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GIALLO PASSIONE
Alma Rattenbury
L'amante bambino
Bournemouth Gran Bretagna 1935. Viene processata
Alma Rattenbury, con l'amante George Percy Stoner, per
l'assassinio del marito, molto più vecchio di lei

Alma Rattenbury è un’elegante e ricca signora
canadese, ma soprattutto romantica, trapiantata in
Inghilterra durante i favolosi anni ruggenti quando
inseguiva il sogno dell’amore giovane e puro…
Non
era stato un momento bellissimo per lei, usciva da un
matrimonio infelice, ma col nuovo marito Francis la vita
le aveva sorriso e le cose sembravano andare a gonfie
vele…. Lui un noto architetto, affascinante, ricco. Era
il 1924, e Alma Radcliff – ventinove anni appena
compiuti, capelli castani tagliati alla garçonne, un
filo di perle al collo e un sorriso che non chiedeva
permesso – scese dal treno alla stazione di Victoria con
una valigia di pelle e un cuore ancora ammaccato dal
divorzio.
Londra le apparve come un’orchestra in
pieno swing: luci al neon, jazz che filtrava dai club di
Soho, il profumo di sigarette turche e pioggia
d’autunno. Veniva dal Canada, da una vita di concerti
dati in sale da tè e di un matrimonio con un uomo che
l’aveva trattata come un trofeo da lucidare e poi
riporre. Ora voleva solo respirare.
Una sera di
ottobre, invitata a un ricevimento privato nella villa
georgiana di un’amica comune a Kensington, Alma si
ritrovò in un salone illuminato da lampadari di
cristallo. Indossava un abito di seta color champagne
che le scivolava sulle spalle come acqua. Gli uomini la
guardavano, ma lei sorseggiava gin fizz e pensava a
quanto fosse stanca di essere guardata.
Francis
Rattenbury entrò tardi, con il cappotto ancora umido di
nebbia. Aveva cinquantasei anni, capelli grigi pettinati
all’indietro, un portamento da ufficiale di marina. Era
l’architetto del momento: il Grand Hotel di Vancouver,
il Parliament Building, il Crystal Garden – nomi che
Alma aveva sentito pronunciare con reverenza anche
oltreoceano. Ma quella sera Francis non parlava di
colonne ioniche o di cupole in vetro. Parlava di treni.
“Sa, signora Radcliff.” Le disse porgendole un altro
bicchiere. “Il segreto di un buon viaggio non è la
destinazione, ma la qualità del vagone letto.” Alma
rise, una risata vera, di quelle che le facevano tremare
le ciglia. “E lei, signor Rattenbury, in che vagone
viaggia di solito?” “In prima classe, ma con la
finestra aperta. Mi piace sentire l’odore del carbone.”
Parlarono per ore. Lui le raccontò di come aveva
progettato un intero padiglione per l’Esposizione di
Vancouver usando solo legno di cedro rosso; lei gli
confessò di aver suonato Chopin in un saloon di
frontiera con un pianoforte scordato. Francis non la
interruppe mai. Ascoltava come se ogni parola di Alma
fosse un mattone da posare con cura. Quando la orchestra
attaccò un lento, lui le offrì la mano. “Mi concede
questo ballo, o preferisce continuare a discutere di
carbone?” Alma posò il bicchiere. “Dipende. Lei sa
ballare senza pestarmi i piedi?” “Ho progettato ponti
sospesi. Credo di poter gestire due piedi in satin.”
Risero e sulla pista, Francis la guidò con una sicurezza
quieta. Non stringeva troppo, non lasciava andare. Alma
sentì il calore della sua mano attraverso il guanto di
pizzo e, per la prima volta dopo anni, non ebbe paura di
essere guidata. Lui odorava di tabacco inglese e di
pioggia.
Alla fine del brano, si fermarono
vicino alla portafinestra che dava sul giardino. La
nebbia londinese aveva trasformato i lampioni in
lanterne sospese. “Sa, Alma.” Disse Francis a voce
bassa. “Ho costruito palazzi per imperatori e teatri per
primedonne. Ma non ho mai progettato una casa per una
donna che ridesse come ride lei.” Lei lo guardò negli
occhi e capì che non stava flirtando. Stava
semplicemente dicendo la verità. Tre mesi dopo, in una
cappella di Chelsea, si sposarono con soli dodici
invitati e un mazzo di rose bianche. Alma indossava un
tailleur color avorio; Francis, un tight grigio e nero
elegantissimo.
Alma toccò il cielo con un dito!
