere al vento. Stephen si ritirò dalla vita pubblica, un uomo che un tempo comandava sale conferenze e cene di gala, era ormai ridotto a un’ombra. Si trasferì in un paesino sperduto nel Dorset, una manciata di case di pietra battute dalla pioggia, dove il mare grigio si infrangeva contro le scogliere con un ruggito che sembrava echeggiare il suo tormento. Il suo matrimonio con Ingrid non aveva retto al dolore. Viveva in una piccola casa, poco più di una baracca, con le pareti umide e il tetto che scricchiolava sotto il vento. Lo immaginavo lì, ogni sera, quando si sedeva su una poltrona, una bottiglia di whisky a portata di mano, e fissava la foto incorniciata. Quella con lui, Luke e io, scattata durante una delle rare cene in cui la nostra facciata di famiglia felice sembrava reale. Luke in quella foto sorrideva, ignaro del tradimento che lo avrebbe distrutto; Stephen stringeva il bicchiere con un sorriso teso; io, al centro, guardavo l’obiettivo con quell’aria di sfida che aveva segnato il nostro destino. Quella foto era tutto ciò che gli restava, un reliquiario di un tempo che non sarebbe mai tornato. Aveva scelto la solitudine e per vicini, gente semplice, che non conosceva il suo passato. Non sapevano che ogni suo passo era un tentativo di sfuggire al ricordo di suo figlio, al suo corpo appeso a quella scala, al suo sguardo di orrore nell’appartamento a Camden.

Ingrid, invece, non si era mai ripresa. Dopo il funerale, si era chiusa in un silenzio che era più pesante di qualsiasi parola. Aveva lasciato la casa di famiglia, incapace di vivere tra quelle mura dove Luke era morto, e si era trasferita in un appartamento a Londra, un luogo asettico, privo di ricordi. Passava le giornate a scrivere lettere che non spediva mai, indirizzate a Luke, piene di domande che non avrebbero mai avuto risposta. “Perché non mi hai detto nulla, amore mio? Cosa ti ho fatto?” Scriveva, le parole macchiate di lacrime. Non aveva prove, ma il suo istinto le gridava che in qualche modo ero legata alla morte di suo figlio. Una volta mi chiamò, la voce fredda come il ghiaccio. “Vittoria.” disse, senza preamboli, “So che c’entri qualcosa. Non so come, non so perché, ma lo sento. Non ti perdonerò mai.” Quelle parole mi seguirono come un’ombra, un altro peso da portare.

Io, invece, andai avanti. O almeno, ci provai. Dopo la morte di Luke, Londra era diventata insopportabile, ogni strada un ricordo del nostro gioco mortale. Tornai a Sutton, dai miei genitori, cercando rifugio in un passato che sembrava più semplice, più puro. Fu lì che rincontrai Daniel, un vecchio amore dell’adolescenza, il ragazzo che mi aveva tenuta per mano sotto le stelle quando il mondo sembrava ancora pieno di possibilità. Daniel non sapeva nulla di Luke, di Stephen, del veleno che mi scorreva dentro. Mi guardava con occhi puliti, pieni di speranza, e io mi lasciai andare, non per amore, ma per il bisogno di sopravvivere. Ci sposammo un anno dopo, in una cerimonia semplice, lontana dai riflettori e dalle ambizioni che avevano segnato la mia vita con Stephen. Ebbi un figlio, un bambino con gli occhi chiari di Daniel, che chiamammo Ethan. Ogni volta che lo guardavo, vedevo una possibilità di redenzione, ma anche un promemoria della mia condanna. Ero una madre, una moglie, ma dentro di me portavo il peso di ciò che avevo fatto, un lutto che nessuna risata di Ethan poteva cancellare.

Una volta, anni dopo, all’aeroporto affollato di Heathrow, Stephen mi vide. Ero lì, in fila al controllo passaporti, con Ethan che mi tirava la mano e Daniel che rideva mentre cercava di distrarlo con un giocattolo. Lo vidi da lontano, persa nel caos di valigie e annunci di voli in partenza, ci fissammo negli occhi. Lui era fermo vicino a un chiosco di caffè, il cappotto sgualcito, il bavero alzato, il volto segnato dal tempo e dal dolore. Mi guardò, i nostri occhi si incagliarono, ma senza il fuoco della passione, solo una tristezza infinita. Non mi fermò, non mi chiamò. Sapeva che io, la sopravvissuta, avrei sempre trovato un modo per andare avanti, anche a costo di calpestare i cuori di chi mi amava. Ma lui? Lui era morto, il prezzo del mio danno, l’uomo che aveva perso tutto per una passione che non aveva potuto e saputo controllare.

Più tardi, quella sera, mentre era seduto al bar dell’aeroporto, Stephen scrisse una lettera che non spedì mai. La trovai anni dopo, tra le sue cose, quando un avvocato mi contattò per informarmi della sua morte. La lettera era stropicciata, scritta con una calligrafia tremolante, come se ogni parola gli fosse costata uno sforzo immenso.
“Vittoria.” Iniziava, “Ti ho vista oggi, all’aeroporto, con tuo figlio e quell’uomo. Eri così bella, così viva, come se il passato non ti avesse mai toccata. Io, invece, sono un relitto, un uomo che vive solo nei ricordi di ciò che ha perso. Non ti biasimo, non più. Sei sempre stata più forte di me, più forte di tutti noi. Ma sappi che non passa un giorno senza che io pensi a Luke, a te, a quello che abbiamo fatto. Ogni volta che chiudo gli occhi, vedo il suo volto, il suo sguardo, e so che è colpa mia. Ma è anche colpa tua. Non ti scrivo per accusarti, ma per dirti addio. Non ti cercherò più. Non ne ho la forza. Sii felice, Vittoria, se puoi. Io non lo sarò mai.”

Non firmò la lettera, ma non ce n’era bisogno. Quelle parole erano Stephen, il suo dolore, la sua resa. Quando l’avvocato me la consegnò, la tenni tra le mani per ore, rileggendola finché le parole non si sfocarono sotto le mie lacrime. Dopo la morte di Luke non avevo mai cercato di sapere cosa ne fosse stato di lui. Ma quella lettera mi spezzò, perché mi costrinse a guardare in faccia la verità: io ero andata avanti, sì, ma a un costo che non avrei mai potuto ripagare.

Tornai a casa, abbracciai Ethan e Daniel, ma dentro di me il peso della rovina non mi lasciava. Ogni sorriso di mio figlio, ogni carezza di mio marito, era un ricordo di ciò che avevo distrutto per arrivare lì. Ero sopravvissuta, sì, ma la mia forza era anche la mia condanna. Portavo il marchio di ciò che avevo fatto, un tatuaggio invisibile che mi bruciava la pelle ogni volta che chiudevo gli occhi. E mentre Ethan cresceva, mentre Daniel mi amava con una dedizione che non meritavo, io sapevo che non avrei mai potuto sfuggire al passato. Stephen era morto, Luke era morto, e una parte di me era morta con loro. Ma io, ero stata la più sfortunata perché continuavo a vivere, portando il peso di quella rovina come una croce, sapendo che il mio destino era stato il più amaro delle loro sconfitte.




FINE




Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.

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