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RACCONTO
 
 
Adamo Bencivenga
VELO E VENTO
"L'Ultima Danza sotto la Pioggia"
Il vento ululava tra le lapidi, portando con sé il lamento della terra e il profumo di fiori recisi. Sotto un cielo di nubi pesanti, camminavo verso la fossa, il mio vestito nero come un’armatura, lo spacco una sfida. Ero lì per dirti addio, ma dentro di me cantava una libertà che tu non avevi mai conosciuto...

 

 


 
Il vento gemeva tra le lapidi come un lamento che si intrecciava al mio respiro, come se la terra stessa volesse confessarmi i suoi segreti. Una pioggia sottile, quasi un sussurro, cadeva sul mio cappello a falde larghe, scivolando in rivoli sul nero del mio vestito.

Il cimitero di campagna si stendeva davanti a me, piccolo e antico, un fazzoletto di terra cinta da un muretto di pietre coperte di muschio, perso tra colline che si perdevano all’orizzonte. Non più di trenta tombe, alcune così vecchie con i nomi cancellati dal tempo, altre ornate di fiori freschi, come ferite ancora aperte.

Camminavo lentamente lungo il viale di cipressi, tra il rumore della ghiaia, l’odore dolciastro dei fiori recisi e i rintocchi regolari di una piccola campana. Al centro del viale, un vecchio tiglio, con le foglie ingiallite dall’autunno, lasciava cadere piccole gocce sugli epitaffi sbiaditi: “Riposa in pace”, “Amato per sempre”.

Sopra di me il cielo era un lenzuolo di nubi grigie, pesante, che sembrava premere come una cappa sulle spalle dei pochi presenti. Eravamo una manciata, stretti sotto gli ombrelli neri e i cappotti fradici. Seguivamo la bara e giunti sul posto ci raccogliemmo attorno alla fossa appena scavata. L’odore della terra umida si mescolava a quello dei fiori recisi. La terra attorno alla fossa era smossa, un fango scuro che si attaccava alle scarpe, come se volesse trattenere chi era venuto a dire addio.

Il prete recitava le preghiere con voce monotona, il messale stretto tra le mani tremanti. “Eterna memoria, Signore, dona al tuo servo la pace.” Diceva, mentre la pioggia gli bagnava gli occhiali, costringendolo a interrompersi per asciugarli con un fazzoletto.

Accanto alla fossa c’era tuo figlio, fissava il vuoto, le mani infilate nelle tasche di un cappotto troppo grande. Nessuno parlò, nessuno si mosse. Ed io ero lì come una estranea, davanti alla tua tomba, con il mio vestito a lutto che si aggrappava alla mia pelle come un’amante gelosa, e lo spacco, audace che ti avevo promesso in vita, lasciava intravedere il bordo di una calza, un dettaglio che avrebbe fatto brillare i tuoi occhi, un tempo, un’ultima provocazione, un gesto che tu avresti adorato. Ma tu ora eri lì, sotto la terra umida, muto, immobile, mentre io, davanti alla tua fossa, recitavo il mio dolore con lacrime finte, un pianto che era solo scena.

Nulla era vero di me, nemmeno il mio pianto. Le lacrime che mi rigavano il viso tinte di mascara erano un omaggio al teatro della vita che avevamo condiviso. Le lasciavo scorrere, perché il mondo le vedesse, perché credessero al mio lutto. Ma dentro di me danzava una libertà nuova, un canto selvaggio che tu non avevi mai saputo ascoltare. Ero vestita di nero, sì, ma non per te. Il nero era il mio scudo, il mio trionfo, la mia rinascita, il mio sentirmi femmina, come il mio rossetto rosso che si intravedeva sotto il velo.

Ti ricordi, vero? Le tue mani che mi sfioravano, le tue parole dolci come miele avvelenato. Mi avevi circuita, plasmata. Mi avevi voluta timida, ragazzina, una bambola di porcellana da mostrare al mondo, da offrire ai tuoi capricci e a quelli di altri. Io, che tremavo sotto il peso dei tuoi desideri, che arrossivo al solo pensiero di essere vista. E mi scioglievo sotto le tue parole. “Sei il mio cielo.” Dicevi, e io ci credevo, cieca, innamorata, pronta a donarti ogni frammento di me. Ma il tuo amore non era un dono. Era una trappola, una rete di seta e catene che mi stringeva fino a soffocarmi.

Mi ricordo la prima volta, la mia timidezza che tremava sotto il tuo sguardo. “Sei bellissima.” Sussurravi, le tue mani che scivolavano sul mio corpo come se fosse un trofeo. “Lasciati andare, amore. Sii mia.” E io, fragile come un cristallo, mi spezzavo, sicura di darti piacere offrendo me stessa. Ma non era abbastanza. Non per te. Tu volevi l’anima!

“Voglio che ti vedano. Falli innamorare di te, amore. Falli bruciare.”
Dicevi, la voce un coltello avvolto nel velluto. “Voglio che sappiano quanto sei perfetta. Voglio che ti vedano come ti vedo io, che bramino per le tue grazie.” E mi offrivi, come un sacrificio, agli occhi di altri.
La prima volta, il cuore mi frantumava il petto, la vergogna mi bruciava la pelle del viso. Ma poi, qualcosa è cambiato. Piano, lentamente, nei loro sguardi, nel loro desiderio, trovavo un potere che non conoscevo. Ogni notte, ogni tocco, ogni respiro rubato mi trasformava. Da vittima a regina. Da bambola a tempesta.

