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GIALLO PASSIONE
 

QUELL'OMICIDIO SUL LAGO DI COMO
Pia Bellentani
Delitto alla sfilata
Villa D'Este sul lago di Como, 15 settembre 1948. Questa è la storia di una donna romantica che ha ucciso per orgoglio nella cornice mondana più sfarzosa d’Italia
 


 
Il sole al tramonto tingeva d'oro le acque immobili del lago di Como e una folla di eleganti figure sfarfalleggiava tra le fontane e le aiuole perfettamente curate di Villa d'Este. Era una serata di gala della prima sfilata di moda post-bellica organizzata da Giovanni Battista Giorgini, l'uomo che avrebbe reso l'Italia la capitale del lusso mondiale.
Modelle meravigliose in abiti di seta e chiffon, industriali, nobili, star del cinema: un tripudio di glamour in un Paese ancora ferito dalla guerra. Ma quella notte, tra i flash dei fotografi e il tintinnio dei calici, qualcosa squarciò quell'idillio. Pia Bellentani, la contessa dal passato umile, fece irruzione tra la folla alla ricerca del suo amante Carlo Sacchi…

La contessa Bellentani era la moglie del conte Carlo Bellentani, industriale milanese di salumi e madre di due bambine. Ricca sì, ma non nobile. Il suo nome da ragazza era Pia Caroselli, nata a Sulmona, in Abruzzo, il 29 gennaio 1916. La sua famiglia, partendo da zero, aveva fatto una discreta fortuna. Il padre aveva costruito la sua fortuna mattone su mattone durante gli anni del fascismo. Pia crebbe nel benessere e da sua madre ebbe un'educazione molto religiosa.

Sulmona, terra di confetti e poeti come Ovidio, era un mondo ristretto e provinciale e Pia adolescente venne mandata a perfezionare i suoi studi a Roma in un istituto religioso. La sua educazione oscillava tra estasi mistiche e febbri romantiche ispirate dai romanzi d'appendice. Leggeva Dumas, Hugo, ma anche i fotoromanzi tipo Bolero, e sognava un principe azzurro che la portasse via da quella provincialità. "Ero divisa in due." Confidò anni dopo. "Una parte di me voleva Dio, l'altra un amore che consumasse tutto."

D’estate insieme alla famiglia trascorreva le vacanze a Cortina d’Ampezzo all’hotel Cristallo, tra i lampadari di Murano e il parquet che scricchiolava sotto i tacchi. Le mire della madre di Pia erano piuttosto chiare: “Qui si pesca il marito giusto.”Diceva alla figlia mentre infilava in valigia l’abito di crêpe azzurro che le faceva gli occhi ancora più chiari.

E in quell’estate del 1937 Pia aveva ventidue anni e un corpo che sembrava scolpito per le cartoline: spalle sottili, vita da vespa, gambe lunghe che spuntavano da gonne appena sotto il ginocchio. I capelli neri, tagliati alla maschietta le incorniciavano il viso. Quando rideva mostrava i denti bianchi e una fossetta sulla guancia sinistra. Gli uomini la guardavano due volte: la prima per gli occhi, la seconda per il resto.

Una sera di fine luglio, durante il tè danzante, entrò Lamberto Bellentani. Quarant’anni portati con l’eleganza di chi non deve dimostrare nulla: capelli brizzolati alle tempie e una cravatta di seta annodata con nonchalance. Indossava un blazer doppiopetto color crema e un fazzoletto da taschino con le iniziali ricamate in filo d’oro. Lui era un imprenditore con fabbriche di salumi a Corsico, una villa sul Naviglio Pavese e un palazzo a Milano in via Manzoni. Il titolo di conte lo aveva acquistato dal nonno con un po’ di prosciutti e molta astuzia, ma a Cortina nessuno chiedeva certificati.

Quella sera l’orchestra attaccò un valzer lento. Lamberto attraversò la sala, prese due coppe di champagne dal vassoio d’argento e si avvicinò a Pia.
“Signorina, mi concedete questo ballo o devo corrompere il maestro?” Lei arrossì, ma accettò. Le sue mani erano calde, la stretta sicura. Mentre giravano, tra i riflessi dei lampadari, lui le parlò di cavalli, di viaggi in terre esotiche, di una collezione di pipe Dunhill. Pia ascoltava ipnotizzata, ogni parola era un biglietto per un mondo dove non esistevano le suore di Roma né le prediche materne sulla modestia, la discrezione e la morale religiosa.

