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GIALLO PASSIONE 
QUELL'OMICIDIO SUL LAGO DI COMO
Pia Bellentani
Delitto alla sfilata
Villa D'Este sul lago di Como, 15
settembre 1948. Questa è la storia di una donna romantica che ha
ucciso per orgoglio nella cornice mondana più sfarzosa d’Italia

Il sole al tramonto tingeva d'oro le acque immobili
del lago di Como e una folla di eleganti figure
sfarfalleggiava tra le fontane e le aiuole perfettamente
curate di Villa d'Este. Era una serata di gala della
prima sfilata di moda post-bellica organizzata da
Giovanni Battista Giorgini, l'uomo che avrebbe reso
l'Italia la capitale del lusso mondiale. Modelle
meravigliose in abiti di seta e chiffon, industriali,
nobili, star del cinema: un tripudio di glamour in un
Paese ancora ferito dalla guerra. Ma quella notte, tra i
flash dei fotografi e il tintinnio dei calici, qualcosa
squarciò quell'idillio. Pia Bellentani, la contessa dal
passato umile, fece irruzione tra la folla alla ricerca
del suo amante Carlo Sacchi…
La contessa
Bellentani era la moglie del conte Carlo Bellentani,
industriale milanese di salumi e madre di due bambine.
Ricca sì, ma non nobile. Il suo nome da ragazza era Pia
Caroselli, nata a Sulmona, in Abruzzo, il 29 gennaio
1916. La sua famiglia, partendo da zero, aveva fatto una
discreta fortuna. Il padre aveva costruito la sua
fortuna mattone su mattone durante gli anni del
fascismo. Pia crebbe nel benessere e da sua madre ebbe
un'educazione molto religiosa.
Sulmona, terra di
confetti e poeti come Ovidio, era un mondo ristretto e
provinciale e Pia adolescente venne mandata a
perfezionare i suoi studi a Roma in un istituto
religioso. La sua educazione oscillava tra estasi
mistiche e febbri romantiche ispirate dai romanzi
d'appendice. Leggeva Dumas, Hugo, ma anche i fotoromanzi
tipo Bolero, e sognava un principe azzurro che la
portasse via da quella provincialità. "Ero divisa in
due." Confidò anni dopo. "Una parte di me voleva Dio,
l'altra un amore che consumasse tutto."
D’estate
insieme alla famiglia trascorreva le vacanze a Cortina
d’Ampezzo all’hotel Cristallo, tra i lampadari di Murano
e il parquet che scricchiolava sotto i tacchi. Le mire
della madre di Pia erano piuttosto chiare: “Qui si pesca
il marito giusto.”Diceva alla figlia mentre infilava in
valigia l’abito di crêpe azzurro che le faceva gli occhi
ancora più chiari.
E in quell’estate del 1937 Pia
aveva ventidue anni e un corpo che sembrava scolpito per
le cartoline: spalle sottili, vita da vespa, gambe
lunghe che spuntavano da gonne appena sotto il
ginocchio. I capelli neri, tagliati alla maschietta le
incorniciavano il viso. Quando rideva mostrava i denti
bianchi e una fossetta sulla guancia sinistra. Gli
uomini la guardavano due volte: la prima per gli occhi,
la seconda per il resto.
Una sera di fine
luglio, durante il tè danzante, entrò Lamberto
Bellentani. Quarant’anni portati con l’eleganza di chi
non deve dimostrare nulla: capelli brizzolati alle
tempie e una cravatta di seta annodata con nonchalance.
Indossava un blazer doppiopetto color crema e un
fazzoletto da taschino con le iniziali ricamate in filo
d’oro. Lui era un imprenditore con fabbriche di salumi a
Corsico, una villa sul Naviglio Pavese e un palazzo a
Milano in via Manzoni. Il titolo di conte lo aveva
acquistato dal nonno con un po’ di prosciutti e molta
astuzia, ma a Cortina nessuno chiedeva certificati.