Tanto che si chiese come mai il destino fosse stato così
benevolo con lei! Lui la rispettava, l’amava, era molto
più anziano di lei e lei si sentiva protetta. Cosa mai
avrebbe potuto avere di più dalla vita?
Ma poi le
cose cambiarono… La nebbia di Bournemouth si insinuò tra
le ville come un’amante respinta, avvolgendo Villa
Madeira in un sudario di umidità salmastra. Era il 24
marzo 1935, e l’orologio a pendolo nel salotto
ticchettava con la lentezza di un cuore morente. Alma,
avvolta in una vestaglia di seta color sangue rappreso,
fissava il fuoco morente nel camino. Le fiamme lambivano
i ciocchi con avidità, ma non scaldavano più nulla: né
la stanza, né il suo animo.
Francis giaceva di
sopra, il respiro pesante come il peso dei suoi anni.
Sessantacinque primavere, e l’ultima gli aveva portato
solo il buio. La depressione lo aveva trasformato in un
estraneo: occhi spenti, mani tremanti, parole che
graffiavano come vetri rotti. Dopo quella grave
depressione era diventato insopportabile e assillante.
“Alma… Alma, dove sei?” Chiamava di notte, la voce un
lamento che si perdeva nei corridoi vuoti. Lei non
rispondeva più.
I letti separati erano stati il
primo taglio. Poi le stanze. Poi il silenzio. I loro
corpi, un tempo intrecciati con la passione di chi ha
scoperto troppo tardi il desiderio, ora erano isole
separate da un mare di rimpianti. L’ultima volta che si
erano toccati, lui aveva pianto. Lei aveva finto di
dormire. Francis non guidava più e c’era la necessità
di un’autista per i loro spostamenti. In seguito ad
un'inserzione sul giornale la scelta cadde su George
Percy Stoner, aveva diciannove anni e a lei parve subito
un giovane giudizioso con la testa sulle spalle. Lui
portava i capelli biondi come il grano maturo, occhi che
bruciavano di una fame che Alma riconosceva troppo bene.
Era entrato in casa loro come un soffio di vento caldo
in inverno, e lei… lei si era lasciata travolgere.
Alma ricordava bene la prima volta nella rimessa,
tra l’odore di benzina e cuoio, quando lui l’aveva
baciata con la disperazione di chi sa di non meritare.
Lei aveva risposto con la ferocia di chi ha troppo da
perdere. “Signora Rattenbury…” Aveva sussurrato lui, il
respiro spezzato. “Chiamami Alma…” Aveva risposto lei,
le dita affondate nei suoi capelli. “Solo Alma.” Da
quel giorno iniziarono una relazione bollente che per un
certo periodo lei riuscì a tenere con discrezione senza
nulla togliere al marito. George era dolce e protettivo,
ma anche ben consapevole dei rischi che correvano. Suo
marito invece sospettava di lei anche se tra loro non ci
fu mai un chiarimento. Di fatto però non la
ostacolava tanto che lei si prese la libertà di
trascorrere alcuni giorni con George al Royal Palace
Hotel, da Harrod’s e nei migliori ristoranti. In quei
cinque giorni la nebbia di Bournemouth era un ricordo
lontano, soffocata dal frastuono di Londra. Era aprile e
Alma aveva prenotato una suite al Royal Palace Hotel,
sotto falso nome: Mrs. Victoria Radcliffe e suo
“nipote”.
Un gioco pericoloso, ma l’adrenalina
era più dolce dello champagne che scorreva a fiumi. Lo
rivestì da capo a sue spese trasformandolo in un uomo
del suo stesso rango. “Da oggi sei un altro uomo.”
Harrods fu il primo altare. Lei lo trascinò tra i
reparti come una regina con il suo favorito: camicie di
seta, cravatte di cachemire, un completo grigio perla
che gli modellava il corpo. “Provalo!” Ordinò lei,
spingendolo nel camerino. Quando uscì, George era
irriconoscibile: l’autista di umili origini era svanito,
sostituito da un giovane dio urbano. Alma gli sfiorò la
guancia. “Perfetto.” I ristoranti erano teatri. Al
Savoy, ordinarono aragosta e Château d’Yquem; George
impugnava la forchetta come un’arma, ma lei gli
insegnava, paziente, sensuale. Di notte, la suite
era un bozzolo di seta e peccati. Le tende pesanti
tenevano fuori Londra; dentro, solo loro. George la
spogliava con reverenza, come se temesse di romperla.
