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IL MESTIERE ANTICO - BARI

RACCONTO
Un rito di passaggio al Villino delle
Rose
"Al “Villino” andavano
uomini di tutti i tipi purché benestanti: ufficiali, mariti e
ragazzini come me alle prime esperienze di solito accompagnati dai padri..."

Era una luminosa domenica di
primavera del 1951, e il sole di Bari scaldava le strade
e la mia giovinezza. Avevo appena compiuto diciotto
anni, un traguardo che, nonostante la maggiore età a 21
anni, nella tradizione della mia città segnava il
passaggio all’età adulta. Accompagnato da mio padre,
un rinomato avvocato barese dal portamento austero,
barba grigia e sorriso complice, varcai per la prima
volta la soglia del “Villino delle Rose”, il bordello
più esclusivo e rinomato di tutta Bari, situato in via
Eritrea. Non era una casa di tolleranza qualunque, come
quelle indicate solo da un freddo numero civico come via
Dante 188 o via Principe Amedeo 215, ma un luogo che si
fregiava di un nome proprio, quasi fosse un palazzo
nobiliare. E, in un certo senso, lo era: il Villino era
il tempio del piacere riservato all’élite barese, a chi
poteva permettersi di pagare cifre che, per molti, erano
semplicemente inimmaginabili.
Prima della guerra,
una “marchetta” al Villino poteva costare fino a
cinquecento lire, una somma vertiginosa in un’epoca in
cui, come cantava una celebre canzone, “mille lire al
mese” bastavano per vivere dignitosamente. Nei bordelli
di terza categoria, invece, venti lire erano sufficienti
per assicurarsi un momento di piacere. Ma il Villino non
era solo una questione di denaro: era un’esperienza, un
rituale. La riservatezza era garantita con una cura
quasi maniacale. All’ingresso, una discreta signora,
elegante come una governante di un palazzo
aristocratico, si assicurava che gli ospiti non si
incrociassero mai, preservando l’anonimato di chi
frequentava quel luogo.
Il Villino accoglieva
uomini di ogni sorta, purché il loro portafoglio fosse
all’altezza: ufficiali in alta uniforme, mariti in cerca
di un diversivo, giovani come me alle prime esperienze,
spesso accompagnati dai padri per essere iniziati al
“mondo dei grandi”. La consumazione non era
obbligatoria, ma era un’aspettativa implicita, un codice
non scritto che tutti rispettavano.
Mio padre,
mentre ci avvicinavamo al Villino, mi aveva raccontato
con un misto di nostalgia e ironia la storia del
mestiere più antico del mondo in città. Le sue origini
affondavano in un passato lontano, come testimoniava una
pergamena del 1267, in cui il principe Boemondo
concedeva all’arcivescovo Elia, e ai suoi successori, il
controllo sulle meretrici del territorio. Quel documento
non solo riconosceva alla Chiesa un ruolo di guida
spirituale sulle “sventurate”, ma le autorizzava a
riscuotere un obolo dai loro guadagni, ufficialmente
destinato ai poveri. Un altro documento, risalente alla
fine del Cinquecento, elencava i 17.000 abitanti di
Bari, tra cui nove donne registrate come “Mulier
libera”, ovvero “donne libere” dedite alla professione
più antica del mondo.
Ma il dopoguerra aveva
cambiato tutto. La miseria postbellica, unita alla
presenza delle truppe alleate con denaro e beni da
scambiare, aveva fatto esplodere il fenomeno della
prostituzione a Bari. Un articolo del giornale “La Voce”
del 12 gennaio 1947, intitolato «10.000 donne a Bari
trafficano l’amore», descriveva con crudo realismo la
realtà di una città in cui la bellezza delle giovani
donne diventava, per molte famiglie, una moneta di
scambio per sfuggire alla povertà. L’articolo raccontava
persino la tragica storia di una tredicenne venduta dai
genitori, un episodio che gettava luce sulla
disperazione di quei tempi.
