HOME   CERCA   CONTATTI   COOKIE POLICY
 
GIALLO PASSIONE
 
STORIA DI UNA DONNA NORMALE

Antonietta Longo
LA DECAPITATA DEL LAGO
Siamo negli anni 50, in piena ripresa economica del Paese, una giovane donna lascia la Sicilia, inseguendo il sogno del benessere. Si trasferisce a Roma per migliorare la sua vita, ma troverà soltanto la morte.
 
 
 
Era l'estate del 1955, e l'Italia respirava l'aria frizzante del boom economico nascente. Roma, con i suoi vicoli affollati di Vespe e di caffè all’aperto si stava lasciando alle spalle le macerie della guerra. Ma sotto quella patina di ottimismo, aleggiavano ancora ombre: la corruzione politica, i segreti della Resistenza, e un senso di precarietà che rendeva ogni notizia di cronaca nera un brivido collettivo. I giornali, come "Il Messaggero" e "Paese Sera" con i loro titoloni cubitali vendevano migliaia di copie al giorno.

Castelgandolfo, quel borgo incantato sulle colline albane, era il rifugio estivo del Papa Pio XII, il pastore angelico che benediceva le folle sul piccolo piazzale antistante. Il lago, con le sue acque tranquille, specchiava i cipressi e i resti delle ville romane antiche. Lì, tra i villeggianti romani in cerca di frescura, la vita scorreva lenta, fatta di gelati al limone e chiacchiere sul lungolago. Ma la mattina del 10 luglio 1955, tutto cambiò.

Erano le sette in punto quando Giuseppe Restuccia, un meccanico di Frascati con le mani unte d'olio e un berretto calcato sulla testa stempiata, decise di fare una passeggiata lungo la riva del lago prima di aprire l'officina. Camminava fumando una Nazionale senza filtro accanto a don Luigi, il parroco di San Tommaso da Villanova. Si erano incontrati lì per caso. E fu proprio lui a notare qualcosa di strano...

"Giuseppe, guarda laggiù... cos'è quella roba sotto il giornale?" Mormorò, indicando un mucchio informe tra i canneti, a pochi metri dall'acqua. Il meccanico si avvicinò. Sollevò con un bastone i fogli del giornale – una copia de "Il Messaggero" datata 5 luglio 1955, sgualcita e umida – e ciò che vide gli gelò il sangue.
Un corpo nudo di donna senza testa, disteso sulla ghiaia come un manichino abbandonato. La pelle pallida, segnata da lividi violacei. Il collo reciso terminava in un orrore rosso scuro, e intorno, mosche che ronzavano e un odore insopportabile. Il meccanico indietreggiò, vomitando. Don Luigi si fece il segno della croce, balbettando preghiere in latino.

“Chiama i carabinieri! Subito!” Gridò Giuseppe, correndo verso il paese. In pochi minuti Castelgandolfo si trasformò in un alveare. I carabinieri arrivarono da Albano Laziale a sirene spiegate con le loro Fiat 1100. Il maresciallo Antonio Bianchi, un siciliano trapiantato al Nord con baffi folti e un'aria da duro, prese in mano la scena. "Nessuno tocchi niente." Ordinò, mentre i fotografi venuti da Roma scattavano flash su flash.

La notizia esplose come una bomba. Quel pomeriggio, "Il Messaggero" – ironia della sorte, lo stesso giornale che copriva il cadavere – uscì in edizione straordinaria con un titolone: "ORRORE A CASTELGANDOLFO: DONNA DECAPITATA SUL LAGO DEL PAPA". I caratteri di scatola occupavano mezza prima pagina, con una foto sfocata della riva.
Roma impazzì. Le edicole furono prese d'assalto. "Chi è la poveretta? Una turista? Una del posto?" Si chiedevano gli uomini seduti nei bar. "Sarà un delitto passionale, vedrete." Disse una donna anziana che di uomini se ne intendeva…

L'Italia intera trattenne il fiato per un mese. Ogni giorno nuovi dettagli: il corpo era di una donna di circa 30 anni, alta circa un metro e sessantacinque, con segni di una vita agiata – mani curate, un piccolo neo sul fianco. Nessun documento, nessun vestito. La testa? Sparita, forse gettata nel lago o seppellita altrove.
Gli inquirenti setacciarono i dintorni: draghe nel lago, cani poliziotto nei boschi, interrogatori a tappeto. Si parlò di un amante geloso, di un marito tradito, di amore a pagamento, persino di riti satanici – voci che giravano nei vicoli, amplificate dal passaparola.