“Alma…” Mormorava, il nome come un mantra. Lei lo
guidava, esperta, vogliosa. “Qui.” Gli diceva,
portandogli la mano tra le sue cosce ammantate da calze
di seta nera. “Più forte. Spingi ora, fammi tua!” E il
letto cigolava sotto i loro corpi, un ritmo primordiale
che cancellava gli anni, i rischi, il marito a casa. Ma
c’erano crepe.
La terza notte, George si svegliò
di soprassalto. “E se ci scoprono?” Chiese, ma Alma lo
attirò a sé, le unghie laccate di rosso nella sua
schiena. “Non succederà… Scopami, prendimi ora!” Ma lui
tremava. “Francis… lo sa?” Lei esitò. “No.” Mentì. “È
depresso. Non si accorge di niente.” George la
fissò. Nei suoi occhi, per la prima volta, paura vera.
“E se un giorno si accorgesse?” Alma gli baciò la
fronte, come una madre protettiva. “Allora saremo già
lontani.” Ma non era vero.
La quinta mattina,
mentre facevano colazione in camera, il telefono
squillò. Alma alzò la cornetta. Silenzio. Poi la voce di
Francis, rauca, lontana: “Alma. Torna a casa.” Lei
riattaccò senza rispondere. George la guardava, il
cucchiaino sospeso a mezz’aria. “Era lui?” Lei annuì,
lentamente. “Cosa gli dirai?” Alma si alzò, si avvicinò
alla finestra. Londra brulicava sotto di loro, ignara.
“Niente. Non dirò nulla. Non voglio perderti.” Ma il
sogno era già incrinato. Cinque giorni di lusso, di
passione, di illusioni. Cinque giorni che sarebbero
costati tutto. Perché Francis sapeva. Non i dettagli,
ovvio. Ma il tradimento gli puzzava addosso come il
profumo di Alma sui vestiti di George. E la gelosia,
quella bestia dormiente, si era svegliata.
Il
ritorno a Bournemouth fu un viaggio verso il patibolo.
George sedeva rigido sul treno, il completo nuovo già
stropicciato. Alma fissava il paesaggio, le mani strette
in grembo. “Torneremo…” Promise lei. Lui non rispose.
Villa Madeira li aspettava, accovacciata nella nebbia
come un animale ferito. Quando Alma entrò, Francis era
in salotto, seduto nella sua poltrona preferita, un
bicchiere vuoto in mano. Lui alzò lo sguardo. “Dove sei
stata? Con chi?” Disse. Lei sostenne il suo sguardo, ma
poi salì di sopra senza una parola. Quella notte, Alma
dormì sola. George non venne nella rimessa. Francis non
la cercò.
Lei, nonostante i sospetti del marito,
era sicura di poter gestire la situazione e continuare a
vivere la sua storia clandestinamente, ma George, dopo
quei cinque giorni da favola, non riuscì a rientrare nei
ranghi. La chiamava in ogni momento esponendola al
rischio di essere scoperta dal marito. Aveva crisi di
gelosia, e non sopportava più di essere solo un
servitore e di dover mangiare con i domestici. Alma
cercava continuamente di calmarlo e di rassicurarlo. Lui
desiderava un futuro con lei e Alma non mancava di
nutrire quel suo sogno.
Una sera Alma sentì un
rumore di passi rapidi, troppo rapidi per essere quelli
di Irene. La porta si spalancò di colpo e George
irruppe, ancora in divisa da autista, il berretto
stretto in mano. “Alma.” Disse con la voce che tremava.
“George, ti prego, non qui…” Sussurrò lei, alzandosi di
scatto. “Francis è di sopra, potrebbe scendere da un
momento all’altro.” Lui non l’ascoltò. Attraversò la
stanza in tre falcate e le afferrò i polsi. Le dita
erano fredde, ma stringevano con la forza di chi non
vuole sentir ragioni. “Non posso più aspettare, a Londra
mi hai promesso che… non sarei stato più il tuo autista.
Che avremmo vissuto insieme, come marito e moglie…”
Alma cercò di liberarsi, ma lui la tenne ferma, il
respiro corto sul suo viso. “Abbassa la voce, ti prego…”
Implorò. “No.” Disse lui. “Sono stanco di mangiare in
cucina con Irene e il giardiniere quando tu sei qui a
sorseggiare vino, a ridere con tuo marito. Non ne posso
più!” Intanto stringeva quei polsi. “Mi fai male.” Disse
lei. George allora allentò la presa, ma non la lasciò.
“Non voglio farti male. Voglio solo che tu scelga.
