HOME   CERCA   CONTATTI   COOKIE POLICY
 
GIALLO PASSIONE
 
STORIA DI UNA DONNA ROMANTICA

Rina Fort
La belva di Via San Gregorio
La commessa del negozio di stoffe in un colpo solo perde amante e lavoro e il 29 novembre del 1946, all’ora di cena, la «belva» di via San Gregorio, si vendica con una strage. E poi un mistero, irrisolto.
 
 
 


 
Era una mattina umida e fredda del 30 novembre 1946. Via San Gregorio 40 a Milano era ancora piena di macerie e di silenzi che pesavano più delle bombe. I segni della guerra sembravano cicatrici aperte con i palazzi sventrati e l’odore di umido e carbone che si appiccicava alla pelle.
Adelaide, la commessa del negozio di stoffe di Giuseppe Ricciardi, come tutte le mattine salì le scale del palazzo con il respiro che fumava nell’aria. Bussò alla porta dell’appartamento del titolare per farsi consegnare dalla moglie le chiavi del negozio.
Bussò una volta, due, tre. Niente. Solo l’eco del corridoio e il rumore metallico lontano di un tram in fondo alla strada. La porta era socchiusa, appena un dito di luce grigia che filtrava dallo spiraglio. La commessa un po’ impaurita la spinse piano, come se presagisse qualcosa di oscuro.

Dentro l’odore la colpì subito, un odore che a Milano, nel ’46, si riconosceva al primo respiro. Attraversò il corridoio, la cucina era intatta, la moka sul fornello freddo. Passò oltre e quando entrò in soggiorno mancò poco che svenisse. Avvolti in un lago di sangue vide la moglie di Ricciardi ed uno dei figli riversi sul pavimento. I corpi supini giacevano uno accanto all’altro come due pupi di cera lasciati a sciogliere.
Adelaide, scappò immediatamente chiedendo aiuto. In strada incontro un passante e gli gridò in faccia che dentro quella casa c’erano due cadaveri. La nebbia si era alzata. Passò un carretto di un venditore di castagne. Il fumo saliva lento. Qualcuno chiamò la polizia.

******

Quando la polizia entrò nell’appartamento si rese conto che i corpi non erano due, bensì quattro, disposti sul pavimento del soggiorno quasi con cura, come un presepe macabro. Accanto alla signora Ricciardi, immersa in una pozza di sangue giacevano i suoi tre figli: Giovanni e Giuseppina, di sette e cinque anni, e Antonio, di soli dieci mesi.
Un cronista del Corriere della sera presente sul posto riportò un inquietante indizio, sul pavimento aveva notato una fotografia strappata in quattro pezzi che ritraeva i coniugi Ricciardi il giorno delle nozze. Subito venne avanzata l’ipotesi di un delitto a scopo passionale. Insomma come se qualcuno avesse voluto cancellare prima il sorriso di lui, poi quello di lei, poi le loro mani intrecciate, e infine l’intera promessa.

Chi aveva strappato la fotografia come ultimo gesto di vendetta? Il cronista chiuse il taccuino. Sentì un brivido che non era solo freddo. In quella stanza non c’era solo morte. C’era qualcosa di più oscuro: la sensazione che qualcuno, prima di andarsene, avesse voluto dire al mondo che l’amore, a volte, non muore, anzi uccide.

Fuori, la nebbia milanese inghiottiva i lampioni uno dopo l’altro. Dentro, restavano solo quattro corpi e una foto fatta a pezzi, a ricordare che anche le famiglie più normali possono marcire dall’interno, piano piano, finché un giorno non resta più niente da salvare.

******

“Niente rapina!” Borbottò il commissario Marinelli accendendo una Nazionale. “Chi entra per rubare non si ferma a bere un liquore con la padrona di casa. E soprattutto non sparecchia l’anima di quattro persone con tanta pazienza.” Tre bicchierini da liquore, infatti, ancora umidi nel fondo, erano allineati sul tavolo. Uno aveva l’impronta di rossetto sbiadito sul bordo. Gli altri due no. “Due uomini, o un uomo e una donna. Oppure due donne.” Pensò Marinelli fissando la scena del crimine che assomigliava in tutto e per tutto ad una vendetta.

