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REPORTAGE DA KYOTO
 

LA DONNA FEMMINA
Un tè con la geisha
Il tatami sotto i miei piedi scricchiola appena, mentre varco la soglia della Okiya, la casa di Aiko, nel cuore di Gion. Sembra incredibile che ancora oggi questo mondo resista alla modernità. La maggior parte di loro vive a Kyoto dove si trova una scuola per Geishe che insegna la cultura secolare fatta di riti, danze ed estetica senza eguali.

 



 
L’aria è densa di un profumo sottile, un misto di incenso al sandalo e lacca per capelli. La luce soffusa delle lanterne di carta filtra attraverso gli shoji, le pareti divisorie di legno e carta di riso, creando un gioco di ombre che sembra danzare al ritmo di un’antica melodia.
L’ambiente è un museo vivente: un tokonoma con un rotolo calligrafico e un vaso di crisantemi bianchi domina la stanza, mentre un piccolo altare shinto riflette la spiritualità discreta del luogo.
Ogni dettaglio, dal legno lucido delle travi al suono lontano di uno shamisen, sembra orchestrato per trasportarmi in un altro tempo.

Aiko mi accoglie con estrema gentilezza, ha circa trent’anni, mi dice che il suo nome d’arte significa “figlia dell’amore”. La sua presenza è magnetica, non per un’esplosione di bellezza, ma per una grazia che sembra scolpita nel tempo. Il suo viso, dipinto di bianco con il cerone tradizionale, è una tela perfetta: le labbra rosse come ciliegie mature, gli occhi sottolineati da un tratto di kajal che sembra contenere secoli di segreti. Il kimono, un’opera d’arte di seta azzurra con ricami di gru in volo, si muove con lei come un’onda lenta.
Ogni gesto è calcolato, ogni sorriso un invito a rimanere, a osservare, a perdersi. Quando si inchina leggermente per salutarmi, i suoi occhi si socchiudono appena, un ammiccamento che è insieme cortese e inafferrabile, come se mi stesse studiando tanto quanto io studio lei.

“Benvenuto,” dice con una voce morbida, quasi un sussurro, mentre mi invita a sedermi su un cuscino di seta. Sul tavolo basso davanti a me appare una teiera di ceramica e una ciotola di wagashi, dolcetti tradizionali a forma di fiori di loto, dai colori pastello che sembrano troppo belli per essere mangiati. Mi serve il tè matcha con una precisione rituale: il frullino di bambù danza nella ciotola, creando una schiuma verde smeraldo. “È amaro,” avverte con un sorriso, “ma scalda il cuore.” Accanto al tè, mi offre un piccolo piatto di tsukemono, verdure fermentate, e un assaggio di salmone grigliato, semplice ma raffinato, come tutto in questa casa.

Nella stanza ci sono altri due avventori, uomini d’affari giapponesi in abiti scuri, probabilmente habitué. Uno, un signore sulla sessantina con occhiali spessi, ride piano a una battuta di Aiko, mentre l’altro, più giovane, sembra incantato dal modo in cui lei pizzica le corde dello shamisen. Non c’è traccia di volgarità o ambiguità: Aiko è un’artista, e la sua performance è un equilibrio perfetto tra distacco e seduzione. Conversa con loro in giapponese, passando da aneddoti storici a commenti sull’autunno di Kyoto, e ogni tanto include con una frase in inglese, come per non lasciarmi fuori dal suo incantesimo.

Mi dice che oggi le geishe sono richieste per le cerimonie del tè e per accompagnare facoltosi uomini politici durante lunghe cene. Loro rifiutano il sospetto della prostituzione e da sempre sottolineano come il loro ruolo è solo quello di ballare, ascoltare, intrattenere con musica e conversazione leggera i rappresentanti del potere.

Ayko è disponibile a parlare e allora le chiedo di farmi un po’ di storia e lei volentieri mi racconta che erano già molto comuni tra il XVIII e il XIX secolo. Le prime figure presenti nella storia del Giappone molto simili alle geishe sono le cosiddette saburuko: erano cortigiane specializzate nell'intrattenimento delle classi nobili, che ebbero il loro apice attorno al VII secolo per poi scomparire pochi secoli più tardi, soppiantate dalle juuyo, ossia prostitute di alto bordo, che ebbero più successo tra gli aristocratici.

