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GIALLO PASSIONE

STORIA DI PASSIONE E
DI MORTE
La bella Rosa, la povera Vittoria
Ore 4,30. Il mese è agosto, il giorno 19,
l’anno 1930, la città è Torino. Rosa esce dal portone del civico
51 di Corso Oporto, un verduraio la nota, lei si avvicina
all’edicola già aperta e chiede “La Gazzetta del Popolo”..

Siamo di fronte al civico 51
di Corso Oporto, oggi corso Matteotti, è un viale
alberato, chiuso da entrambi i lati, costeggiato da
palazzi di famiglie benestanti, nobili e ricchi
borghesi, negozianti e funzionari. Un verduraio,
arrivato all’alba, sta montando la sua bancarella di
frutta; sente urla di voci femminili provenire da una
finestra aperta del quinto piano del palazzo di fronte,
una casa signorile. Distratto da quell’urlo
soffocato il verduraio lascia cadere una cassa di
pomodori. Si spargono rossi sul marciapiede, come
macchie di sangue fresco. “Madonna santa.” Mormora,
facendosi il segno della croce… Poi scuote la testa. “Un
litigio fra donne…” Sospira.
Poi, di nuovo
silenzio. Ma quel silenzio dura troppo. Il verduraio
alza gli occhi: la finestra è spalancata, ma non esce
più un fiato. Solo un refolo di vento che fa sbattere le
tende di pizzo. Decide di non immischiarsi. Continua a
sistemare le cassette di pesche, le albicocche ancora
umide di rugiada. Ma l’aria è densa, come se la nebbia
del Po si fosse arrampicata fin lassù, impregnata di
qualcosa di acre.
A pochi metri dalla bancarella
del verduraio, l’edicola lungo il marciapiede è già
aperta. Il giornalaio, un uomo magro con baffetti
sottili e un grembiule verde macchiato, sta sistemando i
fasci di giornali freschi di stampa leggendo i titoli
cubitali: “Mussolini inaugura la nuova linea
ferroviaria”, “Caldo record in Piemonte”.
L’aria
è già calda, appiccicosa come melassa e la prima luce
del mattino illumina le foglie dei platani lungo il
corso. È in quel momento che il giornalaio nota una
figura di donna che esce dal portone del civico 51.
Alta, slanciata, con un passo che tradisce fretta e
nervosismo. Nonostante sia una mattinata calda di piena
estate la donna è avvolta in un impermeabile chiaro con
il bavero rialzato e un cappellino di paglia calato
sugli occhi.
La donna fa due passi, per un
attimo esita, si guarda intorno con fare sospetto. Il
verduraio, ancora chinato sui suoi pomodori alza lo
sguardo e la vede, i loro occhi si incrociano per un
secondo. La donna, forse per confondere lo sguardo
curioso del verduraio, si avvicina all’edicola: “La
Gazzetta del Popolo.” Chiede con un accento con una
piccola sfumatura milanese. Tira fuori una moneta da
cinquanta centesimi con le mani guantate nonostante il
caldo. Il giornalaio per un istante nota il suo viso
pallido, labbra rosse e due occhi scuri bordati di
kajal. La donna ha fretta, prende il giornale senza
ringraziare, lo infila sotto l’impermeabile e si
allontana verso l’incrocio con Via Po. Poi solo rumori
di tacchi sul selciato che si allontanano. Il
giornalaio la segue con lo sguardo fino a che non
svanisce. “Che diavolo ci fa una così a quest’ora?”
Borbotta tra sé, scuotendo la testa. Poi, rivolto al
verduraio: “Secondo te usciva da casa dell’amante? Il
verduraio, ancora inginocchiato tra i pomodori annuisce:
“Prima le urla dal quinto piano. E ora questa. Madonna,
qui gatta ci cova.”
******
Si fa mattina.