“Ti piace, vero?” Mi chiedevi mentre mi guardavi danzare per loro, il mio corpo che si muoveva come un’onda, i miei occhi che non erano più i tuoi. “Dimmelo, amore. Dimmi che lo vuoi.” E io, persa in quel vortice di piacere e lussuria, sussurravo: “Sì… lo voglio.” Ma non era per te. Era per me. Ogni gemito, ogni brivido, era un passo lontano da te, un grido che diceva: “Io sono viva. Io sono mia.”
Eppure, tornavo. Sempre. La tua voce, il tuo tocco, erano un veleno che mi chiamava. “Nessuno ti amerà come me.” Dicevi, e io ci credevo, anche quando il mio cuore urlava il contrario. Ti odiavo, ti desideravo, ti combattevo. Ogni notte era una battaglia, e io perdevo sempre. Ma ogni sconfitta mi rendeva più forte, più donna, più me stessa.

Quelle notti bollenti, amore, erano un rito sacrilego, quando la tua mano mi guidava, il tuo sorriso mi ordinava e il tuo respiro caldo contro il mio orecchio sussurrava. “Falli innamorare. Sii la loro regina.” Ripetevi, e io obbedivo, i miei fianchi ondeggiavano, il mio corpo che si muoveva al ritmo di una musica che solo io sentivo. “Guardami.” Sussurravo, non a loro, ma a me stessa, cercando di trovare una ragione per non crollare. E quando il piacere mi travolgeva, quando il mio corpo si arrendeva e sgorgava nettare denso, era un grido di ribellione, un modo per dire: Non sono tua. E il piacere che prima avevo rifiutato ora lo cercavo, lo afferravo, lo facevo mio. Non perché lo volessi, ma perché era l’unico modo per sopravvivere a te. Ogni orgasmo era una ribellione, ogni sospiro un coltello che affondavo nel tuo controllo.

Ma l’anima era un abisso. Mi guardavo allo specchio e vedevo una donna che non riconoscevo: una stella che splendeva per gli altri, ma che dentro era cenere. “Perché non riesco a lasciarti? Perché non posso vivere senza di te?” Singhiozzavo, le tue braccia che mi avvolgevano, il tuo profumo che mi soffocava. E tu, con quel sorriso che era lama e miele, rispondevi: “Non devi, amore. Sei mia. Per sempre.” Quelle parole erano catene, e io le portavo come un tatuaggio invisibile, un marchio di fabbrica.

Anche quando gridavo, sola, nella notte, il mio riflesso che mi fissava. “Perché sei ancora qui, dentro di me?” E tu che rispondevi anche quando non c’eri: “Perché mi ami.” E io ti odiavo per questo. Ti odiavo per avermi resa uno strumento di piacere, una bambola che danzava per il tuo godimento. Ma ti amavo, perché in quel gioco crudele avevo trovato me stessa.

Ogni volta che mi concedevi ad altri, ogni volta che il tuo sguardo si accendeva di un piacere che non era il mio, io crescevo. Imparavo. La mia timidezza si scioglieva come neve al sole, e sotto di essa emergeva una donna. Non la tua, non la loro. Mia.

Poi, sei morto. Non so come, non mi importa. Mi hanno detto un incidente o forse un malore, comunque un destino che finalmente mi ha liberata. Quando l’ho saputo, non ho pianto. Ho sentito il mio cuore battere, forte, vivo, come se si fosse risvegliato da un lungo sonno. La tua morte non era una perdita. Era un trionfo, il mio inizio e qualcuno lassù mi aveva aiutata.

Ora, qui, al tuo funerale, sono quella che sono, la donna che hai sempre voluto, ma ora tu sei morto ed io sono viva! Gli uomini intorno a me, con i loro occhi affamati, nonostante il luogo e la solennità del momento, desiderano ciò che non possono avere. Il mio seno, le mie cosce, il mio sedere, la mia anima. Tutto ciò che tu offrivi, ma ora io non sono più un dono da scartare, in caso scelgo e nessuno più mi può imprigionare.

Il mio vestito nero è un inno alla mia libertà, lo spacco profondo una sfida al mondo. Oh sì sono stata la tua amante, e tutti lo sanno, anche tua moglie anche tuo figlio, ed ho diritto ad essere qui, in prima fila, ma le lacrime che verso sono false, ma il fuoco dentro di me è reale. Brucio come donna, come oggetto di desiderio, ma non sarà più il tuo.
“Guardami.” Sussurro, mentre getto una rosa gialla sulla tua bara. “Guardami ora.” È un gesto teatrale, perché tutti mi guardino, ma tu non mi rispondi e a me non importa. So che mi vedi, ovunque tu sia. E sai che ho vinto perché la tua morte è la mia vita! Tu sei morto per gli altri che ti piangono davvero, ma non per me!

Ti ho amato, sì. Ma il tuo amore era qualcosa che non sei mai riuscito a spiegarmi, ed io in quella gabbia ho imparato a volare. Mi hai spezzato il cuore, ma non le ali, e quei frammenti si sono ricomposti in un mosaico più forte, più bello. Non ho rimpianti, non ho cieli sereni, forse, ma ho me stessa. E questo mi basta.

La terra ti accoglie, ora, e io mi volto. Ti lascio ai tuoi parenti, a chi crede che tu sia stato in vita un uomo esemplare. Il mio velo nasconde un sorriso che nessuno vedrà. Grazie, amore, per essertene andato. Grazie per essere morto. Non perché ti odiassi, ma perché la tua assenza mi ha restituito a me stessa. Ora cammino via, i miei tacchi affondano nella terra morbida, il mio vestito nero ondeggia nel vento, e ogni passo è un verso di una poesia che scriverò da sola.

E mentre la pioggia continua a cadere, ringrazio la morte che è riuscita a fare qualcosa che io mai sarei stata in grado di fare: liberarmi di te e sentirmi libera. Finalmente.











Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.


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