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Adamo Bencivenga
LA RETE 1
Il gioco mortale di Vittoria Evans
Ero sopravvissuta, sì, ma sapevo che non avrei mai potuto sfuggire al mio passato e alla mia condanna. Ero la sopravvissuta, ma anche la più sfortunata perché continuavo a vivere….



 
Mi chiamo Vittoria Evans, e questa è la mia storia, una sopravvissuta al danno che ho causato e che a poco a poco mi ha devastato. Non sono la seduttrice che incanta e distrugge, né la preda di un’ossessione senza scampo. Sono una donna marchiata, resa invulnerabile da un veleno che mi scorreva dentro, un fuoco che mi ha temprata, ma che ha contaminato chiunque osava avvicinarsi. Anche lui sì, Stephen, lui, l’uomo che ha sacrificato tutto per me. La sua vita, la sua faccia, la sua dignità, la sua stessa esistenza, consumato da una passione che lo ha ridotto in cenere. La nostra è stata una danza di passione e rovina, un groviglio di follia che ha travolto ogni cosa, lasciando a terra morti e feriti ed io per un destino beffardo sono l’unica sopravvissuta.


*****


Tutto è iniziato un venerdì ad un ricevimento, una di quelle serate eleganti dove il potere e l’ambizione si mescolano al tintinnio dei calici di champagne. Certo sì, io sapevo chi era Stephen Williams! Un politico di spicco, un uomo rispettato e di potere, un padre di famiglia, il tipo che incarnava la perfezione universale e il self control britannico. Ma io non ero lì per caso. Lo avevo cercato, come si cerca un destino già scritto e lo avevo trovato come chi non aspettava altro.

Ero la fidanzata di suo figlio Luke, ma io e lui non ci eravamo mai incontrati. Con Luke ci frequentavamo da due anni e Stephen ignorava chi fosse quella donna che aveva fatto perdere la testa a suo figlio.
Durante quel ricevimento quando i nostri occhi si sono incrociati, ho sentito un brivido, un déjà-vu che mi riportava alla mia adolescenza, a quel legame morboso con mio fratello gemello, un amore al confine dell’incesto che si era spezzato con il suo suicidio. Se ne era andato senza un perché lasciandomi sola in un mare di domande, Quella tragedia mi aveva forgiata causandomi un danno interiore che non ero riuscita ad aggiustare, ma mi aveva anche insegnato anche a sopravvivere, a sfidare il dolore, il rischio e a giocare con il fuoco senza bruciarmi. E Stephen, con il suo fascino maturo, il suo carisma e il suo controllo apparente, era il fuoco che volevo sfidare. No, no, non era sentimento, ma solo la voglia di misurare il mio fascino, di mettermi alla prova con un uomo che aveva quasi il doppio dei miei anni. Certo sì intuivo il rischio e lo sporco di quel gioco, ma sapevo che ci sarei riuscita!

Bastò uno sguardo, il mio, che scivolò su di lui come seta, e il suo, che si incagliò nei miei occhi per un istante di troppo. Indossavo un abito aderente che sembrava scelto per ferire. Nero, leggerissimo, che scivolava sul mio corpo come un’ombra liquida. La mia arma più evidente era uno scollo profondo in cui pendeva malizioso un filo di perle che si adagiava sulla pelle. Lo spacco lungo la gamba lasciava intravedere appena il pizzo della mia calza, abbastanza da far vacillare i pensieri di chiunque mi guardasse troppo a lungo Non ero solo bella, ero un’arma vagante, affilata e seducente, che si muoveva con la sicurezza di chi sa di poter ammaliare e distruggere.

Quella sera però non riuscii ad essere disinvolta come il mio solito, parlai poco, ma ogni silenzio era carico di un’elettricità che bruciava l’aria. Appena ci incrociammo nella grande sala, tra diplomatici e industriali, un sorriso ambiguo mi curvò le labbra, lui notandomi si fermò, e con il bicchiere di champagne sospeso a mezz’aria lasciò una frase a metà: “Non capita spesso di incontrare donne come lei…”
Mi voltai fingendomi sorpresa: “Qualcuno come me?” Risposi con un filo di provocazione intrecciato alla dolcezza. “E chi sarei, esattamente, signor Williams?”

Sapevo di averlo incuriosito, come una freccia che centra il bersaglio, silenziosa, letale, mentre la preda ancora non sente il dolore. Lui non aveva idea di chi fossi, ma io conoscevo ogni dettaglio della sua vita: il matrimonio impeccabile, la carriera veloce e scintillante, le crepe nascoste sotto la facciata di uomo intoccabile. Ero lì per lui, non per Luke, anche se Luke era stata la miccia del mio gioco perverso, ma che in caso sarebbe stato anche il mio alibi perfetto. A mio modo lo amavo con quella tenerezza che si riserva a un ragazzo semplice, sincero, che non sospettava nulla del mio vitale desiderio dell’azzardo. Lo amavo certo, ma lui non avrebbe mai potuto saziare il mio gioco pericoloso.