I genitori di Pia, che alloggiavano nella stessa pensione, fiutarono l’affare. Nei giorni seguenti Donna Rosa organizzò picnic sul Faloria, inviti a teatro, persino una gita in slitta trainata da cavalli lipizzani. Lamberto si presentava sempre con un regalo: una sciarpa di cachemire per la madre, una bottiglia di rosso pregiato per il padre, una gardenia fresca ogni mattina per Pia.
“Sei il sole che mancava alle mie montagne.” Le scriveva su cartoncini pastello profumati. Pia, che fino ad allora aveva sognato amori impossibili tra le pagine di Grand Hotel, si scoprì innamorata. Non dell’uomo, ancora non lo conosceva bene, ma dell’idea: un marito che la portasse via da Sulmona, da quella vita di provincia che le andava stretta come i corsetti che portava abitualmente. Lamberto rappresentava il riscatto sociale, la rivincita di una ragazza che aveva imparato a pregare in ginocchio, ma desiderava ballare fino all’alba.

E quando un anno dopo arrivò la proposta lei non disse di no! Il matrimonio avvenne 15 luglio 1938. La cerimonia fu celebrata nella chiesa di San Rocco a Cortina, poi il ricevimento si spostò al Cristallo. Trecento invitati, ventiquattro tavoli apparecchiati con porcellane di Richard Ginori, un’orchestra di dodici elementi. Pia indossava un abito di raso bianco con strascico di tre metri, velo di tulle ricamato a mano dalle suore di Sulmona. Lamberto, in tight grigio perla, le infilò al dito un anello con un diamante da tre carati.

Per Pia era un sogno! Lui, erede di un impero di salumi con un titolo nobiliare. “Da oggi sei la contessa Bellentani.” Le sussurrò mentre firmavano il registro. Lei sorrise e dentro di sé sentì un piccolo nodo: Contessa! Il titolo era suo, finalmente!
E da quel giorno lei, a 22 anni, entrò in un mondo di ville, auto di lusso e ricevimenti. La luna di miele durò un mese: Venezia, Capri, poi Parigi. Al ritorno si stabilirono nella villa di Corsico, un edificio neoclassico con colonne ioniche e un giardino all’italiana. Pia aveva la sua stanza da letto con baldacchino, un guardaroba che cresceva ogni settimana, domestici che la chiamavano “Signora contessa.”

Le prime crepe però arrivarono alcuni mesi dopo quando, lei rimasta incinta, partorì una femmina, Maria Letizia. Lamberto avrebbe desiderato un maschio e deluso disse: “Ci riproveremo.” Ma la secondogenita fu lo stesso una femmina.

L'Italia al tempo bruciava sotto i bombardamenti e la guerra cambiò tutto. Milano sotto le bombe, la famiglia sfollata, Carlo impegnato negli affari neri del mercato parallelo. Pia, sola con le bambine, scoprì la sua fragilità: soffriva di crisi nervose, insonnia, un'ansia che i medici etichettavano come "isteria femminile".

Iniziò a frequentare psichiatri, a bere cognac per calmarsi, a cercare conforto in amicizie dubbie, iniziando così a sentire il peso di un ruolo che non aveva scelto del tutto. La ragazza di Sulmona era diventata una signora, ma a che costo? Il suo mondo era una patina dorata finta e ipocrita dove solo l’apparenza aveva valore. Il mondo l’applaudiva: ricevimenti, caccia alla volpe, serate al Teatro alla Scala, ma dentro di sé qualcosa era cambiato. La notte, quando Lamberto russava dopo il brandy, lei si svegliava di soprassalto. Il sogno romantico si scontrava con la realtà di un marito che tornava tardi dagli stabilimenti, che parlava solo di bilanci e profitti, che la baciava sulla fronte come si fa con una bambina.

“Tutto qui?” Si chiedeva spesso pensando al suo matrimonio. Lei desiderava altro, sentirsi una donna, ricevere attenzioni. Nell'estate del 1940, ossia due anni dopo il matrimonio, durante una festa all'Hotel des Bains di Venezia, Pia conobbe Carlo Sacchi, un industriale della seta. Lui era l'opposto di suo marito. Una specie di avventuriero che si era fatto da solo, venendo dal niente. Alto, moro, con un'eleganza innata, Sacchi incarnava il bel tenebroso dal fascino proibito. Pia, vestita di un abito verde smeraldo, accettò volentieri la sua compagnia, poi lui la invitò a ballare e lei leggera come una piuma si fece trasportare.