Quella sera l’orchestra attaccò un valzer lento.
Lamberto attraversò la sala, prese due coppe di
champagne dal vassoio d’argento e si avvicinò a Pia.
“Signorina, mi concedete questo ballo o devo corrompere
il maestro?” Lei arrossì, ma accettò. Le sue mani erano
calde, la stretta sicura. Mentre giravano, tra i
riflessi dei lampadari, lui le parlò di cavalli, di
viaggi in terre esotiche, di una collezione di pipe
Dunhill. Pia ascoltava ipnotizzata, ogni parola era un
biglietto per un mondo dove non esistevano le suore di
Roma né le prediche materne sulla modestia, la
discrezione e la morale religiosa.
I genitori di
Pia, che alloggiavano nella stessa pensione, fiutarono
l’affare. Nei giorni seguenti Donna Rosa organizzò
picnic sul Faloria, inviti a teatro, persino una gita in
slitta trainata da cavalli lipizzani. Lamberto si
presentava sempre con un regalo: una sciarpa di
cachemire per la madre, una bottiglia di rosso pregiato
per il padre, una gardenia fresca ogni mattina per Pia.
“Sei il sole che mancava alle mie montagne.” Le scriveva
su cartoncini pastello profumati. Pia, che fino ad
allora aveva sognato amori impossibili tra le pagine di
Grand Hotel, si scoprì innamorata. Non dell’uomo, ancora
non lo conosceva bene, ma dell’idea: un marito che la
portasse via da Sulmona, da quella vita di provincia che
le andava stretta come i corsetti che portava
abitualmente. Lamberto rappresentava il riscatto
sociale, la rivincita di una ragazza che aveva imparato
a pregare in ginocchio, ma desiderava ballare fino
all’alba.
E quando un anno dopo arrivò la
proposta lei non disse di no! Il matrimonio avvenne 15
luglio 1938. La cerimonia fu celebrata nella chiesa di
San Rocco a Cortina, poi il ricevimento si spostò al
Cristallo. Trecento invitati, ventiquattro tavoli
apparecchiati con porcellane di Richard Ginori,
un’orchestra di dodici elementi. Pia indossava un abito
di raso bianco con strascico di tre metri, velo di tulle
ricamato a mano dalle suore di Sulmona. Lamberto, in
tight grigio perla, le infilò al dito un anello con un
diamante da tre carati.
Per Pia era un sogno!
Lui, erede di un impero di salumi con un titolo
nobiliare. “Da oggi sei la contessa Bellentani.” Le
sussurrò mentre firmavano il registro. Lei sorrise e
dentro di sé sentì un piccolo nodo: Contessa! Il titolo
era suo, finalmente! E da quel giorno lei, a 22 anni,
entrò in un mondo di ville, auto di lusso e ricevimenti.
La luna di miele durò un mese: Venezia, Capri, poi
Parigi. Al ritorno si stabilirono nella villa di
Corsico, un edificio neoclassico con colonne ioniche e
un giardino all’italiana. Pia aveva la sua stanza da
letto con baldacchino, un guardaroba che cresceva ogni
settimana, domestici che la chiamavano “Signora
contessa.”
Le prime crepe però arrivarono alcuni
mesi dopo quando, lei rimasta incinta, partorì una
femmina, Maria Letizia. Lamberto avrebbe desiderato un
maschio e deluso disse: “Ci riproveremo.” Ma la
secondogenita fu lo stesso una femmina.
L'Italia
al tempo bruciava sotto i bombardamenti e la guerra
cambiò tutto. Milano sotto le bombe, la famiglia
sfollata, Carlo impegnato negli affari neri del mercato
parallelo. Pia, sola con le bambine, scoprì la sua
fragilità: soffriva di crisi nervose, insonnia, un'ansia
che i medici etichettavano come "isteria femminile".