“Vittoria, sei diversa stasera.” Mi aveva detto Luke poco prima, sfiorandomi la mano con quella fiducia cieca che mi faceva quasi male. “Solo un po’ di vino.” Avevo risposto, sorridendo, mentre il mio sguardo cercava già Stephen dall’altra parte della sala.
Luke era il mio freno, la catena che mi tratteneva dal buttarmi nel vuoto del desiderio, dal voler sfidare la realtà, trasgredire ogni legge morale. Ma Stephen… Stephen era altro. Era l’inavvicinabile! Il potere che si piega sotto il peso della tentazione, l’ambizione che si incrina per un istante di debolezza, la complessità di un uomo che non si accontenta di esistere, ma vuole bruciare. Insomma lui era la fiamma, e io la falena attirata dalla luce, pronta a consumarmi pur di sfiorarlo.

“Non lo so ancora…” Disse Stephen, avvicinandosi di un passo con la voce un po’ intima per una conversazione tra sconosciuti. “Ma credo che lo scoprirò presto.”
Lo fissai, lasciando che il mio sorriso parlasse per me. Poi dopo un sorso di spumante dissi: “Signor Williams, non tutti i misteri sono fatti per essere risolti.” Lui inclinò la testa, un lampo di curiosità, o forse di pericolo, negli occhi. “E se fossi il tipo che ama il rischio?” Insinuò rimanendo nel gioco.
“Adoro gli uomini audaci, quelli che si lanciano nell’ignoto senza temere cosa li aspetti…” Risposi, senza esitazione, e il mio sguardo lo inchiodò, come se potessi vedere ogni sua fragilità, ogni desiderio che non aveva ancora confessato.

Luke ignaro, dall’altra parte della sala, stava ridendo con qualcuno. Avevo timore che si avvicinasse perché il mio gioco prevedeva che Stephen non sapesse, almeno per il momento, della nostra relazione. Io, invece, sapevo esattamente cosa stavo facendo. E Stephen, senza ancora capirlo, stava già cadendo nella mia trappola.


*****

Qualche giorno dopo mi presentai nel palazzo dove lavorava Stephen Williams. All’epoca ero a capo della segreteria di un influente avvocato penalista, un ruolo che mi dava accesso a corridoi esclusivi e porte che si aprivano con un sorriso. Non mi fu difficile trovare una scusa, un fascicolo da consegnare, un appuntamento mai davvero fissato, per intrufolarmi in quell’edificio di vetri e potere dove Stephen regnava.
Lo incrociai nel corridoio, come se fosse un caso, ma nulla in me era casuale. Il mio passo rallentò appena, quel tanto che bastava e fingere di essere sorpresa. “Vittoria…” Disse lui, fermandosi. “Non mi aspettavo di vederla qui.” Sorrisi, lasciando che il silenzio tra noi si caricasse di possibilità. “Il mondo è piccolo, Dottor Williams.” Risposi, con un’intonazione che prometteva tutto e niente, mentre i miei occhi lo tenevano prigioniero, come se quel corridoio fosse l’inizio di un gioco che nessuno dei due avrebbe potuto più fermare.

Ci fu una lunga pausa e subito dopo Stephen mi invitò in una sala da tè poco fuori quel palazzo, un angolo discreto con tavolini di legno scuro e tende che filtravano la luce di quella splendida mattinata, creando un’intimità che sembrava fatta apposta per i nostri segreti ancora non svelati. Ci sedemmo, e il tintinnio delle tazze si mescolò al brusio sommesso degli altri clienti, ma per me c’era solo lui, con i suoi occhi che cercavano di decifrarmi come un codice.
“Allora, Vittoria…” Iniziò, appoggiando i gomiti al tavolo, il tono casuale ma con un sottofondo di curiosità affilata. “Chi è davvero? Lavora per l’avvocato Harris, ma non sembra il tipo da passare le giornate a prendere appunti.”
Sorrisi, mescolando lentamente il tè, lasciando che il cucchiaino girasse con una lentezza studiata. “Sono solo una segretaria che sa fare il suo lavoro. Non c’è molto da sapere.” La mia voce era morbida, un velo di mistero che lo invitava a insistere senza dargli nulla di concreto.
Lui inclinò la testa, un mezzo sorriso che tradiva quanto gli piacesse il gioco. “Non ci credo. Nessuno donna con il suo… fascino…” Disse, scegliendo la parola con cura. “Si limita a rispondere al telefono e archiviare documenti. Mi dica, da dove viene? Cosa la porta qui? E soprattutto chi è lei… Sa meglio di me che due incontri così ravvicinati in una città come Londra non fanno un caso, ma semplicemente un indizio…?”