Il più piccolo, Antonio, giaceva nella culla con la copertina tirata su fino al naso, come se qualcuno avesse voluto fargli un ultimo regalo di tenerezza prima di tappargli la bocca per sempre. Nessun rapinatore al mondo avrebbe perso tempo a uccidere un bimbo di dieci mesi che mai avrebbe potuto testimoniare. Quello era odio puro, distillato, tenuto in caldo per mesi, forse anni!

Durante il sopralluogo il medico legale, aprendo le dita irrigidite della vittima sfilò una ciocca di capelli. Erano di colore diverso da quelli della vittima. Quindi si era difesa, ma soprattutto, vista la lunghezza, quella cioccia apparteneva ad una donna!
Il commissario alzò gli occhi verso la finestra appannata. Fuori, la nebbia era così densa che via San Gregorio sembrava sommersa da un mare di latte sporco. “Una donna che lei conosceva bene!” Disse piano. “Abbastanza bene per aprirle porta, farla entrare senza paura e offrirle da bere.”

Quindi pensò Marinelli: “Tre bicchieri. Una ciocca di capelli neri. Quattro corpi. E una fotografia di nozze fatta a brandelli.” Un giovane agente, pallido come un cero, interruppe i suoi pensieri: “E il marito dov’é?” In effetti Giuseppe Ricciardi era sparito nel nulla da quarantott’ore. “Ma un uomo non lascia in giro quelle ciocche di capelli.” Disse ancora Marinelli sputando un filo di tabacco. “No. Qui c’è una terza persona con le unghie laccate di rosso e il cuore nero come la pece!”


******

Questura di Milano. 2 dicembre.
“Il marito dov’era?” Chiese un cronista durante la conferenza stampa gremita fino all’inverosimile di giornalisti, fotografi e addetti ai lavori. Il commissario Marinelli non alzò nemmeno gli occhi. “Quella notte era a Prato per motivi di lavoro. Ha dormito in una pensione in via del Ceppo, ha firmato il registro. In teoria, era a duecento chilometri di distanza. “Fece una pausa, accese un’altra sigaretta con la brace della precedente. “In teoria…” Il cronista abbassò la voce. “Quindi un alibi di ferro?”
“Chissà.” Disse il commissario. “Sappiamo quando ha firmato il registro della pensione, ma non sappiamo con certezza quando è ripartito. Forse è tornato la notte stessa a Milano, ha trovato la moglie tra le braccia dell’amante, e ha deciso che se non poteva averla lui, non l’avrebbe avuta più nessuno. Nemmeno i bambini, che portavano nel sangue la stessa vergogna.” Soffiò il fumo contro il vetro, disegnando un alone grigio. “Oppure ha incaricato qualcuno…”

Un altro cronista si alzò in piedi e chiese notizie sul passato del marito. Marinelli con tutta calma spiegò che la storia personale di Ricciardi non era un’ombra, ma una grossa macchia d’olio nero. Si trattava di un commerciante di stoffe di origini siciliane che era approdato a Milano in fuga da Catania occupata dagli americani.
A Catania aveva lasciato la moglie e i due figli e si era stabilito in via San Gregorio, una delle vie popolari costruite sulle macerie del Lazzaretto, dove il colera del ‘600 sembrava ancora aleggiare nell’aria umida.
Una stanza con cucina, terzo piano, balconcino che dava sul cortile delle case di ringhiera. Lì ricominciò a vendere stoffe al mercato nero: metri di silk americana, raso nero, crêpe per i funerali. Guadagnava bene e con la moglie a Catania si dedicava al suo divertimento preferito. Le donne gli cadevano addosso come mosche sul miele. Parlava poco, sorrideva meno, ma aveva quelle mani lunghe e morbide che sapevano accarezzare la stoffa e la pelle femminile con la stessa delicatezza.
Durante quel periodo, in via San Gregorio, tutti giuravano di sentire di notte il letto sbattere contro la parete e la mattina notare una camicia da notte appesa alla finestra o un reggicalze sul filo del bucato. Insomma tradiva la moglie con frequenti scappatelle, ma durante le prime indagini ricorreva spesso il nome di un ex commessa del negozio.