Quel corpo senza testa divenne l'ossessione nazionale. Chi era quella donna decapitata? Quella mattina del 10 luglio il mistero era solo all'inizio. L'Italia del 1955 aveva trovato il suo passatempo estivo. E il lago di Albano, da specchio di pace, divenne teatro di un incubo che nessuno avrebbe dimenticato.


******

Il maresciallo Antonio Bianchi non dormiva da tre giorni. La sua stanza nella caserma di Albano Laziale puzzava di caffè freddo, inchiostro di giornali e sigarette Alfa, e sul tavolo c’era un fascicolo che cresceva come un tumore: “Ignoto n. 1 – Decapitata di Castelgandolfo.” Ogni pagina era un pugno nello stomaco. La ragazza era abbronzata, come di chi passava le domeniche al mare o in campagna. Le unghie delle mani e dei piedi erano laccate di un rosso acceso, come il colore delle donne che volevano farsi notare in un’epoca in cui lo smalto era ancora un lusso e un peccato.

Ma il corpo raccontava altro: ferite da coltello, una decina in tutto. Alcune superficiali, all’addome, come se l’assassino avesse voluto farla soffrire. Altre più profonde, sulla schiena. Una sola era mortale: un colpo secco, tra la quarta e la quinta vertebra, inferto da dietro. Poi, con la stessa lama – un coltello da macellaio, forse – aveva reciso la testa. Un taglio netto, da chirurgo o da boia. Qualcuno disse che la testa era finita in fondo al cratere vulcanico, cibo per i pesci. Altri, giuravano che l’assassino l’aveva portata via come trofeo. Il maresciallo Bianchi però non credeva ai trofei.

L’unico segno di riconoscimento di quella poveretta era un orologio da polso, marca Zeus, quadrante piccolo, cinturino di pelle nera consumato. Fermo alle 23:47. Nessuno sapeva se fosse l’ora del delitto o se si fosse semplicemente scaricato. Accanto al corpo, i carabinieri trovarono una scarpa da uomo, numero 42, un pacchetto di Nazionali accartocciato, un fazzoletto con le iniziali “R.M.”. Oggetti che non portavano da nessuna parte e che forse non c’entravano nulla col delitto.

“Poca roba.” Borbottò il sostituto procuratore, un napoletano magro con occhiaie da intellettuale, mentre sfogliava i verbali. “Troppa poca roba.” Disse ancora scuotendo la testa, ma c’era una certezza, e su quella non si discuteva: il delitto era avvenuto lì, esattamente lì. Le chiazze di sangue sulla ghiaia erano troppe, troppo concentrate. La ragazza era stata uccisa sul posto da qualche giorno. Non trasportata. Non spostata. L’assassino l’aveva colpita alle spalle, l’aveva guardata cadere. Poi, con calma, aveva fatto il suo lavoro. Perché? Bianchi rileggeva i rapporti medico-legali fino a imparare a memoria ogni parola. “Decapitazione post-mortem. Nessun segno di violenza sessuale. Nessuna traccia di stupefacenti.”

La ragazza non era una prostituta, non era una tossica, non era una sbandata. Era una donna che aveva una vita. L’Italia guardava. I giornali non mollavano. “DOV’È LA TESTA DELLA BELLA IGNOTA?” Titolava Paese Sera. “UN MOSTRO TRA NOI?” Si chiedeva Il Tempo. Le fotografie del corpo giravano di mano in mano. Le donne si stringevano nei fazzoletti, gli uomini abbassavano lo sguardo. A Roma, una medium si offrì di parlare con lo spirito della vittima. A Milano, un ex partigiano confidò ai carabinieri di aver visto una ragazza con lo smalto rosso salire su una Topolino nera, la sera del 7 luglio. Ma ogni pista si spezzava.