Iniziò a frequentare psichiatri, a bere cognac per
calmarsi, a cercare conforto in amicizie dubbie,
iniziando così a sentire il peso di un ruolo che non
aveva scelto del tutto. La ragazza di Sulmona era
diventata una signora, ma a che costo? Il suo mondo era
una patina dorata finta e ipocrita dove solo l’apparenza
aveva valore. Il mondo l’applaudiva: ricevimenti, caccia
alla volpe, serate al Teatro alla Scala, ma dentro di sé
qualcosa era cambiato. La notte, quando Lamberto russava
dopo il brandy, lei si svegliava di soprassalto. Il
sogno romantico si scontrava con la realtà di un marito
che tornava tardi dagli stabilimenti, che parlava solo
di bilanci e profitti, che la baciava sulla fronte come
si fa con una bambina.
“Tutto qui?” Si chiedeva
spesso pensando al suo matrimonio. Lei desiderava altro,
sentirsi una donna, ricevere attenzioni. Nell'estate del
1940, ossia due anni dopo il matrimonio, durante una
festa all'Hotel des Bains di Venezia, Pia conobbe Carlo
Sacchi, un industriale della seta. Lui era l'opposto di
suo marito. Una specie di avventuriero che si era fatto
da solo, venendo dal niente. Alto, moro, con un'eleganza
innata, Sacchi incarnava il bel tenebroso dal fascino
proibito. Pia, vestita di un abito verde smeraldo,
accettò volentieri la sua compagnia, poi lui la invitò a
ballare e lei leggera come una piuma si fece
trasportare.
Da quella sera Sacchi iniziò a
corteggiarla con poesie, fiori e lettere piene di
sottintesi e malizia. Lui abitava a Como, lei a Milano,
ma poi in piena guerra il destino aiutò la loro intima
amicizia. Il conte Bellentani alla ricerca di lidi più
sicuri di Milano si trasferì con la famiglia a Cernobbio
e i due ebbero così mille occasioni per incontrarsi.
Quell'anno Sacchi subì un evento tragico perdendo una
figlia, Pia, affranta dal quel dolore, tentò di
consolarlo e alla fine se ne innamorò follemente… Così
follemente che le scrisse queste parole: “Tu hai
suscitato in me sensazioni mai conosciute, risvegliato
sensazioni nuove, hai sconvolto il mio cuore ed i miei
sensi: mi hai fatto conoscere quello che si chiama
Amore. Attraverso questo amore io sento di essere oggi
una donna completa, questo lo devo a te e te ne
ringrazio moltissimo." Pia si era svelata e Sacchi ne
approfittò qualche settimana dopo.
Avvenne, certo
che avvenne! Era una sera di novembre, la pioggia di
fine autunno picchiava contro i vetri alti della suite
312 dell’Hotel Excelsior. Pia era arrivata per prima,
con il cappotto di cammello ancora bagnato e il cuore in
tumulto. Aveva detto al marito di andare a teatro con le
amiche. Lamberto, immerso nei suoi conti, aveva annuito
distrattamente.
Carlo Sacchi entrò alle nove e un
quarto, lasciando l’ombrello gocciolante nel secchio
d’ottone. Indossava un doppiopetto grigio ferro e un
sorriso che già pregustava quella serata da sogno. In
mano una bottiglia di Veuve Clicquot avvolta in carta
velina e due flut di cristallo. “Sei più bella di come
ti ricordavo. Disse, chiudendo la porta. Pia si tolse il
cappello, i capelli neri le scivolarono sulle spalle.
Aveva scelto un abito di crêpe nero, scollato quel tanto
che bastava per far impazzire un uomo. Sotto, una
guêpière di pizzo color champagne comprata di nascosto
da una sartina di via Manzoni e una calza color carne di
seta con la cucitura dietro. Lui stappò la bottiglia,
versò lo champagne e i due bicchieri tintinnarono: “Al
nostro amore!” Mormorò Sacchi.
Lei lo guardò con
occhi trasognanti: “A quello che non possiamo avere!”