Il sole sale lento dietro i tetti di Corso Oporto,
scaldando l’asfalto. Le domestiche escono con le borse
della spesa e il verduraio ha già venduto metà delle
pesche. Il giornalaio, invece, non ha più toccato i suoi
fasci: sta lì, appoggiato al banchetto, a fissare il
portone del civico 51 come se dovesse aprirsi da solo e
sputare fuori la verità. Alle nove in punto, un
ragazzo entra di corsa nel portone. Si chiama Mario. È
giovane, vent’anni al massimo, capelli castani pettinati
all’indietro con la brillantina.
Si ferma
davanti alla guardiola della portinaia Giuseppina, una
donna grassoccia con lo scialle nero, e chiede alla
portinaia se per caso abbia visto la signora Vittoria
Nicolotti. Dice di essere preoccupato, lui è il
lavorante del negozio di abbigliamento per bambini di
proprietà della signora: “Stamane non è venuta ad
aprire, e non è mai successo. Ho provato a telefonare,
ma il negozio è chiuso e qui non risponde nessuno. Per
caso l’ha vista uscire?” La portinaia alza gli occhi
dal suo lavoro a maglia. Ha la faccia tonda, arrossata
dal caldo: “No, questa mattina la signora non l’ho vista
scendere… Strano!” A quel punto decidono di salire fino
al quinto piano. Mentre salgono l’ascensore cigola e il
corridoio è silenzioso, l’aria ferma, impregnata di cera
per pavimenti e di qualcosa di più acre che arriva da
dietro la porta socchiusa dell’appartamento della
signora Vittoria.
Da fuori i due vedono la
lampada da tavolo del salotto accesa, ma nessun rumore.
Solo il ticchettio dell’orologio a pendolo in corridoio:
“Signora? Signora Vittoria?” Chiama la portinaia.
Qualcosa non va e la portinaia non ha il coraggio di
entrare e chiede aiuto a un’inquilina che abita sullo
stesso pianerottolo: “Signora Teresa, venga, presto!”
Dopo pochi secondi arriva l’inquilina, una vedova magra,
in vestaglia di flanella.
“La signora Vittoria
non risponde e la porta è socchiusa.” Si fanno forza ed
entrano tutti e tre nell’appartamento. Il salotto è
intatto: divano di velluto, tavolino con la bottiglia di
vermouth ancora chiusa, un fascio di rose bianche nel
vaso di cristallo, ma i petali sono caduti, sparsi sul
tappeto come neve sporca. Passano oltre. La porta della
camera da letto è spalancata.
La scena del
crimine è una donna riversa nel proprio letto.
Apparentemente addormentata, protetta da una coperta di
lana. Ma non è addormentata, perché è stata strangolata,
uccisa durante la notte, e il suo corpo è ricoperto di
lividi e graffi. Un braccio penzola fuori dal bordo del
letto, le dita aperte, le unghie smaltate di rosso. Il
viso è girato verso la finestra aperta, i capelli neri
sparsi sul cuscino come alghe. Le labbra socchiuse,
pallide.
La portinaia stringe il rosario e prega.
Mario fa un passo avanti. “Signora Vittoria…?” Chiama.
La portinaia gli afferra il braccio. “Non toccarla.” La
signora Teresa si avvicina per prima. Con un gesto
lento, quasi reverente, solleva un lembo della coperta.
Il respiro le si spezza in gola. La vittima è la
proprietaria della casa e della boutique. Appunto,
Vittoria Nicolotti, 32 anni. È nuda sotto la coperta, il
corpo una mappa di violenza. Il collo segnato da un
solco viola-nero, profondo, dove una corda o forse una
sciarpa, ha segnato la carne. il seno e le braccia
coperti di lividi freschi, gialli e viola, alcuni a
forma di dita, graffi lunghi, sanguinanti, sulle spalle
e sui fianchi, come se avesse lottato, un piccolo neo
sopra il seno sinistro, ancora intatto, quasi
irriverente nella sua delicatezza.
Gli occhi sono
aperti, vitrei, fissi al soffitto. Un rivolo di saliva
secca le cola dall’angolo della bocca. Sul comodino, un
bicchiere d’acqua rovesciato, una boccetta di sonnifero
aperta, due pastiglie sparse. E sul pavimento, accanto
al letto, una sciarpa di seta cremisi, annodata, tesa,
con una macchia scura al centro. La signora Teresa si
porta la mano alla bocca. “Strangolata.” Dice mentre
Mario indietreggia, barcolla, si appoggia al muro.