******

Caterina Fort, per tutti Rina, era alta, magra, capelli corvini tagliati alla maschietta, bocca piccola e cattiva. Ricciardi l’aveva conosciuta quando lavorava come sartina da un sarto in via Lecco e nel giro di qualche settimana l’assunse nel suo negozio come commessa. Tra loro nacque una relazione sentimentale che ben presto divenne di dominio pubblico, tanto che decisero di vivere il loro rapporto alla luce del giorno.
Sembravano felici, ma qualcosa sconvolse la loro vita: la moglie di Ricciardi, forse sospettando qualcosa, decise di trasferirsi insieme ai due figli in pianta stabile a Milano in quell’appartamento che odorava di profumo francese e lingerie d’alta moda. Ma si sa che i pettegolezzi viaggiano più veloce dei treni, per cui quando la donna venne a sapere della bella commessa, non fece scenate, ma obbligò il marito a licenziarla. Poi tutto tornò alla normalità. La coppia ebbe un altro figlio ed era in attesa di un quarto.

In quella situazione Rina Fort, in un colpo solo avevo perso l’amante e il lavoro e, per la polizia non c’erano dubbi. Venne immediatamente convocata in questura centrale. Fece il suo ingresso con un lungo cappotto nero di alta sartoria, i capelli freschi di parrucchiere e il rossetto spalmato su due labbra carnose e sensuali. Rimase in quella stanza buia per centosei ore. Quattro giorni e quattro notti. Senza orologio, senza luce del giorno, solo il ticchettio della pioggia e le voci che si alternavano: Marinelli, il vice, due agenti. All’inizio negò tutto. “Non so niente. Ero solo una delle tante commesse.” Poi, presa dalla stanchezza, iniziò ad ammettere ed a ritrattare più volte. Pianse, rise, urlò.

Alla sessantasettesima ora cedette. “Sì, ero l’amante di Giuseppe. Sapevo che era impegnato, ma lui mi giurava che mi avrebbe sposata. Abbiamo vissuto insieme in via San Gregorio come marito e moglie. Aveva mille attenzioni, mi comprava le calze di nylon, diceva che sua moglie era una contadina e che avrebbe chiesto l’annullamento del matrimonio. Poi quando lei è salita a Milano un bel giorno Ricciardi mi ha licenziata ed io sono tornata a fare la sartina in via Lecco. Tutto qui commissario.”

Era l’inizio della confessione, ma Marinelli non si accontentò. Lei stremata ed affamata, umiliata e minacciata lentamente si decise a confessare, ma solo parzialmente. Disse di essere stata solo la complice e non l’esecutrice materiale del delitto. Fece il nome di Carmelo Zappulla e soprattutto indicò in Giuseppe Ricciardi il mandante degli omicidi. Lei aveva solo l’incarico marginale di accompagnare l’assassino fino alla casa della vittima, e di convincere la moglie di Ricciardi ad aprire la porta.

Quando Marinelli le chiese quale interesse avesse Ricciardi ad uccidere la moglie, lei rispose: "Voleva liberarsi di lei, spaventarla e farla tornare in Sicilia.” Ma poi nel corso della confessione modificò la sua deposizione: “Gli affari al negozio andavano parecchio male, e i creditori non intendevano più aspettare. Allora Ricciardi mi ha convinta insieme a Carmelo ad andare nell’appartamento per inscenare una rapina. Lui, nel frattempo, si sarebbe tenuto per un po’ lontano da Milano, giusto per crearsi un alibi."