Subito. Ora!” A quel punto si inginocchiò davanti a lei,
come un suddito davanti alla sua regina, ma con gli
occhi di un bambino che stava per piangere. “Dimmi che
lo lasci. Dimmi che vivremo insieme. Ti amerò ogni notte
e non solo nei ritagli di tempo come ora quando lui
dorme.”
Alma sentì il cuore stringersi. Gli
accarezzò i capelli, un gesto materno e crudele allo
stesso tempo. “George… tesoro mio. Non è così semplice.
Francis è malato. Se lo lascio ora, la gente parlerà. Ci
inseguiranno. Ci rovineranno.” Lui alzò lo sguardo,
furioso. “E allora? Che parlino! Che ci inseguano! Io
non ho paura. Ho te.” Si alzò di scatto, la prese per le
spalle, la baciò con una violenza che non era mai stata
dolcezza. Le sue labbra sapevano di disperazione. “Non
ce la faccio più, un giorno o l’altro entro in quella
camera e gli dico tutto. Gli mostro le tue lettere. Gli
dico dove mi tocchi quando lui russa. Anzi no, non gli
dirò niente, ma farò una pazzia, te lo giuro!” Alma
impallidì. “Amore calmati, dobbiamo solo aspettare.” Lui
la fissò, il petto che si alzava e abbassava rapido. “Il
tempo è scaduto!” Si rimise in testa il berretto e uscì
dalla stanza senza voltarsi. Alma rimase sola, il
pianoforte muto dietro di lei. Le dita tremanti
sfiorarono i tasti. Suonò una nota sola, bassa, cupa. Un
do minore. Il suono di un’attesa che si stava esaurendo.
E in effetti George, il ragazzo follemente
innamorato, non aspettò. Un giorno ancora più esasperato
da una gelosia furibonda prese un martello da casa dei
suoi nonni e lo nascose. Quel giorno Irene Riggs, la
governante di casa rientrò a “Villa Madeira” e verso
sera, mentre la nebbia premeva contro le finestre, Alma
stringeva tra le mani una sigaretta spenta. Il
pianoforte, quel maledetto pianoforte che Francis aveva
comprato per farla felice, taceva. Ma lei ricordava.
Ricordava le dita di George sulle sue cosce, il modo in
cui lui la guardava come se fosse una dea, non una donna
di trentotto anni con troppi segreti.
In quel
momento sentì un rumore. Passi sulle scale. Francis. Si
fermò sulla soglia, il pigiama che gli pendeva dalle
spalle ossute. “Alma.” Disse, la voce un rantolo. “Non
vieni a dormire?” Lei non si voltò e non rispose. Lui si
avvicinò, barcollando leggermente. L’odore di whisky
stantio la colpì come uno schiaffo. “Ho sentito… ho
sentito dei rumori. Nella rimessa. Ieri notte... e tu
non eri a letto.” Il cuore di Alma si fermò. Poi riprese
a battere, troppo forte, troppo veloce. “Saranno stati i
gatti…” Mentì, la voce calma come il mare prima della
tempesta. Suo marito la fissò. Nei suoi occhi, per la
prima volta da mesi, c’era qualcosa di vivo. Sospetto.
Dolore. Rabbia. “Alma.” Disse piano. “Cosa stai
facendo?” Lei spense la sigaretta nel posacenere,
lentamente e rispose. “Quello che dovevo fare per
sopravvivere, Francis.”
Il silenzio che seguì fu
più pesante della nebbia. Più denso del sangue che
sarebbe stato versato da lì a poco. Perché quella notte,
mentre Bournemouth dormiva sotto il suo manto di nebbia,
Villa Madeira custodiva già il suo segreto. Un segreto
che sarebbe esploso in un crimine passionale, in un
processo che avrebbe sconvolto l’Inghilterra, in una
donna che aveva inseguito l’amore giovane e puro… e
aveva trovato solo la morte. Per ora però, c’era solo il
ticchettio dell’orologio. E il suono di un cuore che si
spezza, piano piano, nel buio.
Suo marito come al
solito non aveva voluto approfondire, il tradimento di
lei ormai non era solo un sospetto, ma qualcosa di vero,
reale, la rimessa dove lei si lasciava andare tutte le
notti. Come al solito Francis terrorizzato dalla verità
aveva fatto marcia indietro salendo quelle scale e
barcollando era entrato nella sua camera da letto. Aveva
visto. Aveva sentito. I gemiti dalla rimessa, anzi le
urla di lei che diceva al suo amante: “Prendimi, sono
tua!” Ma la verità era un coltello troppo affilato;
preferì voltarsi, chiudere la porta, fingere di dormire.