L’orologio Zeus fu mandato a tutte le gioiellerie del Lazio. Le unghie rosse? “Saranno migliaia di ragazze così.” Disse il parrucchiere di Frascati. Il sangue era tipo 0 positivo, il più comune. L’assassino aveva pianificato tutto. Aveva scelto un posto isolato, la riva di un lago di notte, con la luna che illuminava appena. Aveva portato via la testa per impedire il riconoscimento, per paura di essere riconosciuto. Quindi non era un delitto occasionale, quindi quel cadavere non apparteneva a una prostituta! Quell’uomo aveva lasciato il corpo nudo per umiliarlo, o per confondere. Aveva coperto tutto con un giornale di cinque giorni prima – un dettaglio che tormentava Bianchi. Perché quel giornale? Era un messaggio? Un depistaggio? O semplicemente l’assassino leggeva Il Messaggero e ne aveva una copia in macchina?

Una sera, tardi, il maresciallo uscì dalla caserma e scese al lago. Solo. La ghiaia scricchiolava sotto le sue scarpe. Si fermò nel punto esatto. Il sangue era stato lavato dalla pioggia, ma lui lo vedeva ancora. Chiuse gli occhi. “Chi eri?” Mormorò. “E perché lui ti voleva cancellare?” Sopra di lui, il palazzo papale era buio. Pio XII dormiva, o pregava. L’Italia dormiva. Ma il lago, quel lago antico, custodiva un segreto che nessuno avrebbe mai strappato via. E quel corpo restava senza volto, senza voce, senza giustizia. Solo un orologio da donna fermo alle 23:47, e un paese intero che non avrebbe mai smesso di chiedersi: chi l’ha uccisa, e perché?

Il maresciallo Bianchi non era uomo da arrendersi, ma quella sera del 15 luglio sentì per la prima volta un nodo allo stomaco che non era fame. Cinque giorni dal ritrovamento, e ancora niente. Zero. I carabinieri avevano iniziato dal basso, come sempre. Prima la gente del posto. L’imbarcadero “La Culla del Lago” era un capanno di legno con due barche a motore e un odore di nafta. Il proprietario, un certo Ermanno Proietti, sessant’anni, pancia da birra e baffetti alla Clark Gable, giurò sulla Madonna di Pompei: “Marescia’, qua vengono solo i soliti. Romani in gita, preti in ferie, qualche tedesco con la Leica. Una ragazza sola? Con lo smalto rosso? Mai vista. E mica mi sfuggono, le belle figliole.”

Di fronte dall’altra parte della strada c’era il ristorante “Il Paradiso”, un locale con terrazza sul lago, tovaglie a quadretti e specialità di coregone. Il titolare, Adelmo, ex cameriere del Grand Hotel, si asciugò le mani nel grembiule: “La sera del 9 ero chiuso per inventario. Ma anche se fossi stato aperto, non sarebbe entrata senza vestiti, no? E poi, una donna sola qui? Impossibile. Le signorine vengono con il fidanzato o con la famiglia.”

Infine il guardiamacchine, un ragazzo di diciotto anni di nome Otello, che dormiva in una Topolino rossa parcheggiata vicino alla strada. “Ho visto macchine, maresciallo. Una Balilla nera, una Lancia bianca, una Vespa. Ma persone a piedi, dopo le dieci, niente.” Nessuno. Nessun ricordo. Nessuna ragazza con un orologino Zeus e le unghie rosse.

L’autopsia arrivò il 17 luglio, firmata dal professor Aldo Morandi, anatomopatologo dell’Università di Roma. Bianchi lesse il referto sotto la luce gialla di una lampada da tavolo, e ogni riga era un mattone. “Decesso risalente a circa cinque giorni prima del ritrovamento. Decapitazione post-mortem con lama affilata, probabile coltello da macellaio o strumento chirurgico. Ferite multiple da arma da taglio, una letale alla regione dorsale. Nessun segno di violenza carnale. Assenza di ovaie, asportate con precisione chirurgica, post-mortem.”

Bianchi posò il foglio. Le ovaie. Non era un delitto passionale! Non era solo un maniaco! Qualcuno aveva aperto quel corpo come un libro, aveva preso ciò che voleva, e aveva richiuso. Con calma. Con cognizione. Quindi il corpo intero avrebbe parlato! “Chi cavolo sei tu?” Mormorò, fissando la foto del cadavere sul muro. L’indagine era un vicolo cieco. Nessun testimone. Nessun movente. Nessun nome! Solo un busto senza testa, senza organi, senza nome. Poi, un’idea.