Nessuno parla più. Solo il pendolo, in corridoio,
continua il suo tic-tac, indifferente. La povera
Vittoria non aprirà più la sua boutique.
******
I giornali del pomeriggio titolano a nove colonne:
ORRORE AL CIVICO 51: PROPRIETARIA STRANGOLATA NEL
LETTO.” Scandagliando la vita della povera Vittoria. Una
donna d’affari disinvolta, arrivista e fatale falena.
Una signora rispettabile. Non sposata. Una condotta
irreprensibile e la polizia non trova nulla nel suo
passato a parte un’amica del cuore che frequenta spesso.
Nessuna traccia dell'assassino, grida "La Stampa". Fiumi
d’inchiostro, ma nessuna fotografia. “Per rispetto alla
famiglia.” Scrivono. Ipotesi: rapina, ma Torino mormora
già un’altra verità.
Vittoria Nicolotti, 32 anni
è nubile e vive sola in quella casa. Nata a Chieri nel
1898, orfana di padre, un capostazione morto di tisi e
madre, sarta di provincia, si era trasferita a Torino a
vent’anni con una valigia di cartone e duecento lire in
banconote da dieci. Da lì, la scalata. 1919: commessa
da Gallo & C., reparto cappelli per bambini. 1923:
capo-reparto. 1926: apre, con un prestito della
Cassa di Risparmio, la sua boutique in Via Lagrange 12.
1929: proprietaria unica dell’appartamento al civico
51 di Corso Oporto, quinto piano con vista sui platani.
1930: fatturato annuo di 78.000 lire, tre sarte, un
lavorante, un nome che le madri torinesi pronunciano con
rispetto e un filo d’invidia.
Una donna
disinvolta e decisa che sapeva trattare con i grossisti
di Lione, pagava in contanti, non chiedeva mai sconti.
Sempre elegante portava tailleur tagliati su misura da
un sarto di Via Roma, mai nero perché faceva vedova, mai
rosso perché faceva sgualdrina. Beveva un solo vermouth
bianco, mai due. Fumava Macedonia in bocchino d’avorio,
ma solo dopo le otto di sera, in salotto, con la
finestra socchiusa.
Aveva comprato l’appartamento
dalla vedova di un colonnello, pagandolo in tre rate
anticipate. Possedeva due azioni della FIAT e un
libretto postale da 12.000 lire. Diceva: “Il denaro è
come il pane: se non lo impasti tu, lo mangia un altro.”
Affascinante, intrigante, gli uomini la guardavano, lei
no. Un ufficiale dei bersaglieri le aveva mandato mazzi
di rose a dozzine per un mese. Un industriale della seta
le aveva offerto una vacanza a Venezia con tre notti al
Danieli. Ma nessuno poteva dire di averla avuta. Era
semplicemente una signora rispettabile, senza
chiacchiere. Messa domenicale alle 10:30, banco di
destra, cappellino velato.
Una sola amica del
cuore: Rosa Vercesi, 29 anni, nubile, ex-modista, bella,
capelli corti e occhiali tondi. Si vedevano il giovedì
pomeriggio, prendevano il tè al Caffè San Carlo,
parlavano di libri francesi e di stoffe per l’inverno.
Rosa era l’unica a entrare in quell’appartamento.
L’ultima volta, la stessa sera ore 18:47. Impermeabile
di lino beige, nonostante i 29 gradi. Cappellino di
paglia calcato sugli occhi. Una borsa di pelle lucida,
troppo grande per una visita di cortesia. “Vado da
Vittoria, due minuti, devo restituirle un campionario.”
Dice. Così come riferito dalla portinaia Giuseppina.