Quando entrammo nel
Villino, fui subito colpito dall’atmosfera. L’interno
era un tocco di opulenza e discrezione: tendaggi di
velluto, specchi dalle cornici dorate, un profumo di
fiori e cipria che aleggiava nell’aria. Le ragazze,
disposte nella sala d’attesa come statue viventi, erano
di una bellezza straordinaria. Alcune spiccavano per il
loro garbo, altre per una sensualità che sembrava
innata. Non era raro, mi aveva detto mio padre, che
qualcuna di loro si innamorasse di un cliente, sognando
un “principe azzurro” che le portasse via da quella
vita. Per evitare legami troppo stretti, ogni quindici
giorni le ragazze venivano sostituite, un ricambio che
garantiva freschezza e distacco emotivo.
Mio
padre si accomodò su una poltrona in disparte
lasciandomi libero di scegliere e dopo un’attenta
osservazione, il mio sguardo si posò su Maria, una
giovane veneta dal sorriso malizioso e dai lineamenti
morbidi. Aveva i capelli castani che le cadevano morbidi
sulle spalle e un seno generoso che catturava
l’attenzione. Il suo vestito di seta nera lasciava ben
poco all’immaginazione e il suo trucco a farfalla era
un’opera d’arte. Guardai anche le altre, tutte
meravigliosamente provocanti, ma Maria aveva qualcosa in
più per cui, certo della scelta, guadai verso mio padre
con un cenno d’intesa.
Lui a quel punto si
diresse alla cassa per pagare la marchetta,
consegnandomi il piccolo biglietto che avrei dovuto dare
alla ragazza. Quel gesto, così formale, sanciva l’inizio
della mia esperienza. Infatti un attimo dopo Maria,
venne verso di me, mi sorrise e mi prese per mano, e il
suo profumo alla violetta mi avvolse come una carezza.
Salimmo una scala dai gradini coperti di moquette rossa
fino a una stanza arredata con semplicità, ma con cura.
Alle pareti, cartelli con le norme igieniche e
regolamenti si alternavano a cartoline osé, pensate per
accendere l’immaginazione. Un letto, un lavandino, un
bidet e un piccolo armadietto con profilattici e creme
componevano l’arredo essenziale. Una stufa a legna
crepitava in un angolo, riscaldando l’aria e una pentola
d’acqua che umidificava l’ambiente.
Con un
sorriso rassicurante, Maria mi invitò a spogliarmi, poi
con gesti esperti prese un asciugamano bagnato e mi pulì
con delicatezza le parti intime, un rituale che mi fece
arrossire, ma che lei eseguì con una naturalezza
disarmante, come se fosse un gesto di cura e non solo
una formalità. I suoi movimenti erano lenti, quasi
cerimoniosi, e i suoi occhi, di un castano caldo,
cercavano i miei con una dolcezza che sembrava voler
placare la mia timidezza di ragazzo alle prime armi.
In quel momento, il profumo alla violetta che
emanava dalla sua pelle mi avvolse completamente, come
un abbraccio invisibile che scioglieva ogni mia
incertezza. Si distese sul letto, senza togliere le
calze nere sostenute da giarrettiere rosse, un dettaglio
frivolo che dava al suo corpo un alone di mistero e
seduzione. La luce soffusa della stanza, filtrata da
tende leggere, accarezzava le sue curve, rendendo la sua
figura ancora più invitante. “Non preoccuparti, faccio
tutto io…” Mi disse con una voce sensualissima, un
sussurro morbido e vellutato che sembrava vibrare
nell’aria, promettendo un’intimità che andava oltre il
semplice atto fisico. Quelle parole, pronunciate erano
un invito a lasciarmi andare, a fidarmi di lei. Maria
non era solo una donna che svolgeva un mestiere: in quel
momento, sembrava incarnare un’ideale di bellezza e
passione, un misto di forza e vulnerabilità che mi
conquistò.