Rispose lei. Lui le sfiorò la guancia, poi le labbra. Il
primo bacio fu lento, quasi timoroso, come se entrambi
temessero di rompere l’incantesimo. Poi la lingua di lui
trovò la sua e Pia si abbandonò, le mani che gli
afferravano il bavero. Sacchi la spinse contro la
parete, il cappotto di lei cadde sul parquet. Le sue
dita scesero lungo la schiena, trovarono la cerniera, la
abbassarono piano. L’abito scivolò a terra come una
tenda di teatro. Pia rimase in guêpière e calze di seta,
il respiro corto. “Sei un’opera d’arte!” Sussurrò lui.
Le baciò il collo, il seno, poi scese lungo il bordo del
pizzo.
Pia in piedi con le gambe tremanti chiuse
gli occhi, le dita affondate nei capelli di lui. Disse
semplicemente: “Prendimi!” E in quell’istante sentì la
fibbia della cintura di lui che si apriva, il fruscio
dei pantaloni che cadevano.
La portò sul letto,
le slacciò la guêpière, lentamente, come se ogni
fiocchetto fosse un giuramento. Poi le tolse le
mutandine e quando le sue labbra trovarono il centro di
lei, fino ad assaporare quel nettare caldo e abbondante.
Pia inarcò la schiena, un gemito che non riuscì a
trattenere.
Era il momento! E Sacchi non si fece
pregare. Sopra di lei, caldo, pesante, perfetto entrò
piano, guardandola negli occhi. Si mossero insieme,
prima lenti, poi sempre più veloci, come se il tempo
stesse per finire. Pia sentì un calore che non aveva mai
conosciuto, un’onda che partiva dal ventre e le
esplodeva nel petto. Gridò il nome di lui, le unghie
conficcate nella sua schiena.
Quando finì,
rimasero abbracciati, sudati, ansimanti. Fuori, la
pioggia era cessata. Sacchi le baciò la fronte, poi il
naso, poi la bocca. “Questa è la nostra prima notte.”
Disse. “Giurami che ce ne saranno mille altre…” Pia
sorrise, ma dentro di lei qualcosa già tremava. Sapeva
che mille notti non sarebbero mai bastate. Sul comodino
la bottiglia di champagne era ancora mezza piena, c’era
ancora tempo per bere e per fare ancora l’amore…
Da quella sera come due amanti segreti si incontravano
una volta a settimana in quella suite ed ogni volta si
ripromettevano amore e fedeltà. Ci furono anche due
viaggi clandestini a Venezia e Roma. Pia si sentiva
viva, finalmente amata! Si concedeva totalmente a Carlo,
nello spirito e nel corpo, immersa in un vortice di
emozioni nuove e coinvolgenti. Lei parlava di
separazione, di una vita impossibile insieme, lui
annuiva, ma non rispondeva.
Pia sapeva che era
sposato con un'ex ballerina viennese, Lillian Willinger
e che aveva tre figlie, ma ignorava le sue numerose
amanti sparse nel giro che conta, i cui nomi erano sulla
bocca di tutti. Sacchi era semplicemente un donnaiolo e
certamente non smentì la sua fama quando, dopo aver
consumato tutto quello che c’era da consumare di Pia,
riprese a frequentare altre donne.
La loro
relazione comunque andò avanti in un turbine di segreti,
passione e sesso, ma quando lei iniziò a sospettare lo
affrontò a brutto muso. Ma Sacchi mentiva anche
l’evidenza e sentendosi intrappolato da quella gelosia
iniziò a umiliarla e a bucare qualche appuntamento
lasciandola sola in quell’albergo, vestita come una
bambola per il piacere di lui.