Presi un sorso di tè, i miei occhi fissi nei suoi sopra il bordo della tazza, lasciandolo cuocere in quella pausa. “Diciamo che sono una che si sposta dove la porta il vento e lei, a tempo debito, scoprirà ogni cosa di me.” Risposi vaga con un filo di mistero. Prima che rispondesse, aggiunsi: “E lei, un uomo così influente… perché ha invitato una sconosciuta per un tè?”
Lui rise. “Forse mi piace il rischio. O forse…” Si sporse appena verso di me, abbassando la voce. “È lei che rende tutto così facile… anche il corteggiamento…”
“Lei mi sta corteggiando signor Williams?” Replicai, inarcando un sopracciglio, il tono leggero ma tagliente. “Faccia attenzione... Non sono il tipo che si lascia catturare facilmente.” Mi appoggiai allo schienale della sedia, creando una distanza fisica che era solo un’illusione, perché ogni mia parola, ogni mio sguardo, lo stava avvolgendo come una rete. Lo vedevo, il modo in cui pendeva dalle mie risposte, il modo in cui cercava di colmare i vuoti che lasciavo di proposito.

“Non sono uno che si arrende facilmente.” Disse, il suo sguardo che si faceva più intenso, come se volesse scavarmi dentro. “E qualcosa mi dice che lei valga la sfida.”
“Vedremo.” Risposi. Finii il mio tè, posando la tazza con un gesto lento, quasi cerimoniale. “Grazie per il tè. Ma ora devo andare.” Mi alzai, lasciandolo lì, con il desiderio che gli bruciava negli occhi e nessuna risposta alle sue domande, sapendo che ogni incertezza lo avrebbe fatto cuocere ancora di più.
Mentre andavo sentii la sua voce: “Vittoria… Desidero rivederla…” Ed io, voltando appena il viso: “Ci rivedremo molto presto Signor Williams…”


*****



Tornai il giorno dopo, pronta a intrecciare un altro filo nella mia rete che stavo tessendo attorno a Stephen. Il mio piano era chiaro: ogni incontro, ogni parola, doveva essere un passo in più verso di lui, un gioco di seduzione e controllo che lo avrebbe portato a cedere. Ma quando entrai nell’ufficio, la sua segretaria mi fermò. “Il signor Williams è partito questa mattina per Bruxelles. Una missione di due giorni. Posso lasciargli un messaggio?”
Il mio sorriso si congelò per un istante, una crepa nella maschera che indossavo. “No, nessun messaggio.” Risposi con un’ombra di delusione che non riuscii a nascondere del tutto. “Grazie lo stesso.” Mi voltai, sentii chiaramente il rumore dei miei tacchi che riecheggiava nel corridoio misto alla frustrazione sorda che mi stringeva il petto. Il mio piano, così meticolosamente orchestrato, era saltato! Due giorni. Due giorni in cui Stephen sarebbe stato fuori dalla mia portata, mentre il tempo scorreva verso il venerdì successivo, il giorno della cena di fidanzamento ufficiale con Luke.

Il pensiero di Luke mi pesava come un’ancora. Lo vedevo nella mia mente, il suo sorriso aperto, la sua fiducia incrollabile, ignaro del vortice che stavo alimentando altrove. “Vittoria, sei sicura di tutto questo? Se vuoi possiamo ancora aspettare…” Mi aveva chiesto la sera prima, prendendomi la mano con quella dolcezza che mi faceva quasi vacillare. “Non voglio perderti.” Io avevo annuito rassicurandolo, ma forse lui aveva capito cosa mi stesse bruciando dentro. Un fuoco che lui non avrebbe mai potuto accendere e tanto meno spegnere. Certo sì volevo quel fidanzamento, ma senza che sconvolgesse i miei piani, quel desiderio che correva altrove, verso Stephen, verso il pericolo, verso l’ignoto.