Era il 20 luglio. La televisione italiana trasmetteva ancora in bianco e nero, e solo a Roma e Milano. Ma c’era Tribuna Politica, c’era Lascia o raddoppia? e c’era il telegiornale. E così il 22 luglio 1955, alle 20:45, dopo il Carosello, un mezzobusto del TG interruppe la programmazione. “Signore e signori, un appello della Questura di Roma.” Sullo schermo apparve l’orologino Zeus, ingrandito, girato lentamente su uno sfondo nero. “Chi riconosce questo oggetto? È stato ritrovato vicino al corpo di una giovane donna assassinata a Castelgandolfo. Chiunque abbia informazioni è pregato di contattare la più vicina stazione dei carabinieri.”

L’Italia si fermò. Le caserme furono sommerse di telefonate. Una signora di Ciampino giurò che era identico a quello di sua figlia, scomparsa da tre giorni – ma poi la ragazza tornò a casa. Un gioielliere di Frascati disse di averne venduti tre, tutti a uomini. Un prete di Marino pensò fosse di una novizia. Niente. Ma per la prima volta, la polizia italiana aveva usato la televisione per un’indagine. I giornali titolarono: “L’OROLOGIO PARLA IN TV”. La gente iniziò a guardare gli schermi con occhi diversi. Bianchi, quella sera, spense la luce della caserma e uscì. Il lago era nero, il cielo pieno di stelle. Si accese una sigaretta. “Ti troverò, cazzo se ti trovo!” Disse al vento. “Anche se devo scavare tutto il cratere.” Ma il lago taceva. E le ovaie mancanti, come la testa, erano un segreto che qualcuno aveva portato via per sempre.

Ma quell’orologio allacciato al polso sinistro col cinturino di pelle nera iniziò a parlare. Perché lo Zeus era un modello da donna, raro, prodotto in soli 150 esemplari dalla piccola manifattura orologiaia di Via del Babuino, a due passi da Piazza di Spagna. Non era un regalo qualunque: costava 4.800 lire, quasi uno stipendio mensile di una domestica.
“Se ci sono solo 150 esemplari.” Disse il maresciallo al suo vice. “E li hanno venduti tutti a Roma e dintorni. Partiamo da lì.” Iniziarono il 25 luglio. Una squadra di otto carabinieri bussò a ogni gioielliere, orologiaio, banco dei pegni tra Roma, Frascati, Tivoli, Velletri. E fu Aristide Bellucci, un orefice di Via Nazionale con la bottega piena di pendole e medaglie religiose, a dare la svolta. “Lo ricordo come fosse ieri.” Disse, sistemandosi gli occhiali. “L’ho venduto il 12 giugno. A un signore alto, capelli grigi, occhiali d’oro. Ha pagato in contanti. Ecco, guardi il registro.” Sul registro: Orologio donna Zeus, mod. 77/B, n. di serie 117 – L. 4.800.

Bianchi lesse quel rapporto, beh sì ancora poca roba. Le indagini non si fermarono lì. Incrociarono i dati con l’Ufficio Persone Scomparse della Questura. E saltò fuori una denuncia del 1° luglio 1955: “Si denuncia la scomparsa di Longo Antonietta, domestica presso famiglia Gasparri, Via Tigrè 18, Roma. Ultima volta vista la sera del 30 giugno. Altezza m. 1,60, capelli castani, occhi verdi. Segno particolare: quarto dito del piede sinistro più lungo degli altri.”

La descrizione combaciava perfettamente. Ma serviva la certezza. Le impronte digitali – prese dal corpo al momento del ritrovamento – furono confrontate con quelle sul libretto di lavoro di Antonietta, depositato presso l’Ufficio Collocamento. Positivo. Era lei! Certo che era lei! Antonietta Longo. Nata il 14 marzo 1931 a Piazza Armerina. Arrivata a Roma nel 1945, a quattordici anni, con una valigia di cartone e un sogno più grande della Sicilia. Aveva servito per dieci anni nella casa del dottor Gasparri, un medico! Bianchi ripensò all’asportazione chirurgica delle ovaie! La poveretta in quella casa aveva pulito, cucinato, cresciuto i figli, ascoltato i segreti di una famiglia borghese che la trattava bene, ma mai come una di loro.