******
Durante quella mattina la polizia
perquisisce l’appartamento per sei ore. Trovano
un’agenda con appuntamenti di lavoro; 1.240 lire in
contanti nel cassetto del comodino, una lettera
iniziata: “Cara Rosa, domani ti mostro il nuovo
campionario…” e mai finita. Nessun diario, nessuna
fotografia d’amore, nessuna traccia di un uomo. Nessuna
traccia dell’assassino. La finestra spalancata. La
sciarpa di seta cremisi, comprata alla Rinascente.
Capelli e sangue solo della vittima.
Nella stessa
mattinata i poliziotti interrogano le sarte e Mario,
ancora sconvolto. Poi la sua amica Rosa Vercesi:
“Vittoria non aveva nemici. Aveva solo fretta di
vivere.” Dice al poliziotto di turno. La Stampa chiude
così: “Una donna senza passato, senza presente, senza
futuro. Una farfalla inchiodata al letto da una mano che
non lascia impronte.” Vittoria Nicolotti non aveva
segreti. O forse ne aveva troppi, e tutti custoditi in
un sorriso che ora è spento per sempre. La polizia
cerca un uomo, ma in Corso Oporto, il verduraio giura di
aver visto una donna con un impermeabile chiaro uscire
da quel portone. E il giornalaio ricorda che la stessa
donna ha comprato il giornale con una voce che non era
di Torino.
Qualcosa non va. I giornali mentono!
Perché in realtà le tracce ci sono eccome! Di impronte
l’assassino ne ha lasciate molte, troppe, tanto che,
sempre quel pomeriggio, Rosa, l’amica della vittima,
viene arrestata. Lei è l’ultima persona con cui era
stata vista Vittoria la sera prima. La portano in
questura. Lei, prima di uscire chiede di indossare la
pelliccia di volpe. Dice di avere freddo, ma in realtà
vuole solo nascondere le unghiate della vittima. La
volpe però le servirà a poco, in questura Rosa viene
fatta spogliare e fotografata nuda. È coperta di graffi,
davanti e dietro, e un seno pieno di ferite.
Nella saletta della questura, l’aria è un forno, le
finestre socchiuse lasciano entrare solo il ronzio delle
mosche e l’odore di sudore stantio. Rosa Vercesi siede
su una sedia di legno dura. Di fronte a lei, il
commissario Aldo Ricci, un uomo di mezza età con baffi
grigi e occhi freddi come il Po in inverno. Accanto, un
agente giovane prende appunti su un taccuino ingiallito.
“Signorina Vercesi.” Esordisce Ricci, accendendo una
Nazionale senza filtro. “Lei è l’ultima persona ad aver
visto viva la signora Vittoria Nicolotti. Ieri sera, ore
18:47, entra nel palazzo. La portinaia Giuseppina l’ha
vista. Poi, stamattina, una donna con impermeabile
chiaro esce di fretta dal civico 51. Il verduraio e il
giornalaio l’hanno descritta: alta, slanciata,
cappellino calcato sugli occhi. Guanti nonostante il
caldo. Coincide con lei, no? E quei graffi... Dio santo,
sembra sia passata sotto un gatto selvatico.”
Rosa alza lo sguardo. I suoi occhiali tondi sono
appannati, i capelli corti arruffati. “Commissario, è un
equivoco. Io e Vittoria eravamo amiche. Da sei anni. Ci
conosciamo dal 1924, quando lavoravo come modista da
Gallo & C. Lei era capo-reparto, io cucivo cappelli. Mi
ha aiutata a trovare un posto migliore. Eravamo come
sorelle.” Ricci aspira il fumo, lo butta fuori lento.
“Sorelle che si graffiano a sangue?” “Caduta dalle
scale…” Dice lei di getto, la voce tremante.
“Stamattina, scendendo di corsa. Ero sconvolta per
Vittoria.” Ricci spegne la sigaretta sul tavolo. “Scale?
Con questi segni sul davanti e sul dietro? Sembra una
lotta, signorina. Le sue impronte sono ovunque: sul
comodino, sul bicchiere rovesciato, persino sul vaso di
rose bianche. Petali sparsi come dopo una
colluttazione.” Rosa impallidisce. “Non è possibile.