Uscii dal palazzo, l’aria fresca di Londra che mi colpiva il viso come uno schiaffo. Sconsolata, mi fermai un istante sul marciapiede, stringendo la borsa contro il fianco. Il pensiero di Stephen a Bruxelles, lontano, fuori dal mio controllo, mi irritava. Ma poi, iniziai a riflettere. Due giorni non erano nulla. Avrei aspettato. Avrei lasciato che l’assenza facesse il suo lavoro, che il pensiero di me si insinuasse nei suoi momenti di silenzio, nei suoi pensieri notturni. Quando sarebbe tornato, lo avrei trovato pronto, più vulnerabile, più affamato. Feci mente locale, era martedì, per cui Stephen sarebbe tornato giovedì e quindi avrei avuto ancora ventiquattro ore per mandare avanti il mio piano. E il venerdì, alla cena di fidanzamento, con Luke al mio fianco e gli occhi di tutti puntati su di noi, avrei saputo esattamente come muovermi per far sì che Stephen, ormai accalappiato dalla mia rete, non potesse più guardare altrove. In un certo senso quella cena aumentava di gran lunga il rischio ed a me piaceva giocare.


*****

Quel giovedì non avevo intenzione di lasciare nulla al caso. Mi aggiravo nei pressi del suo ufficio con la stessa determinazione di un predatore che segue le tracce della sua preda. Indossavo un trench beige, stretto in vita, corto, che ondeggiava appena mentre camminavo, e un paio di tacchi alti che scandivano la mia marcia trionfale. Non ero lì per lavoro, non davvero, ma avevo un fascicolo sotto il braccio, un pretesto perfetto, un altro filo nella rete che stavo tessendo.
Lo vidi uscire dall’edificio verso le cinque, il suo passo deciso, il volto segnato dalla stanchezza del viaggio, ma ancora impeccabile nel suo completo scuro. Mi fermai fingendo di controllare qualcosa sul telefono, lasciando che fosse il suo sguardo a trovarmi. E lo fece. I suoi occhi si posarono su di me. “Vittoria…” Disse, fermandosi, la voce che tradiva una sorpresa mista a piacere.
Alzai lo sguardo, un sorriso lento e studiato che si allargava sul mio viso. “Signor Williams…” Risposi, inclinando appena la testa, come se il nostro incontro fosse una coincidenza del destino. “Sembra che Londra sia più piccola di quanto pensassi.”
Lui rise, un suono basso e caldo che mi fece quasi vacillare. “O forse è lei che sa esattamente dove farsi trovare...” Si avvicinò di un passo, il suo sguardo che cercava di decifrarmi, come sempre. “Lavoro, immagino?” Indicò il fascicolo che tenevo in mano, ma il tono suggeriva che non ci credeva del tutto.
“Esatto.” Risposi, stringendo il fascicolo contro il petto, lasciando che il gesto attirasse i suoi occhi. “Un incarico dell’avvocato Harris. Ma confesso, è una scusa come un’altra per godermi questa città.” Stephen inclinò la testa. “Allora, visto che è qui, che ne dice di una passeggiata?” La sua proposta era un invito velato, e io lo accolsi con un cenno del capo, lasciando che il mio sorriso parlasse per me.

Camminammo lungo il Tamigi, dove l’acqua rifletteva le luci dei lampioni che iniziavano ad accendersi. Il vento mi scompigliava i capelli, e ogni tanto lasciavo che una ciocca mi sfiorasse maliziosamente il viso. La conversazione iniziò leggera parlando del tempo, del suo viaggio a Bruxelles e degli immancabili ritmi frenetici di Londra.

Ci fermammo vicino ad un parapetto e vedendo l’acqua che scorreva sotto di noi mi disse: “Lei forse non ci crederà, ma in questi due giorni mi è capitato di pensarla… devo ammettere che non è come le persone che incontro di solito. C’è qualcosa in lei… non so, un mistero che mi intriga.”
Sorrisi, voltandomi appena verso di lui. “Un mistero, dice? Forse è solo che non mi piace essere un libro aperto.” Presi una pausa, lasciando che le mie parole si depositassero. “E lei? Un uomo come lei, con tutto quel potere, quella… perfezione. Non si annoia mai?”
Lui rise. “A volte, come tutti. Ma poi arriva una donna come lei, e improvvisamente il mondo sembra meno prevedibile.”

Si avvicinò di un passo, il suo tono che si faceva più intimo. “Vittoria, cosa sta cercando davvero? Non credo che sia qui solo per consegnare dei fascicoli.”
Il mio cuore iniziò a battere disordinatamente, ma tenni la maschera ben salda. “Forse cerco qualcosa che mi faccia sentire viva.” Risposi con la voce bassa, quasi un sussurro. “E lei? Cosa cerca, quando non è occupato a governare il mondo?” Lo sfidai con lo sguardo, lasciando che il silenzio tra noi si caricasse di possibilità.
“Non lo so, ma in questo momento, credo di averlo trovato.” Le sue parole erano un’ammissione, un passo oltre la linea che aveva tracciato per se stesso. Lo vedevo, il modo in cui il suo controllo iniziava a incrinarsi, e mi sentii trionfare.
“Le va un passaggio?” Propose mentre tornavamo verso il suo ufficio, dove lo stava aspettando la sua macchina con l’autista. Sorrisi: “Ma lei non sa neanche dove sono diretta!” Ridemmo, poi fissandomi disse: “Ovunque tu voglia andare…” Il suo tono era casuale, ma i suoi occhi tradivano un desiderio che non riusciva più a nascondere.