Mi guidò con dolcezza, alternando
carezze leggere come piume a baci che sembravano rubarmi
il respiro. Ogni suo tocco era calibrato, esperto ma mai
meccanico, come se stesse dipingendo un quadro con le
sue mani, e io fossi la tela. Quando mi offrì i suoi
seni, invitandomi a sfiorarli, il mondo sembrò
dissolversi in un vortice di sensazioni nuove e
travolgenti. La sua pelle era calda, morbida, e il suo
respiro si mescolava al mio, creando un’intimità che non
avevo mai conosciuto.
C’era in lei una
sensualità che trascendeva il ruolo che ricopriva. I
suoi gesti erano intrisi di una passione autentica, come
se, per un istante, anche lei si abbandonasse al
momento, dimenticando le regole del Villino e il
ricambio quindicinale delle ragazze. Nei suoi occhi
colsi un lampo di qualcosa di più profondo: non solo
desiderio, ma una sorta di nostalgia, quasi un sogno non
detto di un amore vero, forse perduto o mai trovato. Mi
accarezzò il viso, sfiorandomi le guance con le dita, e
mi sussurrò parole che avevano il sapore di un invito a
vivere quel momento senza remore, come se fossimo solo
noi due, lontani dal mondo.
Quando il piacere mi
travolse, fu come se il tempo si fermasse. Maria non si
limitò a essere spettatrice: il suo sorriso, quando mi
vide perdermi in quell’estasi, era sincero, quasi
complice. “Sei speciale…” Mi disse piano, con una voce
che tradiva un pizzico di emozione, come se, per un
attimo, anche lei si fosse lasciata coinvolgere da
quell’incontro. Non so se fosse solo parte del suo
mestiere, non so se avesse goduto, ma in quel momento mi
sembrò che tra noi si fosse creato un legame, fragile ma
reale. Mi fece sentire desiderato, non solo come
cliente, ma come uomo, e questo rese l’esperienza
indimenticabile.
Non so quanto durò – forse pochi
minuti, forse un’eternità – ma quando arrivò il piacere,
il mio grido di gioia la fece sorridere. “Fossero tutti
come te…” Disse ridendo, mentre si rivestiva con calma,
lasciandomi ammirare la perfezione del suo corpo. “Non
dimenticarti di me quando tornerai da solo.” Mi disse
con uno sguardo ammiccante sistemandosi. “E magari la
prossima volta parleremo un po’ di più.” Quelle parole,
dette con un sorriso che oscillava tra il gioco e la
sincerità, mi rimasero impresse. Maria non era solo una
donna del Villino: era un’anima che, in quel contesto,
riusciva a donare un frammento di sé, un’illusione
d’amore che, per un ragazzo di diciotto anni, era più
vera di qualsiasi altra cosa.
Tornammo nella sala
d’attesa, dove mio padre, con un’espressione curiosa,
chiese a Maria come fossi andato e se mi fossi
comportato da vero maschio. Il suo “Bene, è un bravo
ragazzo…” Fu sufficiente a fargli scoppiare in un
sorriso orgoglioso. Mi diede una pacca sulla spalla,
dicendo: “Benvenuto nel mondo dei grandi.”
Tornai
al Villino altre volte, da solo, attratto dal fascino di
quel luogo e dal ricordo di Maria. Ma tutto cambiò con
l’approvazione della legge Merlin nel 1958, che chiuse
le case di tolleranza in tutta Italia. Il Villino delle
Rose abbassò le sue serrande, e il mondo che aveva
rappresentato – fatto di rituali, discrezione e piaceri
proibiti – si dissolse. Alcuni bordelli riaprirono in
forma clandestina, nascosti nei vicoli più periferici
della città, ma nulla fu più come prima. Il Villino
rimase un ricordo, un capitolo della mia giovinezza e di
un’epoca che non sarebbe mai più tornata.
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IMMAGINE
GENERATA DA IA
ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FONTI
https://palesementeparlando.wordpress.com/
2018/09/30/il-villino-delle-rose
http://www.mondimedievali.net/Rec/prostituzione.htm
https://www.giornaledipuglia.com/2019/11/la-
prostituzione-bari-note-storiche-e.html
https://www.barinedita.it/reportage/n1866-
quando-la-prostituzione-era-legale

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