Gelosa pazza
cercò di reprimere i suoi sentimenti pur di averlo,
finché non comparve sulla scena una nuova amante,
diciamo più importante, al secolo Sandra Guidi, detta
Mimì, che monopolizzò Carlo distraendolo dalle
intenzioni della Contessa Pia. Pia era disperata,
ferita nell’orgoglio e livida di gelosia. Presa dallo
sconforto tentò addirittura il suicidio gettandosi sotto
l’auto in corsa dell’amante. Carlo sterzò bruscamente,
uscì furente e aggredì verbalmente la donna, colpevole
di avergli ammaccato la sua lussuosa macchina sportiva.
Ma lei non si diede per vinta, non mollò! Pareva
davvero che ci godesse a farsi umiliare! Continuò a
tempestare di lettere disperate l'amante per cercare di
incontrarlo, nonostante la relazione con la famosa Mimì
fosse ormai un dato di fatto accettato dalla bella
società milanese.
E fu una sera di settembre
quando Pia decise di seguirlo. Lui aveva annullato
l’ennesimo appuntamento all'Excelsior con una scusa
banale: “Scusami, ma devo andare a Milano per lavoro.”
Le aveva detto al telefono. Pia non ci aveva creduto. Da
settimane lo spiava: ombre di profumi femminili sulle
sue camicie, biglietti profumati nascosti nel cruscotto
della sua decappottabile e soprattutto il suo distacco.
Quella sera, vestita con un tailleur grigio perla
che le segnava la vita ancora snella nonostante le due
gravidanze, un cappellino a cloche e guanti di pelle
nera, salì sulla sua Fiat 1100 e lo tallonò da Cernobbio
fino a Como. Le strade erano umide di pioggia recente, i
fanali delle auto riflettevano sul pavé. Sacchi
parcheggiò davanti al Grand Hotel. Pia si fermò a
distanza, spense il motore e si nascose dietro il
volante, il respiro corto. Lo vide scendere, elegante
come sempre: cappotto di cammello, sciarpa di seta
annodata.
La donna lo aspettava davanti
all’hotel. Era lei: Mimi, bella ed elegante, una visione
che avrebbe fatto impallidire le dive di Hollywood.
Venticinque anni al massimo, con una bellezza che
sembrava scolpita dal diavolo in persona. I capelli
erano una cascata di riccioli biondo platino, acconciati
in uno chignon basso che lasciava scoperto il collo
lungo. Il viso era un ovale perfetto: zigomi alti e
affilati come lame, labbra carnose dipinte di un rosso
fuoco. Indossava un abito da cocktail di satin rosso
rubino, aderente che le modellava i seni pieni e sodi,
la vita infinitesimale, i fianchi larghi e invitanti. Le
gambe, infinite, spuntavano da una gonna a tubo che
arrivava al polpaccio.
Si baciarono e Pia sentì
il mondo crollare. Rimase immobile in auto, le mani
strette sul volante, gli occhi fissi su quella scena. Il
tumulto interiore la travolse come un'onda di fango: il
gelo del tradimento, un vuoto che le stringeva lo
stomaco. "Bugie!" Disse sottovoce. "Chissà quante
finora!" Ricordava le notti all'Excelsior, i corpi
avvinghiati, le sue frasi: "Sei l'unica, Pia, la mia
musa, la mia follia."
E ora eccolo lì, con quella
puttana bionda che gli mangiava la bocca con gli occhi.
Gelosia, umiliazione, rabbia, un vortice che le
annebbiava la vista. Le lacrime le rigavano il trucco,
ma non erano di debolezza, erano di fuoco! Dentro di sé,
la ragazza di Sulmona, la devota educata dalle suore,
urlava di dolore, ma la contessa Bellentani, la donna
tradita e umiliata, covava vendetta. "Mi hai usata!"
Pensò. Il suo cuore le batteva forte, un ritmo
ossessivo: vendetta, vendetta. Sacchi l'aveva umiliata
troppe volte. Pia strinse i denti. "Devi pagare!" Si
disse. "Devi soffrire come soffro io!" La voglia di
vendicarsi le bruciava nelle vene come acido. Qualcosa
di definitivo, di irreversibile.