“Perché no?” Risposi avendo già previsto quell’invito. Raggiungemmo la macchina e salii accanto a lui, l’interno in pelle scura odorava di lusso e segreti. L’autista, discreto, alzò il divisorio senza che Stephen dovesse chiederlo, isolandoci in un mondo tutto nostro.
Il silenzio nell’auto era denso, elettrico. Stephen si voltò verso di me, il suo sguardo che scivolava sul mio viso, poi più giù, sul trench aperto che lasciava intravedere il mio decolleté malizioso e il bordo della gonna. “Vittoria.” Disse. “Non so cosa mi stia succedendo, ma… non riesco a smettere di pensarti e guardarti.”
Sorrisi, inclinandomi leggermente verso di lui, lasciando che il mio profumo lo avvolgesse. “Forse perché le piace giocare non sapendo dove porta questo gioco.”

Non ci fu bisogno di altre parole. Le sue mani trovarono il mio viso, e un istante dopo le sue labbra erano sulle mie, un bacio affamato, disperato, che sapeva di resa. Risposi con la stessa intensità, lasciando che il fuoco che avevo acceso in lui mi consumasse per un momento. Le sue mani scivolarono sul mio collo, poi più giù sul mio seno, e io lo lasciai fare, sapendo che ogni tocco era un altro passo nella mia rete. Lui non si fermò e le sue mani raggiunsero il mio piacere ed io schiudendo leggermente le gambe sentii quella stretta come un trionfo, il mio sesso come una coppa da alzare dopo una vittoria.
Quello volevo e quello avevo ottenuto e dopo un solo attimo fermai le sue mani. Il suo respiro era pesante, i suoi occhi pieni di un desiderio che lo rendeva fragile. “Vittoria… le chiedo scusa… non so cosa…”
Lo interruppi posandogli un dito sulle labbra: “Non è successo nulla e semmai fosse successo qualcosa la prego di dimenticare.” Lui mi guardò smarrito: “Perché? È stato bellissimo…” Lo guardai: “Il fatto è che non possiamo…” A quel punto aggiunsi: “Ci rivedremo presto, Signor Williams, più presto di quanto lei possa credere…” Pregai l’autista di fermare la macchina e scesi lasciandolo lì, intrappolato nei suoi stessi desideri e nei tanti dubbi, mentre il mio cuore batteva forte, non per l’emozione, ma per la soddisfazione. Il mio piano stava prendendo esattamente la piega che volevo. Il giorno dopo, alla cena di fidanzamento con Luke, avrei avuto Stephen esattamente dove lo volevo: al confine tra l’ossessione e la rovina.
*****

Quel venerdì, mentre mi preparavo davanti allo specchio, indossai un vestito lungo rosso così aderente che sembrava dipinto sul mio corpo, un’audace dichiarazione di seta metteva in risalto le mie curve con una precisione quasi indecente. Ogni piega del tessuto era un calcolo, ogni riflesso della luce un’arma. Ovviamente non pensavo a Luke che mi avrebbe guardata con occhi pieni di adorazione, ma senza cogliere l’essenza della mia sensualità. No, i miei pensieri erano tutti per Stephen, suo padre. Era un gioco perverso, lo sapevo, una danza sul filo del rasoio che mi eccitava proprio per il suo pericolo. Dopo l’antipasto del giorno prima che gli avevo concesso, non mi sarei tirata indietro, non ora che sentivo il controllo scivolarmi tra le dita, pronto a stringersi attorno a lui.

A casa Williams, tutto era perfetto, troppo perfetto. La sala da pranzo era impreziosita da porcellane e candelabri, un’ostentazione di gusto, lusso e ricchezza. Ingrid, la moglie di Stephen, era impeccabile: un abito blu scuro che esaltava la sua bellezza fredda, i capelli neri raccolti in uno chignon che non lasciava spazio a imperfezioni, il sorriso educato, ma distante, come se il mondo non potesse toccarla. Luke, al mio fianco, mi stava presentando agli altri invitati, con la sua mano che sfiorava la mia schiena nuda mentre diceva con orgoglio: “Vittoria, la mia futura moglie.” Le sue parole erano calde, sincere, ma io sentivo solo il peso del copione che quella famiglia recitava: i convenevoli, le risate misurate, le occhiate che nascondevano ogni verità.