Da quella sera Sacchi iniziò a corteggiarla con poesie, fiori e lettere piene di sottintesi e malizia. Lui abitava a Como, lei a Milano, ma poi in piena guerra il destino aiutò la loro intima amicizia. Il conte Bellentani alla ricerca di lidi più sicuri di Milano si trasferì con la famiglia a Cernobbio e i due ebbero così mille occasioni per incontrarsi. Quell'anno Sacchi subì un evento tragico perdendo una figlia, Pia, affranta dal quel dolore, tentò di consolarlo e alla fine se ne innamorò follemente… Così follemente che le scrisse queste parole: “Tu hai suscitato in me sensazioni mai conosciute, risvegliato sensazioni nuove, hai sconvolto il mio cuore ed i miei sensi: mi hai fatto conoscere quello che si chiama Amore. Attraverso questo amore io sento di essere oggi una donna completa, questo lo devo a te e te ne ringrazio moltissimo." Pia si era svelata e Sacchi ne approfittò qualche settimana dopo.

Avvenne, certo che avvenne! Era una sera di novembre, la pioggia di fine autunno picchiava contro i vetri alti della suite 312 dell’Hotel Excelsior. Pia era arrivata per prima, con il cappotto di cammello ancora bagnato e il cuore in tumulto. Aveva detto al marito di andare a teatro con le amiche. Lamberto, immerso nei suoi conti, aveva annuito distrattamente.

Carlo Sacchi entrò alle nove e un quarto, lasciando l’ombrello gocciolante nel secchio d’ottone. Indossava un doppiopetto grigio ferro e un sorriso che già pregustava quella serata da sogno. In mano una bottiglia di Veuve Clicquot avvolta in carta velina e due flut di cristallo. “Sei più bella di come ti ricordavo. Disse, chiudendo la porta. Pia si tolse il cappello, i capelli neri le scivolarono sulle spalle. Aveva scelto un abito di crêpe nero, scollato quel tanto che bastava per far impazzire un uomo. Sotto, una guêpière di pizzo color champagne comprata di nascosto da una sartina di via Manzoni e una calza color carne di seta con la cucitura dietro. Lui stappò la bottiglia, versò lo champagne e i due bicchieri tintinnarono: “Al nostro amore!” Mormorò Sacchi.

Lei lo guardò con occhi trasognanti: “A quello che non possiamo avere!” Rispose lei. Lui le sfiorò la guancia, poi le labbra. Il primo bacio fu lento, quasi timoroso, come se entrambi temessero di rompere l’incantesimo. Poi la lingua di lui trovò la sua e Pia si abbandonò, le mani che gli afferravano il bavero. Sacchi la spinse contro la parete, il cappotto di lei cadde sul parquet. Le sue dita scesero lungo la schiena, trovarono la cerniera, la abbassarono piano. L’abito scivolò a terra come una tenda di teatro. Pia rimase in guêpière e calze di seta, il respiro corto. “Sei un’opera d’arte!” Sussurrò lui. Le baciò il collo, il seno, poi scese lungo il bordo del pizzo.

Pia in piedi con le gambe tremanti chiuse gli occhi, le dita affondate nei capelli di lui. Disse semplicemente: “Prendimi!” E in quell’istante sentì la fibbia della cintura di lui che si apriva, il fruscio dei pantaloni che cadevano.

La portò sul letto, le slacciò la guêpière, lentamente, come se ogni fiocchetto fosse un giuramento. Poi le tolse le mutandine e quando le sue labbra trovarono il centro di lei, fino ad assaporare quel nettare caldo e abbondante. Pia inarcò la schiena, un gemito che non riuscì a trattenere.

Era il momento! E Sacchi non si fece pregare. Sopra di lei, caldo, pesante, perfetto entrò piano, guardandola negli occhi.
Si mossero insieme, prima lenti, poi sempre più veloci, come se il tempo stesse per finire. Pia sentì un calore che non aveva mai conosciuto, un’onda che partiva dal ventre e le esplodeva nel petto. Gridò il nome di lui, le unghie conficcate nella sua schiena.