Ovviamente Marinelli non credette ad una sola parola della donna. Nel frattempo Ricciardi continuò a ripetere che quella commessa, con cui aveva avuto una breve relazione, era una pazza isterica, respingendo ogni accusa nei suoi confronti.
Marinelli diede incarico al suo vice di scandagliare sul passato della donna e venne fuori che la bella commessa aveva avuto tantissimi problemi anche mentali. Seviziata dal primo marito, poi finito in manicomio, era venuta in città per fare la cameriera, ma era stata oggetto di ricatti sessuali dal suo vecchio datore di lavoro. E secondo il Ricciardi, la Fort non aveva sopportato di essere stata scaricata anche da lui e si era voluta tremendamente vendicare sulla moglie e i figli. A quel punto venne arrestata e condotta a San Vittore insieme al suo complice Carmelo Zappulla.

******

Al processo che si svolse a gennaio del 1950 fu l’unica imputata. Quando entrò nella sala dell’udienza la gente assiepata chiese a gran voce la pena di morte. La bella commessa di stoffe aveva lasciato posto ad una figura dimessa, il suo viso era una maschera di cera, i capelli opachi, un vestito nero liso. Durante le udienze restò immobile per ore, dritta sulla panca di legno, come se il corpo le si fosse irrigidito nel momento stesso in cui aveva chiuso per sempre la porta di via San Gregorio.

Solo una volta la videro tremare quando Giuseppe Ricciardi, chiamato come testimone, passò a tre metri da lei senza guardarla in viso. Lei sollevò la testa di scatto, lo fissò con gli occhi improvvisamente vivi, feroci, e dalle labbra le uscì un sussurro che si sentì fino in fondo all’aula: “Vigliacco!” Fu l’unica parola che pronunciò spontaneamente in tutto il processo. Il suo avvocato parlò di una donna abbandonata, umiliata, spinta alla follia.

Durante quelle udienze s’inceppò in numerose contraddizioni fino ad ammettere la sua colpevolezza, ma continuando a sostenere il coinvolgimento dei due complici. Disse che mentre rincasava fu avvicinata da Zappulla. Lui le offrì una sigaretta probabilmente drogata in quanto lei avvertì immediatamente un senso di stordimento così forte da seguire Carmelo, che la condusse nell’appartamento della vittima. Da quel momento naturalmente non ricordava nulla. Ovviamente non fu creduta.

Quando il giudice lesse la sentenza non batté ciglio. Solo, per un istante brevissimo, chiuse gli occhi, e sulle labbra le passò qualcosa che avrebbe potuto essere un sorriso.
Fu ritenuta colpevole di omicidio volontario nei confronti della signora Franca Ricciardi e dei piccoli Giovanni, Giuseppina, Antonio, e di calunnia a danno di Carmelo Zappulla. La condanna fu l’ergastolo con isolamento diurno per sei mesi, interdizione perpetua dai pubblici uffici e interdizione legale. La condanna fu poi confermata in Appello e in Cassazione.

******

Durante la detenzione nel carcere di Perugia scrisse molte lettere al suo avvocato. Tra le tante frasi, forse la più inquietante fu: “Non è la quantità della pena che mi spaventa. C’è una parte del delitto che non ho commesso e non voglio.”

Nel ’75 ottenne la grazia per buona condotta, dopo aver scontato 28 anni di carcere. Uscì pochi mesi dopo la morte di Ricciardi, si cambiò nome in Caterina Benedet e andò a vivere a Firenze. Morì di infarto nel marzo del ‘88, portandosi dietro la sua versione dei fatti, mai creduta. La sua ostinata ed ultima versione fu sempre quella di aver agito sotto la spinta materiale e morale del suo amante Giuseppe Ricciardi.







A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FONTI:
 www.storiadimilano.it
www.corriere.it
www.poliziastato.it
www.crimine.net






 
Tutte le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi autori. Qualora l'autore ritenesse improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione verrà ritirata immediatamente. (All images and materials are copyright protected  and are the property of their respective authors.and are the property of their respective authors. If the author deems improper use, they will be deleted from our site upon notification.) Scrivi a liberaeva@libero.it

 COOKIE POLICY



TORNA SU (TOP)


LiberaEva Magazine Tutti i diritti Riservati
  Contatti