Per cominciare però a parlare di una figura simile all'odierna "donna d'arte" dobbiamo aspettare fino al 1600, quando alle feste importanti, dove erano chiamate le juuyo, presero a partecipare le prime geishe: in principio erano uomini. Queste figure maschili avevano il compito di intrattenere con danze, balli e battute di spirito gli ospiti e le juuyo partecipanti, qualcosa di simile ai nostri giullari e buffoni medioevali.

Quando nel 1617 la prostituzione divenne legale in Giappone, bordelli e case di piacere cominciarono a diffondersi nelle principali città e la figura di geisha iniziò a confondersi con quella di prostituta. Nel diciannovesimo secolo furono emanate precise leggi che vietavano alle geishe di esercitare la prostituzione.

Le giovani donne che desideravano diventare geisha cominciavano il loro addestramento sin da bambine. Non appena arrivate nella Okiya, la "casa delle geishe", le bambine imparavano le attività domestiche ed in seguito quelle di intrattenimento, quali suonare, ballare la danza tradizionale, cantare e servire correttamente tè e sakè. Superato un esame accedevano al secondo livello che consisteva nella pratica di indossare il kimono e come intrattenere i clienti. Il terzo livello di apprendistato era infine quello delle maiko. Affidata ad una sorella maggiore imparava l’arte della conversazione. La maiko a questo punto poteva scegliersi un nome d'arte per esercitare la sua attività di geisha potendo così iniziare a restituire il debito contratto con la okiya, la quale, durante l'apprendistato, copriva tutte le spese dell'allieva.

Ad oggi, le geishe tradizionali giapponesi seguono all'incirca lo stesso processo di formazione anche se nel moderno Giappone si diventa geisha sempre più tardi, ossia dopo aver terminato un primo piano di studi nelle scuole statali (all'età di 15 anni), o persino l'università. Questo accade specialmente nelle città più popolate come Tokyo, dove le geishe sono in media più anziane rispetto a quelle di altre città. È raro vedere le geishe all'esterno del loro hanamachi. Nel 1920 c'erano più di 80.000 geisha in tutto il Giappone, ora si stima non siano più di un paio di migliaia e molte di loro sono ormai quasi solamente un'attrazione turistica. La diminuzione dei clienti, con l'avvento della cultura occidentale e la grande spesa che occorre sostenere per ottenere l'intrattenimento di una geisha, hanno contribuito al declino delle antiche arti e tradizioni, che sono difficili da trovare.

Mentre la serata avanza, mi rendo conto che il mio reportage richiede qualcosa di più. Voglio capire chi è Aiko oltre il cerone, oltre il kimono. Voglio andare a fondo, scoprire se dietro la perfezione c’è un’umanità fragile, un desiderio represso, una storia che non si racconta nei libri. Le chiedo di parlarmi di sé, ma lei svia con un sorriso, offrendomi un altro sorso di sakè caldo. “Un giornalista curioso,” dice, e il suo sguardo si fa più intenso, quasi provocatorio. “Cosa cerchi davvero?”

La stanza sembra restringersi, il suono dello shamisen si affievolisce. Gli altri avventori si congedano, lasciandoci soli. Mi alzo, avvicinandomi a lei, spinto da un impulso che non so spiegare: il bisogno di rompere la barriera tra noi, di toccare l’intoccabile. “Aiko,” dico, “per il mio articolo, devo sapere tutto. Anche ciò che non si dice.” Lei non si muove, ma il suo respiro cambia, un’ombra di fragilità attraversa i suoi occhi. Poi, con una risata leggera, si alza e mi guida verso una porta interna. “Non è così che funziona,” sussurra, ma la sua mano sfiora la mia, un contatto che brucia.

Non c’è amore, non c’è passione fisica. Aiko mi conduce in una piccola stanza privata, ma invece di un letto trovo un altro tavolo, un altro tè, un altro racconto. Mi parla della sua infanzia, della scelta di diventare geisha dopo l’università, del peso di un’arte che sta svanendo. “Non sono una fantasia,” dice, “sono una custode.” E in quel momento capisco: il vero reportage non è nel sensazionalismo, ma nel rispetto di ciò che lei rappresenta. Torno al mio tavolo con il cuore pieno e il tablet pronto ad accogliere il mio racconto, sapendo che Aiko mi ha dato più di quanto potessi chiedere: non il suo corpo, ma la sua storia.


 




ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FOTO GOOGLE IMAGE


 




 
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