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Adamo Bencivenga
UN PESO SUL CUORE
Sono seduta in salotto e
guardo fuori dalla finestra. Il risultato delle
analisi mi rimbomba nella testa come un martello:
INCINTA! Non riesco a respirare bene, l’aria sembra
densa, come se il mondo intero mi stesse soffocando.
So chi è il padre. Lo so fin troppo bene, e questa
certezza mi stritola il cuore

Sono seduta in salotto e
guardo fuori dalla finestra. Il risultato delle analisi
mi rimbomba nella testa come un martello: INCINTA! Non
riesco a respirare bene, l’aria sembra densa, come se il
mondo intero mi stesse soffocando. So chi è il padre. Lo
so fin troppo bene, e questa certezza mi stritola il
cuore. È mio suocero! Non c’è scampo, non c’è via
d’uscita che non mi faccia sentire una persona orribile.
Mi guardo intorno, questa casa che dovrebbe essere
il mio rifugio ora sembra solo una prigione di segreti.
Il silenzio è assordante, rotto solo dal ticchettio
dell’orologio in cucina. Mio marito è al lavoro, ignaro
di tutto, e io sono qui, a combattere con i miei demoni.
Vorrei piangere, urlare, sfogarmi, ma non posso. Non
voglio. Devo tenere tutto dentro, come sempre. E scrivo,
scrivo perché sento che se non metto nero su bianco
questi pensieri, impazzirò. La penna trema nella mia
mano, e ogni parola che scrivo sembra un’accusa contro
me stessa.
È iniziato tutto sei mesi fa. Non so
nemmeno come sia successo, o forse lo so fin troppo
bene, ma non voglio ammetterlo. La prima volta è stato
un momento di debolezza, un’occhiata troppo lunga, un
sorriso che non avrebbe dovuto esserci. Mio suocero, con
quel suo modo di fare così sicuro, così diverso da tutto
ciò che conosco, mi ha fatto sentire viva in un modo che
non provavo da tempo. Non giustifico quello che ho
fatto, ma è come se una parte di me si fosse lasciata
trascinare, senza pensare alle conseguenze. E ora,
quelle conseguenze sono qui, scritte su un foglio di
carta che non posso ignorare.
Oggi è successo di
nuovo. Anche stamattina, mentre il resto del mondo
andava avanti con la sua routine, io ero lì, a tradire
tutto ciò che sono, tutto ciò che dovrei essere. Ogni
volta mi dico che è l’ultima, che non succederà più, che
troverò la forza di fermarmi. Ma poi lui mi guarda, mi
parla, mi sfiora, e io crollo. È come una droga, un
bisogno che non riesco a controllare. Lo amo, lo amo da
impazzire, e questo mi fa sentire uno schifo. Come posso
amare qualcuno che mi sta distruggendo? Come posso amare
qualcuno che non dovrei nemmeno sfiorare?
La
vergogna mi divora. Mi guardo allo specchio e vedo una
cretina, una donna che ha perso il controllo della
propria vita. Eppure, non riesco a smettere. Ogni volta
che penso di confessare, di dire tutto a mio marito, di
liberarmi da questo peso, qualcosa mi ferma. La paura,
forse. Paura di perdere tutto: la mia famiglia, la mia
dignità, la mia identità. E ora, con questa gravidanza,
la paura è diventata terrore. Non posso dirlo a nessuno,
mai. Neanche sotto tortura.
Stasera, forse,
troverò un modo per coprire tutto. Potrei avvicinarmi a
mio marito, fingere che tutto sia normale, fare l’amore
con lui come se nulla fosse cambiato. Sarebbe il mio
alibi, il mio segreto, una bugia per proteggere questa
vita che sto portando dentro di me. Ma mentre ci penso,
sento un nodo in gola. Come posso vivere così? Come
posso guardare mio marito negli occhi, sapendo quello
che ho fatto? E come posso guardare mio figlio, un
giorno, sapendo che la sua esistenza è nata da un errore
che non riesco a smettere di commettere?
È strano
guardarmi indietro e pensare a come tutto sembrava
perfetto. Sono sposata con Massimo da quasi quindici
anni, e se chiudo gli occhi, riesco ancora a vedere il
ragazzo che mi ha fatto perdere la testa a quel convegno
di giovani medici, tanti anni fa. Io, chirurgo in erba,
con la testa piena di sogni e bisturi, lui, odontoiatra
con quel sorriso che sembrava promettere il mondo.
“Cuore e dente”, ci scherzavamo sempre, due mondi
apparentemente inconciliabili che, invece, si sono
incastrati alla perfezione. Otto mesi dopo ci siamo
sposati, travolti da un’intensità che non ti lascia
scelta, che ti spinge a dire “sì” senza pensarci troppo.
È stato come se il destino avesse deciso per noi.
Oggi, guardo la nostra vita e vedo tutto quello che
abbiamo costruito: due figli meravigliosi, un cane che
lascia peli ovunque, un gatto che mi fissa con aria di
superiorità, una villetta alle porte di Roma che è il
nostro angolo di paradiso. Accanto a noi, la casa dei
miei suoceri, immersa in un verde che sa di pace. Tra le
due case scorre un ruscello, un filo d’acqua che sembra
sussurrare segreti, e accanto c’è l’orto che mio suocero
cura con una dedizione che ha sempre qualcosa di
poetico. Ogni pomodoro, ogni zucchina, ogni foglia di
basilico sembra portare il suo amore per la terra. È un
uomo che mette il cuore in tutto quello che fa, e forse
è stato proprio questo a fregarmi.