Io... io sono andata via alle sette e mezza. Abbiamo
preso il tè, parlato di campionari. Lei era stanca, ha
detto di avere mal di testa. Le ho dato una pastiglia
dal suo sonnifero. Tutto qui.” Durante la notte però
cambia versione. Inventa scuse improbabili. Incolpa il
suo amante un certo Arturo: “Ieri abbiamo fatto l’amore
e lui è andato giù duro.” Ma la polizia ha già
rintracciato Arturo Bianchi, rappresentante di stoffe da
Biella: “Signora, Arturo l’abbiamo trovato al Caffè
Roma, stava bevendo una grappa. Ha detto che siete
insieme due sere fa, anche il portiere dell’albergo di
Via Po lo conferma. Quindi non ieri sera! E poi i suoi
graffi sono troppo freschi!” Rosa si morde il labbro.
“Arturo mente. È stato lui! Siamo stati insieme anche
ieri pomeriggio. Poi abbiamo litigato. Mi ha graffiata.
È geloso.”
Ricci scuote la testa: “Signora, il
suo amante non ha graffi, invece sul corpo di Vittoria
ci sono impronte di unghie rosse smaltate, come le sue.
Abbiamo confrontato. Coincidono. E la borsa grande? La
portinaia dice che era ‘troppo per un campionario’.
Dentro, abbiamo trovato: un paio di guanti macchiati di
sangue, un flacone di sonnifero mezzo vuoto e una
lettera scritta di suo pugno: “Vittoria, non puoi farmi
questo.”
Silenzio. Rosa crolla sulla sedia, il
viso tra le mani. “Va bene... va bene. È stato un
incidente. No, non un incidente, una rapina.” La verità
emerge a brandelli, come stoffa strappata. Rosa e
Vittoria si conoscono da sei anni, dal 1924. Non sono
solo amiche, ma la verità non può uscire fuori! Un
segreto custodito nei giovedì al Caffè San Carlo, nelle
serate con la finestra socchiusa, nelle rose bianche che
Rosa comprava per lei. “Commissario eravamo solo
amiche!” Sussurra Rosa, la voce rotta. “Lei mi ha dato
lavoro, soldi, un tetto quando ne avevo bisogno.”
“E allora perché la uccisa?” Dice Ricci timoroso di
scoprire la vera verità! “Ieri sera, sono andata per
restituire il campionario, ma era una scusa, avevo
bisogno di soldi. Non era la prima volta, lei però si è
rifiutata e allora ho tentato di rubarle i gioielli. Lei
mi ha vista, abbiamo litigato. Mi ha spinto. Io l’ho
graffiata. Abbiamo lottato sul letto. Lei era forte, mi
ha preso per i capelli. Ho visto la sciarpa sul
comodino. L’ho avvolta al collo... solo per farla stare
zitta. Per un momento. Ma non si è fermata. Ho stretto.
Stretta di più. Quando ho capito, era tardi.” Ricci
annuisce piano. “E poi ha iniziato a spargere indizi
falsi e a cancellare le prove… La finestra aperta per
far uscire l’odore. Il sonnifero per far sembrare
un’overdose. I guanti per cancellare impronte, ma ne ha
lasciate troppe…” Rosa annuisce, lacrime che scendono
sugli occhiali. “L’ho coperta. Le ho chiuso gli occhi.
Poi sono scappata all’alba, con l’impermeabile per
nascondermi. Ma il verduraio... mi ha vista e allora ho
comprato un giornale. Non so per quale motivo… ero nel
panico! Pensavo di prendere il treno per Milano”
I giornali del mattino escono con titoloni che sembrano
scritti da un copista frettoloso. La Stampa: «OMICIDIO
AL CIVICO 51: L’EX-MODISTA UCCIDE PER RUBARE GIOIELLI».
La Gazzetta Del Popolo: «RAPINA FINITA IN TRAGEDIA: ROSA
VERCESI COLTA DAL RIMORSO, CONFESSA». Nessuna foto
di Rosa in manette. I redattori liquidano tutto in mezza
colonna: Colluttazione; strangolamento con la sciarpa;
tentativo di furto fallito perché la vittima indossava
ancora gli orecchini di perle e l’anello con brillante
da tre carati. Fine.