Il 28 luglio, due sorelle arrivarono alla Stazione Termini con un treno da Catania. Grazia e Concetta Longo, vestite di nero, veli in testa, occhi gonfi. Le portarono all’obitorio. Non c’era la testa. Non c’erano le ovaie. Ma c’era il piede. Grazia si inginocchiò. “È lei.” Singhiozzò. “Guardate il dito… il quarto dito del piede sinistro più lungo. Da piccola la chiamavamo ‘la principessa con la scarpa stretta’.” Concetta non parlò.

Finalmente quel cadavere mutilato aveva un nome: Antonietta! Ora aveva anche un volto – nelle fotografie della famiglia si vedeva una ragazza sorridente con i capelli raccolti. Ma il mistero non era finito. Anzi. Era appena iniziato. Perché Antonietta era finita nuda, decapitata, mutilata, sulla riva del lago di Castelgandolfo? Il maresciallo Bianchi chiuse il fascicolo. Guardò fuori dalla finestra. Il sole tramontava su Roma, e la città – con le sue luci, i suoi segreti, i suoi peccati – si preparava a una nuova notte. “Ora tocca a te, dottore!” Mormorò. E accese un’altra sigaretta.


******

Antonietta Longo era nata il 25 luglio 1925 a Mascalcia, un pugno di case di pietra lavica abbarbicate sulle pendici dell’Etna, in provincia di Catania. Il padre faceva il contadino, la madre cuciva corredi per le spose. Nove fratelli, una capra, un orto di pomodori. A quattordici anni, nel 1939, la guerra era ancora lontana, ma la fame no. “Vai a Roma.” Le disse la madre, preparandole una valigia di cartone legata con lo spago. “Là c’è lavoro. Là c’è futuro.” E Antonietta malvolentieri arrivò alla Stazione Termini con un vestito da poco cucito a mano e un rosario in tasca. Prima collocamento: famiglia ebrea in via Po, poi una vedova in Prati. Nel 1945, a guerra finita, entrò in casa Gasparri, al Quartiere Africano. Dieci anni. Dieci anni a lucidare argento, stirare camicie, servire caffè in tazzine di porcellana. Dieci anni a dormire in una cameretta sotto il tetto. Era una grande lavoratrice. Si alzava alle cinque, preparava il latte per i bambini del dottore. Sorrideva sempre, parlava poco, mandava metà dello stipendio a Mascalcia.

Col tempo si era fatta delle amiche: Maria, napoletana, domestica dai conti in Parioli. Rosina, sarda, commessa da Upim. Tina, veneta, cameriera al bar di piazza Bologna. La loro domenica pomeriggio era sacra. Si incontravano al Salone Imperiale, una sala da ballo in via Velletri, con il pavimento di linoleum e l’orchestra che suonava pezzi americani. Le donne pagavano 80 lire per entrare, gli uomini il doppio. Antonietta si metteva il vestito buono, blu a pois, comprato in un grande magazzino. Un filo di rossetto e lo smalto rosso sulle unghie. Ballava il cha-cha-cha, il valzer, il tango. Tre storie d’amore, nessuna durata più di un’estate. Con Salvatore, un macellaio di Testaccio, ma finì dopo due mesi quando lei scoprì che era sposato. Giovanni, marinaio di stanza a Civitavecchia che le promise il mare, ma sparì con la nave. E il terzo Renato, un negoziante di tessuti di piazza Sant’Emereziana.

Antonietta era una delle tante, con una storia comune. Donne che arrivavano con i treni, le valigie di cartone e sogni nel cassetto. Nel 1955 vi erano 1.200.000 domestiche in Italia. Oltre il 70% provenivano dal Sud con uno stipendio medio di 8.000 lire al mese. La loro bellezza era tutta lì con un Rossetto Revlon a 150 lire; un paio di calze di nylon Omsa a 200 lire e un paio di scarpe con il tacco a 1.200 lire.

Tutte con lo stesso sogno: il Principe Azzurro: “Se mi sposo, smetto di servire.” Ma il Principe non arrivava. Arrivavano invece i padroni che allungavano le mani, i fidanzati che sparivano e le tante notti in cui si piangeva in silenzio, con la radio che cantava “Vola colomba”. E la violenza sulle donne, quella silenziosa, quotidiana era a portata di mano: Una ragazza violentata in un cinema di seconda visione, una domestica buttata giù dalle scale per un piatto rotto, una prostituta trovata nel Tevere, con la testa spaccata.