Dopo circa dieci minuti entrò Stephen nella sala, e tutti gli orologi di quella casa si fermarono contemporaneamente. Quando mi vide, il suo volto tradì uno stupore che qualche istante, ma che io catturai come un trofeo. I suoi occhi, solitamente così controllati, si spalancarono scivolando prima sul mio viso e poi sul mio vestito rosso come se fosse una provocazione fisica. La sua mascella si irrigidì, un muscolo che pulsava sotto la pelle, tradendo il tumulto che cercava di soffocare.
Si avvicinò con difficoltà a passi lenti per stringermi la mano, un gesto formale, ma le sue dita si trattennero un istante di troppo, il calore del suo tocco in netto contrasto con il gelo della sala. “Vittoria.” Dissi semplicemente, con un sorriso che nascondeva tutto e niente. Lui, a disagio, rivolgendosi a Luke, disse: “Devo farti i miei complimenti, credo che tu abbia fatto l’unica cosa giusta della tua vita.” Poi, voltandosi verso di me e passando al tu con una familiarità che tradiva il suo turbamento, aggiunse: “Vittoria, sono onorato di conoscerti.”

“Grazie.” Risposi, con un sorriso lento, lasciando che il mio sguardo lo inchiodasse per un secondo più del necessario. Sapevo cosa stavo facendo, e lui lo sapeva. Il suo imbarazzo era palpabile: un lieve rossore gli salì al collo, e distolse gli occhi, cercando rifugio nel bicchiere di vino che afferrò con troppa fretta. Si schiarì la gola, voltandosi verso Ingrid, che stava sistemando un centrotavola con una precisione maniacale, ignara del terremoto che si stava scatenando a pochi passi da lei.
“Luke, hai scelto proprio una serata speciale.” Disse ancora Stephen, cercando di riportare la conversazione su binari sicuri, ma la sua voce aveva un tremore che tradiva il suo sforzo.

Quando Ingrid ci invitò a sederci, lui si sedette di fronte a me, e ogni tanto i suoi occhi tornavano su di me, come attirati da una forza che non poteva controllare. Poi quando Luke mi prese la mano, raccontando agli ospiti della nostra storia, Stephen abbassò lo sguardo sul piatto, le dita che stringevano il coltello con una tensione che non sfuggì al mio occhio attento. Desiderava non far trapelare nulla, lo vedevo: il modo in cui si costringeva a sorridere a Ingrid, a fare un commento banale sul vino, a ridere a una battuta di suo figlio. Ma ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano, era come se il resto della sala svanisse. Io sorridevo, inclinavo la testa, sapendo benissimo quanti dubbi e quante domande s’ammassavano nella sua mente.

Tra la prima e la seconda portata Stephen iniziò a parlare del suo viaggio a Bruxelles, raccontando della cena di gala accanto al primo ministro spagnolo e a sua moglie. Luke gli chiese dei dettagli, ma lui troncò l’argomento dicendo: “Quelle riunioni sono stancanti. Ma ora… è bello essere qui... E questa è una serata speciale…” Sapevo che quelle parole erano per me, e il modo in cui le disse, con quella pausa carica di sottintesi, mi fece quasi ridere. Speciale non era il fidanzamento del figlio, ma il fatto che fossi lì e, nonostante la parentela acquisita, mi vedeva più vicina e a portata di mano.

Ingrid, accanto a lui, alzò lo sguardo. “Sì, Stephen, sei stato via solo due giorni, ma sembri… distratto.” Disse, con un tono che poteva essere innocente o tagliente. Lui rise, una risata forzata, e posò una mano sulla sua, un gesto che sembrava più un’ancora che un segno di affetto. “Il lavoro dà soddisfazioni, certo, ma è anche stancante…” Mentì perché i suoi occhi tornarono su di me, sulla mia scollatura profonda che sono poche ore prima aveva avuto modo di apprezzare e in quel momento capii che il mio vestito rosso, il mio gioco, lo avevano già catturato. Era lì, intrappolato, combattuto tra il desiderio che lo divorava e la paura di tradirsi davanti alla moglie e al figlio. E io, seduta al tavolo della sua famiglia, con il mio fidanzato che mi stringeva la mano, non potevo fare a meno di godermi ogni secondo di quella tensione, sapendo che il mio piano, nonostante tutto, stava funzionando alla grande.