Non perse tempo
e il giorno dopo andò a Milano e comprò una pistola, una
Beretta calibro 6.35 da un rigattiere. "Per protezione."
Disse, ma dentro ribolliva l'orgoglio: quella ragazza di
Sulmona, salita tanto in alto, non poteva essere
scaricata come una serva.
Villa d'Este, 15
Settembre 1948. La sfilata a Villa d'Este a Cernobbio
era l'evento dell'anno dove venivano presentati i
modelli della famosa sarta milanese Biki per la
collezione inverno 48-49. Per quella serata di gala
Giorgini aveva invitato buyer americani, stilisti
emergenti come le sorelle Fontana. Tra gli invitati
all'evento mondano erano presenti il barone Rothscild,
la principessa d'Alemberg, uno zio di re Faruk d'Egitto
e il fior fiore della nobiltà e dell'industria lombarda.
E tra quella crema, nella sorpresa generale, fece il
suo ingresso la contessa Pia in forma smagliante. Era
sottobraccio al marito, ma i suoi occhi cercavano
Sacchi, colui che aveva osato umiliarla. Quando lo
incontrò lui la trattò con disprezzo e nel corso di
tutta la serata Sacchi tenne un comportamento villano ed
arrogante. Lei logorata ed oltraggiata non indugiò un
attimo a prendere la pistola, lasciata nel guardaroba e
nasconderla sotto la sua stola di ermellino.
Dopo
la sfilata delle modelle lo cercò di nuovo e lo trovò al
bar, in compagnia di una modella bionda. Si avvicinò a
Sacchi. Lui sulla difensiva disse: “Che cosa vuoi ancora
da me, che ti prende?” Lei: “Nulla, ma stavolta è
finita davvero, puoi credermi...” Lui: “Che cosa
intendi dire?” Lei: “Che ti posso uccidere. Ho qui la
pistola!” Lui rise: “I soliti romanzi a fumetti di
voi donne. I soliti terroni spacconi! Sei pazza, Pia.”
Allora lei estrasse la pistola e senza esitare sparò
colpendolo a bruciapelo Quattro colpi: uno al petto
mortale, gli altri mentre lui cadeva. Poi rivolse l'arma
contro sé stessa e premette il grilletto, ma i colpi
erano esauriti. Si udì chiaramente il suo urlo
disperato: “Non spara più, non spara piùùùùù.”
La
folla urlò, i flash esplosero. Pia, immobile, con il
fumo che saliva dalla canna, mormorò: "L'ho fatto per
orgoglio." Rimase celebre la frase di Robert Bouyerure,
un ex paracadutista francese che aveva sposato la sarta
Biki, della famiglia proprietaria del Corriere della
Sera. Dopo essersi avvicinato alla Contessa ed averle
rifilato tre schiaffi tremendi, con un infallibile
istinto di classe, le disse: "Andiamo madame, è chiaro
che si è trattato di un noioso incidente."
Il
marito di lei, il conte Bellentani, all’oscuro di tutto,
come tutti i mariti traditi, rimase incredulo sentendo
alcuni invitati che omaggiavano la sua signora con
epiteti coloriti tipo: “Puttana!” E qualcun altro si
rivolgeva direttamente a lui con frasi tipo “Ma tu lo
sapevi di essere cornuto? Eri sulla bocca di tutti..."
A quel punto qualcuno chiamò la polizia. Pia fu
arrestata e portata al carcere di S. Donnino a Como.
Nella sua prima dichiarazione alla polizia parlò di un
incidente, poi disse che voleva uccidersi di fronte
all’amante, ma che il sarcasmo dell'uomo le aveva fatto
perdere la testa.
Forse Sacchi non era del tutto
ignaro di quella reazione visto che al momento della
morte gli fu trovata in tasca una pistola con il colpo
in canna. Ai funerali parteciparono circa duecento
persone e il corteo passò per due chilometri tra due
file ininterrotte di curiosi. Le cronache del tempo
parlarono di numerose donne afflitte dal dolore.