Antonietta lo sapeva. Ma continuava a ballare. A mettere lo smalto rosso. A credere che un giorno sarebbe salita su una Lambretta con un uomo in giacca e cravatta, e avrebbe lasciato per sempre quella cameretta sotto il tetto, fredda e umida d’inverso, infuocata d’estate. Quel 30 giugno 1955, uscì di casa con il vestito blu a pois bianchi. Disse alla signora Gasparri: “Vado al cinema con le amiche.” Non tornò più.

L’ultima volta che qualcuno la vide viva prima della scomparsa era domenica 26 giugno, al Salone Imperiale. Ballava con Renato. L’orologio Zeus brillava al polso. “È bello.” Le disse lui. “È un regalo.” Rispose lei, sorridendo. Non sapeva che quel regalo era una condanna. Non sapeva che dieci giorni dopo sarebbe finita nuda, senza testa, senza ovaie, sulla riva del lago di Castelgandolfo. Con lo smalto rosso ancora perfetto. Come un marchio. Come un grido che nessuno avrebbe mai sentito.


******

Intanto il maresciallo Bianchi, ogni sera, prima di spegnere la luce, rileggeva le deposizioni delle cameriere del palazzo di via Tigrè.
Filomena, cuoca dai Ricci, piano terra: “Da Natale in qua, la Ninetta era cambiata. Rideva di più. Si metteva il rossetto anche di martedì. L’ho vista due volte salire su una Lancia Aurelia grigia, con un signore distinto, capelli brizzolati, cravatta di seta. Le apriva la portiera come al cinema.”
Giuseppina, stiratrice dai Martini, secondo piano: “Un sabato di aprile l’ho accompagnata io alla Posta di San Silvestro. Ha ritirato 214.000 lire dal libretto. “Sono i miei risparmi.” Mi ha detto. “Li tengo per quando mi sposerò.”

E poi c’era quello scontrino del 27 giugno, MASER – Abbigliamento Donna, piazza Sant’Emereziana. Scontrino n. 1847: Vestitino di tela blu a fiorellini – L. 1.900. Valigia di fibra, colore crema, due chiusure – L. 800. La commessa ricordava: “Ha pagato in contanti. Ha detto: “Lo metto per il viaggio di nozze”.”
Il 28 giugno, Antonietta aveva chiesto alla signora Gasparri un mese di ferie. “Devo tornare al mio paese a Mascalcia. Mia madre sta poco bene.” La signora acconsentì. Le diede persino 5.000 lire di anticipo. Ma Antonietta non partì mai.
Il 30 giugno, alle ore 11:15. Fermo Posta Piazza San Silvestro, Antonietta aveva ritirato una lettera in busta azzurra, timbro di Roma. Nessun mittente. La aprì lì, davanti allo sportello. La commessa la vide sorridere, poi impallidire.
Quindi come concordato con la Signora Gasparri il 30 giugno Antonietta uscì dalla casa di Via Tigrè con il vestitino blu nuovo, una borsetta di vernice bianca, un biglietto ferroviario Roma-Catania, partenza ore 22:00, vagone letto due valigie depositate al Deposito Bagagli della Stazione Termini (talloncino n. 447 e 448)

Dentro le valigie: un corredo da sposa completo: 3 camice da notte in nylon, 6 mutandine di seta colore avorio, 2 reggiseni di pizzo marca “Lovely”, un vestito da sposa corto, un paio di scarpe bianche tacco 5, 4 paia di calze velate marca “Omsa”, un profumo “Fleurs de Rocaille”. E poi, in fondo alla valigia piccola: una fedina d’oro con incisione interna: A. & G. – 7.7.55, un biglietto scritto a mano: “Domenica ti porto via. Non dire niente a nessuno. G.”

Ma Antonietta non prese mai quel treno delle 22:00. Il biglietto fu trovato intatto nel cestino della pensione “Aurora” di via Principe Amedeo 83 dove si era rifugiata in attesa del suo uomo. Camera: n. 12, terzo piano, 250 lire a notte Registro: firma “Antonietta Longo, nata Mascalcia, prof. domestica”
Lei rimase in quella pensione cinque giorni. La proprietaria ricordava: “Una brava ragazza. Pagava in anticipo. La sera del 2 luglio è uscita alle 19:30, vestita di blu, con la borsetta bianca. Ha detto: “Vado a prendere un caffè con il mio fidanzato”. Non è più tornata. Ho tenuto la valigia tre giorni, poi l’ho portata in Questura.”