Ma in Corso Oporto il
verduraio scuote la testa mentre sistema le cassette.
“Rapina? Quella donna è rimasta là dentro per diverse
ore… che razza di ladra fa così?” Il giornalaio, che ha
venduto duecento copie in più grazie al delitto,
annuisce: “Io l’ho vista uscire alle 4:30. Pallida come
un lenzuolo, ma calma. Se era una rapinatrice, perché
non è scappata subito?”
Questura, interno giorno.
Il commissario Ricci chiude il fascicolo con il verbale
di Rosa firmato. Ma qualcosa non torna. Il vice
ispettore, un napoletano trasferito da poco, batte il
dito sul foglio. “Commissa’, la Vercesi entra alle
18:47, esce alle 4:30. Nove ore e mezza. Che fa per
tutto quel tempo? Preghiere? O pulizie?” Ricci si
accende un’altra Nazionale. “Ordini dall’alto. Il
questore vuole il caso venga chiuso in fretta. “Rapina
degenerata”. Punto. La città ha bisogno di dormire sonni
tranquilli. E poi, le impronte sono sue, la sciarpa è
sua, i graffi sono suoi. Il resto… dettagli.”
L’ispettore insiste: «E la relazione? La portiera dice
che Rosa dormiva lì ogni giovedì. Il letto era rifatto a
metà, lenzuola macchiate di kajal e rossetto.” Ricci
spegne la sigaretta: “Basta! La Vercesi ha firmato. Dice
di aver ucciso per i soldi. I gioielli erano lì, sì, ma
pensava di prenderli dopo. Così è andata, ok?”
******
Carcere delle Nuove, cella 27. Rosa è
seduta sul bordo della branda, le mani in grembo. Non
piange più. La poliziotta le porta il pranzo: minestra
fredda, pane raffermo. Lei la guarda appena. “Perché
non hai detto la verità?” Le chiede piano, una donna con
la voce roca da troppe sigarette. Rosa alza gli
occhi. “Perché la verità non salva nessuno. Vittoria
è morta due volte: una quando l’ho stretta, l’altra
quando i giornali l’hanno fatta passare per una stupida
borghese derubata. Io… io volevo solo che restasse mia.
Anche solo per un’ora, dopo. Ho rifatto il letto. Le ho
chiuso gli occhi. Le ho messo la collana di perle al
collo, quella che le avevo regalato io a Natale. Poi ho
aspettato l’alba. Non per rubare. Per dirle addio.”
La guardia scuote la testa. “Ma i gioielli?” Rosa
sorride, un sorriso piccolo, spezzato. “I gioielli… li
ho lasciati lì perché senza di lei non valevano niente.”
******
Torino, città di nebbia e di
segreti, volta pagina, ma nei giovedì pomeriggio, al
Caffè San Carlo, il tavolo d’angolo resta vuoto. Due
tazze di tè, mai servite. Il processo dura tre
giorni. Tre giorni di caldo umido, di ventilatori che
girano lenti, di giudici in toga nera che sudano sotto i
colletti inamidati. Rosa Vercesi, imputata, siede al
banco e si comporta da attrice impeccabile e consumata.
Si presenta in aula in abito nero, scarpette di raso
nero, lunghi guanti alla moschettiera e un cappello nero
di raso a tesa larga. Davanti ai giudici parla, parla
molto, si rende disponibile, ma non cita mai Vittoria e
soprattutto non fa mai cenno a una possibile relazione
amorosa con la vittima. Non confessa il delitto, ma non
cerca attenuanti ed accetta come un destino la condanna
che chiaramente, visto il futile movente di furto di
gioielli, non può non essere che l’ergastolo.
Il
pubblico ministero, un uomo con la voce da tenore,
tuona: “Una donna avida, una modista fallita, ha
strangolato la sua benefattrice per rubarle il futuro!”
La difesa, un avvocato d’ufficio stanco, balbetta
qualcosa su “delirio momentaneo”. Non dice una parola
sulla verità, quella verità che nessuno vuole sentire.