Quando finì, rimasero abbracciati, sudati, ansimanti. Fuori, la pioggia era cessata. Sacchi le baciò la fronte, poi il naso, poi la bocca. “Questa è la nostra prima notte.” Disse. “Giurami che ce ne saranno mille altre…” Pia sorrise, ma dentro di lei qualcosa già tremava. Sapeva che mille notti non sarebbero mai bastate. Sul comodino la bottiglia di champagne era ancora mezza piena, c’era ancora tempo per bere e per fare ancora l’amore…

Da quella sera come due amanti segreti si incontravano una volta a settimana in quella suite ed ogni volta si ripromettevano amore e fedeltà. Ci furono anche due viaggi clandestini a Venezia e Roma. Pia si sentiva viva, finalmente amata! Si concedeva totalmente a Carlo, nello spirito e nel corpo, immersa in un vortice di emozioni nuove e coinvolgenti. Lei parlava di separazione, di una vita impossibile insieme, lui annuiva, ma non rispondeva.

Pia sapeva che era sposato con un'ex ballerina viennese, Lillian Willinger e che aveva tre figlie, ma ignorava le sue numerose amanti sparse nel giro che conta, i cui nomi erano sulla bocca di tutti. Sacchi era semplicemente un donnaiolo e certamente non smentì la sua fama quando, dopo aver consumato tutto quello che c’era da consumare di Pia, riprese a frequentare altre donne.

La loro relazione comunque andò avanti in un turbine di segreti, passione e sesso, ma quando lei iniziò a sospettare lo affrontò a brutto muso. Ma Sacchi mentiva anche l’evidenza e sentendosi intrappolato da quella gelosia iniziò a umiliarla e a bucare qualche appuntamento lasciandola sola in quell’albergo, vestita come una bambola per il piacere di lui.

Gelosa pazza cercò di reprimere i suoi sentimenti pur di averlo, finché non comparve sulla scena una nuova amante, diciamo più importante, al secolo Sandra Guidi, detta Mimì, che monopolizzò Carlo distraendolo dalle intenzioni della Contessa Pia.
Pia era disperata, ferita nell’orgoglio e livida di gelosia. Presa dallo sconforto tentò addirittura il suicidio gettandosi sotto l’auto in corsa dell’amante. Carlo sterzò bruscamente, uscì furente e aggredì verbalmente la donna, colpevole di avergli ammaccato la sua lussuosa macchina sportiva.

Ma lei non si diede per vinta, non mollò! Pareva davvero che ci godesse a farsi umiliare! Continuò a tempestare di lettere disperate l'amante per cercare di incontrarlo, nonostante la relazione con la famosa Mimì fosse ormai un dato di fatto accettato dalla bella società milanese.

E fu una sera di settembre quando Pia decise di seguirlo. Lui aveva annullato l’ennesimo appuntamento all'Excelsior con una scusa banale: “Scusami, ma devo andare a Milano per lavoro.” Le aveva detto al telefono. Pia non ci aveva creduto. Da settimane lo spiava: ombre di profumi femminili sulle sue camicie, biglietti profumati nascosti nel cruscotto della sua decappottabile e soprattutto il suo distacco.

Quella sera, vestita con un tailleur grigio perla che le segnava la vita ancora snella nonostante le due gravidanze, un cappellino a cloche e guanti di pelle nera, salì sulla sua Fiat 1100 e lo tallonò da Cernobbio fino a Como. Le strade erano umide di pioggia recente, i fanali delle auto riflettevano sul pavé. Sacchi parcheggiò davanti al Grand Hotel. Pia si fermò a distanza, spense il motore e si nascose dietro il volante, il respiro corto. Lo vide scendere, elegante come sempre: cappotto di cammello, sciarpa di seta annodata.

La donna lo aspettava davanti all’hotel. Era lei: Mimi, bella ed elegante, una visione che avrebbe fatto impallidire le dive di Hollywood. Venticinque anni al massimo, con una bellezza che sembrava scolpita dal diavolo in persona. I capelli erano una cascata di riccioli biondo platino, acconciati in uno chignon basso che lasciava scoperto il collo lungo. Il viso era un ovale perfetto: zigomi alti e affilati come lame, labbra carnose dipinte di un rosso fuoco. Indossava un abito da cocktail di satin rosso rubino, aderente che le modellava i seni pieni e sodi, la vita infinitesimale, i fianchi larghi e invitanti. Le gambe, infinite, spuntavano da una gonna a tubo che arrivava al polpaccio.