Il 5 luglio 1955 Roma è un forno. Antonietta uscì dalla pensione alle 19:30. Indossava il vestitino di tela blu. Sandali bianchi, smalto rosso, orologino Zeus al polso. Dove era diretta? Il maresciallo Bianchi ricostruì il percorso: alle 19:45 era stata vista in piazza Santa Maria Maggiore da un edicolante. Alle 20:10 salì su una Lancia Aurelia grigia che si era fermata davanti alla basilica. L’uomo aveva circa 45-50 anni, capelli brizzolati, occhiali, giacca di lino chiaro.
Poi, il buio.

Insomma lei era rimasta per cinque giorni in attesa di qualcosa che qualcuno le aveva promesso. Bianchi non si perse d’animo e ricominciò daccapo: Il corpo era stato trovato il 10 luglio, sulla fedina era impressa la data del 7.7.55. Qualcuno aveva promesso ad Antonietta un matrimonio lampo. Qualcuno l’aveva convinta a svuotare il libretto, a comprare il corredo, a lasciare il lavoro.
E quel cinque luglio qualcuno l’aveva portata al lago e lì, tra i canneti, l’aveva uccisa. Ma perché le ovaie? Perché la testa? Perché il corredo da sposa abbandonato in stazione? Il maresciallo sapeva una cosa sola: la prossima mossa sarebbe stata quella di bussare a casa Gasparri la casa del medico, moglie devota, tre figli, messa ogni domenica, ma lui durante l’interrogatorio fu irreprensibile, disse di non sapere nulla di questa vicenda e di non aver mai avuto rapporti con la domestica.

C’era un altro elemento in mano al maresciallo Bianchi: il cinque luglio prima dell’incontro a Piazza Santa Maria Maggiore Antonietta aveva scritto una lettera alla famiglia, poi intercettata dai Carabinieri.
Mittente: Antonietta Longo, c/o Pensione Aurora, Roma.
Destinatario: Famiglia Longo, Via Vittorio Emanuele 27, Mascalcia (CT). Il testo, scritto con inchiostro blu su carta da 10 lire: “Cari tutti,
sono a Roma ancora per qualche giorno. Il signor G. mi ha chiesto di sposarlo. È una brava persona, medico, vedovo. Mi porta via. Non preoccupatevi, sto bene, spero di potervi dare a presto la gioia di un nipotino. Vi scrivo appena arrivo a casa sua. Baci, Ninetta.”
Timbro postale: Roma, 5 luglio 1955, ore 10:30.

Ancora una volta Bianchi ricostruì il piano passo dopo passo.
Fedina con la data del 7.7.55
Promessa di matrimonio immediato.
Antonietta consuma i suoi risparmi per il corredo.
Chiede un mese di ferie e dice alla famiglia Gasparri: “Parto il 1° luglio”.
Ha già il biglietto, le valigie, il corredo e la lettera di lui che la donna aveva ritirato al Fermo Posta di Piazza San Silvestro il 30 giugno. Quella lettera non fu mai trovata, ma Bianchi la ricostruì: “Vieni sola. Non dire niente. Ti prendo io. Porta il corredo. Ci sposiamo in campagna. G.” Praticamente un piano perfetto: Isolare la vittima anche economicamente, farle bruciare i ponti (lavoro, famiglia, soldi), tenerla sotto controllo per 5 giorni e poi portarla al lago con la scusa del matrimonio.

Però il 1° luglio “G.” non si presenta.
Antonietta affitta una camera alla Pensione Aurora, del resto non può tornare indietro: ha detto a tutti che si sposa.
In quella pensione. Aspetta. Intanto ogni sera esce alle 19:30, va in piazza, guarda le macchine, poi torna in camera.
Finalmente il 5 luglio lui si presenta (è la stessa data del giornale trovato sul corpo di Antonietta). Lei a quel punto scrive a casa: “Mi sposo domenica 10!”
E qui entra in ballo la testimonianza dell’edicolante che l’aveva vista alle 19:45 salire sulla Lancia Aurelia grigia. Direzione lago di Albano! Ore 23:47 l’orologio si ferma. Presumibilmente l’ora del delitto.

