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LiberaEva
Nuvole Basse







Photo Holger Nitschke
 


Nuvole basse all’orizzonte, Kay è di là che si veste. Si starà ammirando allo specchio, mentre io qui in finestra guardo la strada che lucida riflette. Tra poco uscirà, e come ogni sera verrà a darmi un bacio, sfiorato e furtivo, che prontamente rifiuto. Mi fa schifo il suo odore, quel suo profumo dolciastro simile a zucchero filato che s’appiccica al naso e rimane per ore. Mi fanno ribrezzo le sue carezze taglienti. Sono lame affilate che spaccano la pelle senza avvertirle, ma lasciano cicatrici indelebili che danno dolore quando cambia stagione. Tra poco rimarrò sola pensando al mio uomo che sparisce nel buco nero della notte avvolgente, la solita notte, che esalta e consuma le smanie e i deliri di chi non vorrebbe mai che finisse.

Ma io lo amo! Anche ora che avrà acceso la lampada sul comodino ed aperto l’anta dell’armadio per guardarsi da dietro. Anche ora che nel suo cervello frulla soltanto il ritardo che sta accumulando. Lo amo troppo!
Se penso ora a quante mi hanno invidiato, quante mi hanno detto che avevo avuto fortuna ad incontrarlo! Rido, amaramente rido, pensando che mi sarei accontentata di molto meno senza arrivare lassù a quel punto, perché poi cadere fa troppo male. Ora mi resta un vago ricordo di come una donna possa essere felice e mi sforzo ogni giorno a pensare che amare il proprio contrario è soltanto un dettaglio che si può tralasciare.

“Eva allora?” Mi chiama, ma io non rispondo. Distratto come sempre non troverà il portafogli, il telefono, le chiavi. S’indigna, urla, mi prende a male parole, vorrebbe che io l’aiutassi ad essere pronto, vestito perfetto e senza ritardo. Pronto per l’appuntamento. Chissà in quale parte della città, che non ho mai capito dove, in quale locale, casa o vizio diluirà la passione, lontana comunque lontana da questa stupida donna che ostinata rimane in ciabatte.

Stasera, come ogni sera mi tradirà, darà se stesso come mai il suo corpo s’è abbandonato nel mio. Parlerà d’amore, non ho dubbi, sussurrerà da vicino le parole che mai la mia pelle ne ha avvertito il vapore, capirà come mai m’ha capita. Distinguerà il suo profumo, assaggerà cose nuove e per nulla distratto sarà disponibile ad ascoltare. Eppure in un ricordo non molto lontano era completamente diverso, timoroso di sbagliare, insicuro di vivere. M’aveva abbracciata con tanta energia e aveva deciso per me e per il destino che avremmo camminato affianco vicini.

Era bello il mio Kay, come la prima volta a Trieste su un traghetto malandato che galleggiava per caso. Mi prese leggero quasi involontario, dentro quella cabina così stretta. In piedi senza vergogna insinuò la sua passione, inconfondibile e maschio non incontrò barriere, ma solo attriti leggeri come una donna sa fare quando vuole e non vuole. Ora mi tengo stretti quei piccoli frammenti, perché mai avrei pensato che il suo desiderio andasse distante, da questa femmina che piange alla finestra approfittando di queste nuvole basse che mischiano le lacrime all’acqua piovana…

Su questo davanzale fumo e non me ne faccio ragione, perché non si può lottare quando non esiste rivale, nemica, avversaria, che io possa spaccarle la faccia e riprendermi quello che m’ha sottratto. Lui continua ad urlare, mi dà brividi dentro, è in cerca di spiccioli e sta rovistando dentro la mia borsa. Mi ruba i soldi come l’amore, pochi ogni giorno come goccia cinese che m’impoverisce essere ed avere. Lo sento, mi chiama, per lui è normale, come bere un bicchiere di latte o farsi una doccia al mattino; non capisce perché non rispondo, pensa che abbia altro da fare, magari sparecchiare la tavola o chiusa in bagno per altri motivi.
Ormai si è accettato e non pensa che qualcun altro possa soffrire, non comprende il disagio che mi porto dentro, anzi, non pensa nemmeno che io possa provarlo. Lo sento, sta indossando l’impermeabile nero quello con gli anelli in metallo, il rumore di ferro mi urta il cervello, non voglio vederlo vestito in quel modo, non posso accettare che tra pochi minuti chiuderà la porta per essere vero.