Si baciarono e Pia sentì il mondo crollare. Rimase immobile in auto, le mani strette sul volante, gli occhi fissi su quella scena. Il tumulto interiore la travolse come un'onda di fango: il gelo del tradimento, un vuoto che le stringeva lo stomaco. "Bugie!" Disse sottovoce. "Chissà quante finora!" Ricordava le notti all'Excelsior, i corpi avvinghiati, le sue frasi: "Sei l'unica, Pia, la mia musa, la mia follia."

E ora eccolo lì, con quella puttana bionda che gli mangiava la bocca con gli occhi. Gelosia, umiliazione, rabbia, un vortice che le annebbiava la vista. Le lacrime le rigavano il trucco, ma non erano di debolezza, erano di fuoco! Dentro di sé, la ragazza di Sulmona, la devota educata dalle suore, urlava di dolore, ma la contessa Bellentani, la donna tradita e umiliata, covava vendetta. "Mi hai usata!" Pensò. Il suo cuore le batteva forte, un ritmo ossessivo: vendetta, vendetta. Sacchi l'aveva umiliata troppe volte. Pia strinse i denti. "Devi pagare!" Si disse. "Devi soffrire come soffro io!" La voglia di vendicarsi le bruciava nelle vene come acido. Qualcosa di definitivo, di irreversibile.

Non perse tempo e il giorno dopo andò a Milano e comprò una pistola, una Beretta calibro 6.35 da un rigattiere. "Per protezione." Disse, ma dentro ribolliva l'orgoglio: quella ragazza di Sulmona, salita tanto in alto, non poteva essere scaricata come una serva.

Villa d'Este, 15 Settembre 1948.
La sfilata a Villa d'Este a Cernobbio era l'evento dell'anno dove venivano presentati i modelli della famosa sarta milanese Biki per la collezione inverno 48-49. Per quella serata di gala Giorgini aveva invitato buyer americani, stilisti emergenti come le sorelle Fontana. Tra gli invitati all'evento mondano erano presenti il barone Rothscild, la principessa d'Alemberg, uno zio di re Faruk d'Egitto e il fior fiore della nobiltà e dell'industria lombarda.

E tra quella crema, nella sorpresa generale, fece il suo ingresso la contessa Pia in forma smagliante. Era sottobraccio al marito, ma i suoi occhi cercavano Sacchi, colui che aveva osato umiliarla. Quando lo incontrò lui la trattò con disprezzo e nel corso di tutta la serata Sacchi tenne un comportamento villano ed arrogante. Lei logorata ed oltraggiata non indugiò un attimo a prendere la pistola, lasciata nel guardaroba e nasconderla sotto la sua stola di ermellino.

Dopo la sfilata delle modelle lo cercò di nuovo e lo trovò al bar, in compagnia di una modella bionda. Si avvicinò a Sacchi. Lui sulla difensiva disse: “Che cosa vuoi ancora da me, che ti prende?”
Lei: “Nulla, ma stavolta è finita davvero, puoi credermi...”
Lui: “Che cosa intendi dire?”
Lei: “Che ti posso uccidere. Ho qui la pistola!”
Lui rise: “I soliti romanzi a fumetti di voi donne. I soliti terroni spacconi! Sei pazza, Pia.”
Allora lei estrasse la pistola e senza esitare sparò colpendolo a bruciapelo Quattro colpi: uno al petto mortale, gli altri mentre lui cadeva. Poi rivolse l'arma contro sé stessa e premette il grilletto, ma i colpi erano esauriti. Si udì chiaramente il suo urlo disperato: “Non spara più, non spara piùùùùù.”

La folla urlò, i flash esplosero. Pia, immobile, con il fumo che saliva dalla canna, mormorò: "L'ho fatto per orgoglio." Rimase celebre la frase di Robert Bouyerure, un ex paracadutista francese che aveva sposato la sarta Biki, della famiglia proprietaria del Corriere della Sera. Dopo essersi avvicinato alla Contessa ed averle rifilato tre schiaffi tremendi, con un infallibile istinto di classe, le disse: "Andiamo madame, è chiaro che si è trattato di un noioso incidente."

Il marito di lei, il conte Bellentani, all’oscuro di tutto, come tutti i mariti traditi, rimase incredulo sentendo alcuni invitati che omaggiavano la sua signora con epiteti coloriti tipo: “Puttana!” E qualcun altro si rivolgeva direttamente a lui con frasi tipo “Ma tu lo sapevi di essere cornuto? Eri sulla bocca di tutti..."