Antonietta era incinta? Si chiese il maresciallo. Molto probabilmente sì. Certo che l’asportazione delle ovaie faceva pensare ad un assassino che voleva a tutti i costi eliminare il movente. Quindi l’assassino la conosceva bene e l’aveva illusa fino al punto di non ritorno. Forse sposato, e quando è venuto a conoscenza dello stato interessante della ragazza ha agito senza scrupoli. L’uomo non poteva permettere che nascesse quel figlio illegittimo. Occorreva a tutti i costi evitare uno scandalo!

Se fosse stato un conoscente occasionale non avrebbe avuto motivo di decapitarla. Il medico legale non ebbe dubbi: “Taglio netto, bisturi, mano esperta. Non è furia. È chirurgia. L’assassino ha aperto l’addome, prelevato le ovaie. Tempo: 7-8 minuti. Scopo: cancellare la gravidanza.

Il Maresciallo Bianchi rilesse la lettera per l’ennesima volta. “Spero di darvi la gioia di un nipotino.” Poi guardò la foto del corredo da sposa. Il vestitino bianco. Le scarpine. La fedina. Non era un delitto passionale. Era un delitto di classe. Un uomo che non poteva permettere che una domestica siciliana diventasse la madre di suo figlio.
Quindi un conoscente e Antonietta incinta non era più la sua amante, ma la sua rovina! Il cerchio si chiudeva, ma senza il nome dell’assassino.

Il fascicolo si chiuse nel 1957 con la dicitura: “Ignoto. Indagini sospese per mancanza di prove.” La testa di Antonietta non emerse mai dal lago. Di lei su quella riva del lago è rimasta una ragazza di 30 anni, con lo smalto rosso, un orologio fermo alle 23:47. Un vestitino blu comprato per un viaggio di nozze che non ci sarebbe mai stato. Lei credeva che il matrimonio fosse libertà. Credeva che un uomo “distinto” fosse il suo riscatto. Ma la libertà, nel 1955, per una domestica siciliana, non passava per un anello.

Oggi, sulla riva del lago di Castelgandolfo, c’è una piccola lapide, quasi nascosta tra i canneti. Qui fu trovata Antonietta Longo. 10 luglio 1955. Perduta per sempre. Nessun nome dell’assassino. Nessun processo. Nessuna giustizia. Solo una ragazza che voleva essere libera e finì senza testa. Perché nel 1955, in Italia, una donna poteva essere uccisa
per aver creduto che l’amore fosse più forte della classe sociale.

A dicembre dello stesso anno si suicidò il proprietario della "Culla del Lago" Nel 1971, a casa del dottor Gasparri arrivò una lettera anonima che diceva che Antonietta era morta durante un aborto e successivamente sarebbe stata trasportata in riva al lago, e quindi decapitata. Nel 1987 un pescatore trovò un teschio umano nel lago. Si pensò che dopo 32 anni di distanza, potesse essere finalmente quello di Antonietta Longo, ma così non fu: il teschio sembrava appartenere a un uomo.

Antonietta riposa nel cimitero di Mascalcia, suo paese di origine.
Noi l’abbiamo ricordata, cercando di ripercorrere fedelmente la vicenda, romanzandola perché sia letta, perché non sia dimenticata, aspettando ancora che giustizia venga fatta.


 



IMMAGINE GENERATA DA IA
A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
IL RACCONTO E' LIBERAMENTE TRATTO
DALLA STORIA DI ANTONIETTA LONGO
FONTI:
http://criminiemisteri.blog.dada.net
www.museocriminologico.it
www.misteriditalia.com
www.lastoriasiamonoi.rai.it
http://it.wikipedia.org/wiki







 
Tutte le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi autori. Qualora l'autore ritenesse improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione verrà ritirata immediatamente. (All images and materials are copyright protected  and are the property of their respective authors.and are the property of their respective authors. If the author deems improper use, they will be deleted from our site upon notification.) Scrivi a liberaeva@libero.it

 COOKIE POLICY



TORNA SU (TOP)


LiberaEva Magazine Tutti i diritti Riservati
  Contatti