Finisce come deve finire. Niente scandali. Niente vizi.
Solo rapina. E la condanna è FINE PENA MAI. Senza
attenuanti. Senza appello. Rosa esce dall’aula con le
manette. Non si guarda indietro. Qualche giornalista le
grida: “Perché non hai detto la verità?” Lei si ferma:
“Perché la verità vi avrebbe uccisi tutti!”
Ovvio
che il movente è altro. Ma è un altro che al tempo non
si può dire! La rapina non è la verità. Non ci sono
uomini in questo delitto e nonostante il tentativo del
governo fascista di far scomparire dai giornali la
notizia e nonostante le telefonate dello stesso federale
al questore ("smorzate quanto più potete! Si sta
parlando troppo di questo sporco affare"), la notizia
corre di bocca in bocca e fa scalpore. Fa scalpore che
una donna possa aver ucciso in maniera così spietata per
abietti motivi di interessi. E infatti lo scenario ed il
contesto sono ben diversi, ma nessuno ha voglia di
indagare. Tutti si fermano al delitto e al furto di
gioielli che per altro non è mai avvenuto.
Se
Rosa l’assassina avesse confessato la verità, forse non
sarebbe stata condannata all'ergastolo, questo è certo
perché un delitto passionale prevede degli sconti di
pena, ma la società del tempo non era pronta a
sopportare l’unica verità, per cui anche lei, in
sintonia col perbenismo del tempo e la complicità dei
giudici, non confessa la natura del legame con Vittoria.
Ossia che aveva una relazione lesbica che durava da
anni, quella notte avevano fatto uso di cocaina che la
vittima portava in Italia dai suoi viaggi a Parigi e il
delitto era maturato nella passione torbida di un
crimine erotico. Perché Vittoria è lesbica e Rosa
l’asseconda nelle sue inclinazioni saffiche. Quindi
omosessualità, quindi droga, quindi dissolutezza di
certi ambienti. Troppo per la società degli anni trenta
e per giunta fascista! Per cui in poco tempo la notizia
scompare dai giornali e il caso viene rapidamente chiuso
senza nessuna richiesta di appello da parte della
difesa.
L’infamia di lesbica è molto più
disonorevole di quella di assassina… E così Rosa Vercesi
preferisce velarsi dietro un movente banale e pagare con
l’ergastolo, piuttosto di ammettere l’infamia di un
letto saffico. O forse semplicemente rimuove la verità.
Quante volte è accaduto? L’assassino che si rintana nel
suo nulla. L’omicidio che desertifica l’anima. Come se
la totale assurdità del gesto cancellasse il gesto
stesso, raccontando a se stessa e a tutti un’altra
verità.
Siamo nel 1931, Rosa sconta la pena nel
carcere di Trani e dovranno passare ancora 15 anni prima
che in una cartolina postale inviata ad uno dei suoi
avvocati difensori svela la vera natura della relazione,
l’omicidio compiuto nell’accecamento della passione
ammettendo la propria colpevolezza. “Non ho saputo
vincere la ripugnanza, la vergogna, l’orrore che provavo
nel dovermi dichiarare autrice di un delitto che non
avevo né premeditato né concepito. Per questo motivo
negai.”
L’Italia stava cambiando e per questa
confessione e per essere stata una detenuta modello,
Rosa riceverà la grazia nel 1959. Rosa morirà il 19
gennaio 1981.
|
IMMAGINE GENERATA DA IA RACCONTO
ROMANZATO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA FONTI:
http://www.wuz.it/archivio/
cafeletterario.it/176/8806156330.htm
http://www.italialibri.net/opere/ rosavercesi.html
http://www.culturagay.it/cg/ recensione.php?id=10949 Guido
Ceronetti: "La vera storia di Rosa Vercesi e della sua amica
Vittoria." Edizioni Einaudi (I coralli n.138) ISBN
88-06-15633-0 https://grisou70.wordpress.com/2012/06/15/
rosa-vercesi-una-storia-di-amore-e-morte/


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