Come sempre.
E fu quella notte! Villa Madeira era
un sepolcro di ombre. Il vento dell’Atlantico sbatteva
contro le finestre e diradava la nebbia, mentre dentro,
il silenzio era più pesante di qualsiasi uragano. Irene
Riggs, la governante, era ancora sveglia. Stava
spegnendo le luci al piano terra quando scorse una
sagoma sulla balaustra. George, immobile, gli occhi
fissi sulla porta della camera di Francis. “Signor
Stoner?” Sussurrò, sorpresa. “Cosa fate qui a
quest’ora?” Lui si voltò lentamente, il viso pallido
come cera. “Controllo le luci.” Irene annuì, incerta, e
tornò in cucina. Ma qualcosa non tornava.
Venti
minuti dopo, un urlo squarciò la notte. Alma, in camicia
da notte, si precipito nella stanza del marito e
inginocchiata accanto a quel corpo vide il sangue che si
spargeva sul tappeto persiano come inchiostro su carta.
La testa di Francis massacrata: tre colpi precisi,
violenti, con un martello da carpentiere. Un occhio
pendeva dall’orbita, la dentiera era schizzata via e
luccicava sul parquet. Alma ci aveva camminato sopra,
scalza, e ora i denti finti le si erano conficcati nella
pianta del piede. Urlava. Singhiozzava. Le mani
insanguinate stringevano il pigiama del marito morto.
“L’ho ucciso io!” Gridò quando arrivò la polizia
avvertita dalla governante. “Io! Io l’ho fatto! Sono io
l’unica colpevole di questa tragedia!” Ma era una bugia.
Una bugia disperata, romantica, folle, innamorata.
Perché quel martello non aveva le sue impronte, ma
quelle di George, l’autista. Perché George era sparito
per un’ora dopo aver “controllato le luci”. Perché Alma,
nel delirio, aveva visto il ragazzo rientrare dalla
rimessa con le mani tremanti e il viso terreo.
Al processo, Old Bailey era un circo. La stampa la
chiamava “la pantera di Bournemouth”, “la vedova
insanguinata”. Alma, in nero, velata, pianse sul banco
dei testimoni. “L’ho fatto per amore.” Disse, cercando
di proteggere ad ogni costo il suo amante. Ma poi, sotto
le domande pressanti dell’avvocato ritirò tutto: “No,
no, ero confusa. È stato George. Solo George.” I suoi
avvocati (i migliori che il denaro potesse comprare) la
dipinsero come una donna intrappolata in un matrimonio
infelice, sedotta da un ragazzo innocente, manipolato da
una passione più grande di lei.
Il pubblico
ministero la inchiodò: “Perché mentire, signora
Rattenbury, se non per coprire il vostro amante?” Ma il
colpo di scena arrivò con George. Il ragazzo poco più
che diciottenne, pallido, con il completo comprato a
Harrods, non disse una parola in sua difesa. “L’ho
ucciso io.” Ammise. “Per gelosia. Per amore.”
Non ci fu dubbio. Non ci fu pietà. Alma fu assolta con
il verdetto: “Not guilty.” Uscì dal tribunale tra flash
e urla. Era una donna libera. Ma non sarebbe stata più
libera. George fu condannato a morte. La forca lo
aspettava a Pentonville.
Tre giorni dopo
l’assoluzione, Alma prese un taxi fino a Christchurch
Meadow, vicino a Bournemouth. Indossava un cappotto
verde, quello che George amava. Aveva in tasca un
coltellino da frutta. Si sedette su una panchina, sotto
un salice piangente. Scrisse una lettera: “A George, mio
amore giovane e puro. Ti ho rovinato la vita. Ti ho
amato troppo, o troppo poco. Perdonami. Alma” Poi si
colpì sei volte al petto. Il sangue inzuppò il cappotto,
il prato, la lettera. Morì lì, sola, con il sole che
tramontava sul mare.
George lesse la notizia in
cella. Non pianse. Non parlò. Il 31 maggio 1935 salì i
gradini del patibolo. L’ultima cosa che disse fu:
“Alma.” La corda scattò. Villa Madeira fu venduta. La
rimessa demolita. Il pianoforte sparì. Ma a Bournemouth,
quando la nebbia cala fitta, c’è chi giura di sentire
ancora: il rumore delle ore di un vecchio orologio
dimenticato nella rimessa e una donna che sussurra, nel
buio: “Solo Alma.”
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IMMAGINE GENERATA DA IA INTERVISTA A CURA DI ADAMO BENCIVENGA


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