Finita la cena ci trasferimmo nella grande sala con una meravigliosa terrazza su Londra. Lui recitando ancora la parte e fingendo di non conoscermi, mi chiese di cosa mi occupassi. Ma mentre parlavo i suoi occhi tradivano una forte tensione, una crepa nel suo autocontrollo. Mi guidò verso la terrazza, eravamo soli. Il vento fresco di Londra ci accarezzava portando con sé il brusio lontano della città. Stephen si appoggiò alla balaustra, il bicchiere di whisky in mano, il profilo illuminato dalle luci soffuse della casa. Io ero a pochi passi, il mio vestito rosso che ondeggiava leggermente, consapevole del suo sguardo che mi seguiva come un’ombra.

“Quindi…” Iniziò, rompendo il silenzio. “Tu sei… una consulente, giusto? Deve essere… affascinante.” Il tono era controllato, ma c’era una nota che nascondeva altro. Sorrisi, ma non risposi perché lui sapeva benissimo di cosa mi occupavo. Anzi dissi: “E tu, Stephen? Com’è stare sempre sotto i riflettori, con tutti quegli occhi addosso?” Rise cercando di mantenere il controllo. “Sfiancante. Ma sai, a volte… incontri qualcuno che fa dell’imprevedibilità il proprio mestiere e ti fa dimenticare la stanchezza.” I suoi occhi si fissarono nei miei. Mi guardai intorno, non c’era nessuno: “Attento, Stephen. Le parole possono tradire più di quanto pensi.” Mi avvicinai di un passo, lasciando che il mio profumo lo raggiungesse, che la tensione tra noi diventasse una vera scossa elettrica.

Lui si passò una mano tra i capelli fissandomi il seno e bevve un sorso di whisky. “Tu sei pericolosa, lo sai?” Mormorò, quasi a se stesso, ma abbastanza forte perché lo sentissi. “Non dovrei nemmeno essere qui a parlarti così. Sei un mistero vivente.”
“Eppure eccoti qui. Non è la prima volta che qualcuno si trova dove non dovrebbe, no?”
Mi fissò: “Tu quindi sapevi chi ero… E ora mi domando cosa vuoi da me?”
“Non voglio niente, Stephen…” Mentii.
“Credo che tu stia seguendo un piano ben preciso invece. O sbaglio?”
Un silenzio pesante calò tra noi. Potevo sentire il suo respiro, leggermente accelerato, e il modo in cui stringeva il bicchiere. Poi, dalla sala, la voce di Ingrid ci raggiunse: “Stephen? Dove sei finito?”
Lui si irrigidì. Si voltò verso la porta, poi di nuovo verso di me, gli occhi pieni di un conflitto che non aveva bisogno di parole. “Devo andare…” Ma non si mosse. Anzi mi fissò ancora più rapito.
“Non guardarmi così, qualcuno potrebbe accorgersi…”
“E come ti sto guardando?” Disse come se stesse cercando di capire se fossi io a condurre il gioco o se fosse lui a illudersi di avere il pieno controllo della situazione.
“Mi stai guardando come se stessi desiderando qualcosa che non dovresti volere… Ecco è precisamente questo il punto Stephen, cosa succede quando un uomo come te vuole qualcosa che non può avere?”
Lui rise sorpreso dalla mia audacia.
“Sei abile a cambiare discorso…” Poi senza guardarmi aggiunse: “Non giochi pulito, vero?” Intuivo la sua battaglia interiore. Poi forse rendendosi conto della situazione disse: “Sai, potrei perdere tutto per un errore. Una parola sbagliata, un gesto…”
“Eppure sei ancora qui…” Lo provocai.
“Tu potresti essere la soluzione che aspettavo da tempo, ma forse sei solo un problema, uno dei tanti.”
Strinse il bicchiere con forza.
“Non devi risolvermi, Stephen. Devi solo decidere cosa vuoi davvero. Ieri mi sembravi più deciso…”
Di nuovo la voce di Ingrid.
“Vai pure.” Dissi, con un sorriso che diceva tutto il contrario. “Ma sai dove trovarmi.”
In una frazione di secondo feci scivolare nella sua tasca un biglietto con il mio indirizzo. Sapevo che sarebbe venuto. Lo desideravo, ma non era solo desiderio. Era una sfida, un gioco massacrante che mi faceva sentire al centro dei suoi pensieri.