Ogni giorno diverso, ogni giorno uguale, nemmeno una parola per dire quello che stava accadendo, nemmeno uno straccio di scusa per indorarmi la pillola. Tutto scontato, tutto un dato di fatto, cominciato per caso in un giorno normale tra il rumore dei piatti in cucina e il telegiornale in salotto. “Ha un’altra sicuro!” Pensavo, mentre appendevo ingenua la sua giacca in armadio. Appallottolate nella tasca, un paio di calze mi gonfiarono il fiato e cominciai a tremare. Cercai un qualcosa che potesse calmarmi, un chissà come mai, un normale contrattempo o uno spiraglio di luce che la mia mente non riusciva a vedere.

“Ha una donna, una donna sicuro! Sarà bionda?” Mi ferivo immaginandola bella con i seni abbondanti. Cercavo tra i volti una faccia lontana, stereotipo di donna che accalappia i suoi maschi con il nero e la seta. Ma poi mi giuravo che era un falso segnale, che il mio Key non avrebbe fatto mai questo, seppure quelle calze parlassero chiaro. Le odorai in cerca di un indizio, di creme e profumi, ma sapevano solo di nuovo e di sintetico! Forse era solo un regalo che il mio uomo non aveva avuto il coraggio di darmi.
M’illudevo allora come ora m’illudo che tutto finisca, che i rumori che sento non mi siano ostili; che stasera non esce e s’infila nel letto e m’aspetta perché senza di me non riesce dormire, senza la mia mano che mille volte lo ha stretto fino a che quel tremito innocuo si è fatto respiro profondo e leggero russare.

Urla di nuovo. “Ma non mi senti?” Vorrebbe che l’aiutassi, che addirittura gli dessi consigli, come parlare o come stare a sentire, o come qualche piccolo segreto può trasformare un uomo in un’affascinante persona. Ma è difficile non posso davvero! Non posso allontanarlo da me, dall’uomo che sul piroscafo continuava a godere oltre la mia voglia finita da tempo. Fu l’unica, poi solo deserto, fame e sete che s’inseguono nei miei sogni al di là delle dune, solo carovane di beduini che mi fanno schiava di notte ed a turno a malapena soddisfano un delirio perpetuo. Loro non hanno donne, non ci sono bambini che potrei in qualche modo inserire nel sogno, per essere meno in balia di loro e del vento che fischia e mi lascia senza forze e respiri.

Sono brutti, brutti davvero, armati fino ai pochi denti che mostrano quando a stento sorridono, hanno la pelle piena di buchi che la sabbia ricopre a fatica. Neanche uno bello, magari Tuareg con gli occhi profondi di lago per abbandonarmi sulle sue rive o mi faccia schiava senza cattiveria, perché tanto non serve, quando sei pronta a dare l’anima perché il corpo oramai servirebbe a ben poco.

Ogni sera prima d’addormentarmi prego Dio d’incontrarlo ai margini del suo regno o lontano nell’oasi che ogni tanto intravedo, non voglio piacergli da subito, non m’illudo, anche se il mio corpo di bianca potrebbe destargli un esile interesse; non cerco poi tanto ma che perlomeno, se fosse impegnato, mi rimandi ad un altro sogno magari domani.
Mi trascino nei giorni avvertendoli appena e rimando alla notte la mia vita reale, i miei desideri, spartiti con nessuno, che teneri giacciono ammonticchiati sul cuscino. Chissà cosa direbbe Kay! Chissà cosa direbbe se sapesse davvero che lo tradisco ogni notte con uomini diversi, di quelli che pensano solo a se stessi, di quelli che mi danno quel poco perché meno non sarebbe possibile, e che ti soddisfano appena perché segui solo il ritmo del loro piacere.

“Ci sei?” Lo sento, mi vorrebbe complice e senza domande. Vorrebbe che lo salutassi per bene che mi mostrassi apprensiva come può fare soltanto una mamma, che comunque è suo figlio. Drogato o delinquente è solo un dettaglio, basta che torni come ogni notte perché tranquilla lei possa dormire. Ma non mi sento una mamma, anche se, lo confesso, ho sperato più volte che si ammalasse davvero, per stargli vicina e coprirlo d’affetto, premure che in questo istante mi è difficile dare.

“Allora?” Oramai è quasi pronto, lo sento, sta indossando le scarpe, quelle belle comprate da poco. Un altro sguardo allo specchio ora è pronto davvero. Cammina verso me, mi chiama e richiama. “E’ tardi, io vado!” Ma io non mi volto e lui non si avvicina e rimane sulla porta. Questa sera neanche un bacio e neanche il mio rifiuto per continuare a sperare. Qui affacciata in finestra, rimango a fissare queste nuvole basse, la strada che riflette, le auto che sfrecciano. Stringo i pugni, rientro e chiudo la finestra, perché non voglio vederlo vestito in quel modo, il rumore dei suoi tacchi a spillo sull’asfalto mi devasta la mente ed io non posso accettarlo come una ridicola donna che cammina da papera senza nessuna decenza.


 
FINE




 
 
 


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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale..
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