A quel punto qualcuno chiamò la polizia. Pia fu arrestata e portata al carcere di S. Donnino a Como. Nella sua prima dichiarazione alla polizia parlò di un incidente, poi disse che voleva uccidersi di fronte all’amante, ma che il sarcasmo dell'uomo le aveva fatto perdere la testa.

Forse Sacchi non era del tutto ignaro di quella reazione visto che al momento della morte gli fu trovata in tasca una pistola con il colpo in canna. Ai funerali parteciparono circa duecento persone e il corteo passò per due chilometri tra due file ininterrotte di curiosi. Le cronache del tempo parlarono di numerose donne afflitte dal dolore.

Il processo, nel 1950 a Como, fu un circo mediatico. I giornali la chiamarono "la contessa assassina", "la belva in seta". Pia, difesa dall'avvocato Umberto Brindani, invocò l'infermità mentale: crisi depressive, menopausa precoce, abusi di sonniferi. Testimoni parlarono della sua educazione bigotta, del matrimonio infelice, della gelosia patologica. La figura di Sacchi emerse come un donnaiolo senza scrupoli.

La procura chiese l'ergastolo, ma l'Italia post-bellica era indulgente con le "donne passionali". Le fu riconosciuta la seminfermità mentale e fu condannata a soli 10 anni. Ne scontò solo 7, poi venne graziata nel 1955 per buona condotta.

In quell’occasione gli italiani impararono che le pene variano a seconda della persona che compie il delitto. Naturalmente non li trascorse in carcere, ma nel manicomio giudiziario di Aversa. Il suo ingresso in manicomio fu seguito con lo stesso interesse con cui i giornali avevano seguito le fasi del processo. La contessa fu accolta con grandi gentilezze e cortesie. Dopo qualche tempo fu autorizzata a tenere con sé il pianoforte che talvolta suonava deliziandosi con musiche di Chopin e Litz.

Le motivazioni della sentenza furono redatte dopo lungo tempo. Infatti il professor Saporito, illustre luminare della psichiatria, impiegò ben due anni per stilare una specie di perizia dove stabiliva che la donna era vittima di un male ereditario, che già in tenera età le avevano portato smarrimenti, turbamenti e annebbiamenti mentali chiosando con una perla degna di Freud: “Uccidendo l'amante aveva ucciso se stessa!"

Il 23 Dicembre 1955 il Presidente della Repubblica di allora le abbonò sei mesi di manicomio e tre di detenzione evitandole il carcere duro. All’uscita del manicomio trovò un gruppo di fotografi ad attenderla. Lei, al braccio del suo avvocato, elegante, altera e perfettamente truccata si limitò a salutare alzando il braccio, poi salì su una lussuosa macchina nera che partì alla volta di Milano. Salutò la folla fiera e vedova perché nel frattempo suo marito, per sfuggire allo scandalo si era trasferito a Montecarlo dove aveva trovato la morte qualche giorno prima della liberazione della moglie.

Qualche mese dopo Pia rilasciò alcune interviste in cui dichiarò, per mettersi l’animo in pace e riscattare in qualche modo la sua coscienza, di voler stendere le sue memorie e devolvere il ricavato alle figlie di Sacchi.
Uscita dal manicomio visse ritirata a Milano con le figlie, morendo nel 1988 a 72 anni.

Questa è la storia di un delitto d’amore da parte di una donna innamorata e tradita. Il suo delitto simboleggia l'Italia di donne dell’epoca intrappolate tra tradizione e modernità, orgoglio ferito in un mondo che cambiava troppo in fretta. Tra queste appunto lei, la Contessa Pia, che fu una vera e propria Signora Bovary, sognatrice e romantica, che dalla provincialissima Sulmona si trovò catapultata in una ambiente estraneo, fatto di soldi e di guadagni facili, dove il sentimento era un optional fastidioso e alle volte troppo ingombrante.
Insomma una storia non solo sangue sul lago, ma il ritratto di una donna che, tra conventi e amori impossibili, scelse la tragedia per non essere dimenticata.






IMMAGINE GENERATA DA IA
A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FONTI:
http:/canali.libero.it/affaritaliani/culturaspettacoli
www.thrillermagazine.it
www.nonsoloparole.com
www.opgaversa.it
http://enrica21.interfree.it/pia.html
www.museocriminologico.it
www.misteriditalia.com







 
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