Tornammo in casa ed appena varcai la soglia della sala da pranzo Luke mi prese per mano. Un silenzio improvviso calò sulla sala. Gli sguardi degli invitati si voltarono verso di noi, e in quel preciso istante, un pianista e un violinista, posizionati in un angolo della stanza, iniziarono a suonare una marcia di Chopin. Le note solenni e melodiose si diffusero nell’aria, avvolgendo ogni cosa in un’aura di magia.
Luke mi guardò negli occhi, il suo sguardo intenso e pieno di promesse. Con un gesto lento e deciso, si inginocchiò davanti a me. La sala trattenne il fiato. Prese la mia mano, la sua stretta calda e rassicurante, e con voce ferma ma carica di emozione pronunciò le parole che aveva sognato di dire:
“Vittoria, vuoi essere mia per sempre? Vuoi condividere con me ogni gioia, ogni sfida, ogni battito del nostro futuro?”
Le sue parole risuonarono nella mia mente. Lo volevo? Ma non mi risposi. Luke infilò al mio dito l’anello di fidanzamento, un diamante che catturava la luce e brillava come una stella. La sala esplose in un applauso caloroso, seguito dal suono dei calici alzati in un brindisi collettivo. “Alla vostra felicità!” Gridò qualcuno mentre Stephen in disparte si riempì l’ennesimo bicchiere di whisky.
Mi alzai, ancora frastornata, la musica di Chopin continuava a fluttuare, e in quel turbine di congratulazioni ed auguri pensai che sì davvero fosse una serata perfetta, ossia il sigillo del mio gioco mortale a cui non potevo più sottrarmi.


*****

La notte si trascinò lenta. Sdraiata nel letto con lo sguardo fisso al soffitto ripercorrevo ogni momento di quella serata. Mi ero svelata, sì. Adesso Stephen sapeva chi ero, anzi sapeva di più ossia che non ero solo la fidanzata di suo figlio. Ero un’esca, una rete. Ma ora, nel buio della notte, mi chiedevo quanto di quel fuoco nei suoi occhi era per me, per il mio charme, e quanto, invece, era lui che, accecato dal desiderio, aveva scelto di calpestare ogni regola morale, ogni vincolo che lo legava alla sua vita, alla sua famiglia, a suo figlio. Sicura che non fosse solo attrazione fisica, anche se il mio vestito rosso, la scollatura studiata, il modo in cui mi muovevo, tutto era stato calcolato per farlo vacillare. C’era qualcosa di più profondo, come se vedesse in me una tentazione infernale.

Mi girai su un fianco e mi chiesi: “Ma fino a che punto era disposto a spingersi?” E poi ancora: “Avrebbe davvero tradito tutto ciò che rappresentava – il politico rispettabile, il marito devoto, il padre orgoglioso per seguirmi nell’abisso dove lo stavo portando?”
Chiusi gli occhi, cercando di ricostruire il momento esatto in cui aveva ceduto. Le sue parole sulla terrazza – “Tu sei pericolosa, lo sai?” – non erano solo un’ammissione, ma l’avevo avvertita come una resa.
Aveva riconosciuto il potere che avevo su di lui, e il fatto che fosse rimasto lì, che non fosse tornato subito da Ingrid quando lei lo aveva chiamato, parlava più forte di qualsiasi dichiarazione. Eppure, una parte di me si chiedeva se fosse davvero il mio fascino a sconvolgerlo o se fossi solo il catalizzatore di qualcosa che già ribolliva dentro di lui. Un uomo come Stephen, abituato al potere, alle riunioni con primi ministri, alle cene di gala, non era uno sprovveduto. Sapeva cosa rischiava. E questo rendeva il suo cedimento ancora più intrigante.

Ero sicura che il giorno dopo lo avrei trovato davanti alla mia porta. Non era una supposizione, ma una certezza costruita su ogni sguardo, ogni parola non detta, ogni istante in cui aveva lasciato che il desiderio prendesse il sopravvento. Ma cosa volevo davvero da lui? Era solo il brivido del gioco, la soddisfazione di vedere un uomo come lui piegarsi al mio volere? O c’era qualcosa di più, qualcosa che nemmeno io volevo ammettere? Il mio piano era iniziato come una sfida, un modo per dimostrare a me stessa che potevo controllare la situazione, che potevo manipolare le sue debolezze, nella consapevolezza narcisistica del mio fascino e nel piacere di esercitare il mio potere su un obiettivo al di fuori della mia portata.
Ma ora, mentre il mio cuore batteva più forte al pensiero di lui, mi chiedevo se non fossi io quella che rischiava di perdere il controllo, in fin dei conti, la mia decisione di sedurre il padre del mio ragazzo non nasceva affatto da un’attrazione genuina, ma dalla necessita di mettermi alla prova.

Lo vedevo già sulla mia porta. Chissà cosa avrebbe detto? Forse un banale “Dovevo parlarti…” O forse non avrebbe detto nulla, lasciando che il silenzio parlasse per lui. In ogni caso, sapevo che sarebbe venuto. Il desiderio che lo consumava era troppo forte, e io avevo aperto una porta che non poteva richiudere facilmente.



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dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
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