Il processo, nel 1950 a Como, fu un circo mediatico.
I giornali la chiamarono "la contessa assassina", "la
belva in seta". Pia, difesa dall'avvocato Umberto
Brindani, invocò l'infermità mentale: crisi depressive,
menopausa precoce, abusi di sonniferi. Testimoni
parlarono della sua educazione bigotta, del matrimonio
infelice, della gelosia patologica. La figura di Sacchi
emerse come un donnaiolo senza scrupoli.
La
procura chiese l'ergastolo, ma l'Italia post-bellica era
indulgente con le "donne passionali". Le fu riconosciuta
la seminfermità mentale e fu condannata a soli 10 anni.
Ne scontò solo 7, poi venne graziata nel 1955 per buona
condotta.
In quell’occasione gli italiani
impararono che le pene variano a seconda della persona
che compie il delitto. Naturalmente non li trascorse in
carcere, ma nel manicomio giudiziario di Aversa. Il suo
ingresso in manicomio fu seguito con lo stesso interesse
con cui i giornali avevano seguito le fasi del processo.
La contessa fu accolta con grandi gentilezze e cortesie.
Dopo qualche tempo fu autorizzata a tenere con sé il
pianoforte che talvolta suonava deliziandosi con musiche
di Chopin e Litz.
Le motivazioni della sentenza
furono redatte dopo lungo tempo. Infatti il professor
Saporito, illustre luminare della psichiatria, impiegò
ben due anni per stilare una specie di perizia dove
stabiliva che la donna era vittima di un male
ereditario, che già in tenera età le avevano portato
smarrimenti, turbamenti e annebbiamenti mentali
chiosando con una perla degna di Freud: “Uccidendo
l'amante aveva ucciso se stessa!"
Il 23 Dicembre
1955 il Presidente della Repubblica di allora le abbonò
sei mesi di manicomio e tre di detenzione evitandole il
carcere duro. All’uscita del manicomio trovò un gruppo
di fotografi ad attenderla. Lei, al braccio del suo
avvocato, elegante, altera e perfettamente truccata si
limitò a salutare alzando il braccio, poi salì su una
lussuosa macchina nera che partì alla volta di Milano.
Salutò la folla fiera e vedova perché nel frattempo suo
marito, per sfuggire allo scandalo si era trasferito a
Montecarlo dove aveva trovato la morte qualche giorno
prima della liberazione della moglie.
Qualche
mese dopo Pia rilasciò alcune interviste in cui
dichiarò, per mettersi l’animo in pace e riscattare in
qualche modo la sua coscienza, di voler stendere le sue
memorie e devolvere il ricavato alle figlie di Sacchi.
Uscita dal manicomio visse ritirata a Milano con le
figlie, morendo nel 1988 a 72 anni.
Questa è
la storia di un delitto d’amore da parte di una donna
innamorata e tradita. Il suo delitto simboleggia
l'Italia di donne dell’epoca intrappolate tra tradizione
e modernità, orgoglio ferito in un mondo che cambiava
troppo in fretta. Tra queste appunto lei, la Contessa
Pia, che fu una vera e propria Signora Bovary,
sognatrice e romantica, che dalla provincialissima
Sulmona si trovò catapultata in una ambiente estraneo,
fatto di soldi e di guadagni facili, dove il sentimento
era un optional fastidioso e alle volte troppo
ingombrante. Insomma una storia non solo sangue sul
lago, ma il ritratto di una donna che, tra conventi e
amori impossibili, scelse la tragedia per non essere
dimenticata.
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IMMAGINE GENERATA DA IA
A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FONTI:
http:/canali.libero.it/affaritaliani/culturaspettacoli
www.thrillermagazine.it www.nonsoloparole.com www.opgaversa.it
http://enrica21.interfree.it/pia.html www.museocriminologico.it
www.misteriditalia.com


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