Massimo è
sempre stato il marito perfetto. Non c’è stato un giorno
in cui non mi abbia fatto sentire amata, importante,
desiderata. Mi ha riempita di attenzioni, di piccoli
gesti che scaldano il cuore: una tazza di caffè portata
a letto la mattina, un biglietto lasciato sul frigo, un
abbraccio nei momenti in cui il mondo sembrava crollarmi
addosso. Posso dirlo con certezza: sono stata una donna
felice. Eppure, qualcosa è cambiato. Non so nemmeno dire
quando sia successo, ma è come se la vita, piano piano,
ci abbia trascinati su binari paralleli. Lui sempre più
assorbito dal suo studio, io persa tra i turni in
ospedale, le operazioni, le notti insonni. La nostra
vita affettiva, quella scintilla che ci faceva ridere e
litigare con la stessa passione, si è ridotta a una
routine fatta di doveri: educare i figli, organizzare
cene con amici, pianificare una vacanza estiva che
sembra più un obbligo che un desiderio.
Non ho
nulla da rimproverare a Massimo. È un padre fantastico,
un marito che chiunque invidierebbe. E forse è proprio
questo che mi fa impazzire. Non c’è una crepa evidente,
un errore, una mancanza che possa giustificare quello
che ho fatto, quello che sto facendo. Non posso puntare
il dito contro di lui, non posso dire “è colpa tua”.
Perché è colpa mia, solo mia, e questo pensiero mi
strazia l’anima. Come ho potuto tradire tutto questo?
Come ho potuto lasciare che mio suocero, quell’uomo che
dovrebbe essere solo una figura paterna, entrasse nella
mia vita in un modo così sbagliato, così devastante?
Ogni volta che passo accanto al suo orto, che lo
vedo chinato a strappare erbacce o a raccogliere un
pomodoro maturo, sento una fitta al petto. È iniziato
tutto con un gesto innocente, una conversazione troppo
lunga, un complimento che mi ha fatto arrossire. Non so
come sia successo, ma sei mesi fa qualcosa si è rotto
dentro di me, e da allora non riesco a fermarmi. È come
se fossi intrappolata in una versione di me stessa che
non riconosco, una donna che si odia ma che non riesce a
smettere di desiderare. E ora, con questo figlio che
porto in grembo, il peso è diventato insostenibile. Non
è solo il segreto, non è solo la vergogna. È la
consapevolezza che sto tradendo non solo Massimo, ma
anche i nostri figli, la nostra casa, il nostro
ruscello, il nostro orto. Sto tradendo tutto ciò che
rendeva la mia vita perfetta.
Eppure, una parte
di me continua a giustificarsi. Mi dico che non potevo
scegliere di meglio, che la mia vita con Massimo è tutto
ciò che una donna potrebbe desiderare. Ma allora perché?
Perché ho permesso che accadesse? Perché, ogni volta che
mio suocero mi guarda, sento il cuore battere come
quella prima volta al convegno con Massimo? E perché,
nonostante il terrore e il senso di colpa, una parte di
me non vuole che finisca?
Il bollitore
comincia a fischiare, un suono acuto che mi strappa dai
miei pensieri. Verso l’acqua nella mia tazza preferita
per una tisana, sperando che qualcosa di caldo, di
semplice, possa calmare il caos che mi si agita dentro.
Mi serve chiarezza, un momento di pausa per rispondere
alla domanda che mi martella da ore, da giorni, da mesi:
Perché non sono mai riuscita a dirgli di no? E perché
ora mi è capitata questa disgrazia? La risposta sembra
così vicina, eppure scivola via ogni volta che cerco di
afferrarla. È come se il mio cuore e la mia mente
fossero in guerra, e nessuno dei due vuole cedere.
Parlo di lui, di mio suocero. Sergio. Un uomo di 63
anni che sembra sfidare il tempo. Perennemente
abbronzato, con quel fascino che non si spiega solo con
l’aspetto fisico, anche se il suo è di tutto rispetto. È
alto, slanciato, con i muscoli ancora definiti da anni
di sport. Insegna tennis, e lo fa con una passione che
ti cattura, con quel modo di muoversi sul campo che
sembra una danza. È sempre stato così, attivo, pieno di
energia, con un sorriso che ti disarma e ti fa sentire
l’unica persona al mondo. Ma c’è di più. C’è quella
storia, quel passato che mia suocera lascia trapelare
solo a mezze frasi, con un misto di amarezza e
rassegnazione. Sergio è stato un tombeur de femmes, un
seduttore incallito, uno di quegli uomini che non si
accontentano mai, che cercano sempre qualcosa di più,
che fanno di una donna la loro ragione di vita. Lei lo
ha sempre saputo, e più di una volta sono stati a un
passo dal lasciarsi. “Il suo vizietto,” lo chiama mia
suocera, con un sorriso tirato che nasconde anni di
ferite.
Eppure, con me, non è mai stato solo “il
vizietto”. O almeno, è quello che mi dico per
giustificarmi. È iniziato tutto in modo innocente, o
almeno così mi piace raccontarmelo. Un pomeriggio,
nell’orto, mentre mi spiegava come piantare i pomodori,
le sue mani hanno sfiorato le mie. È stato un gesto
banale, ma il modo in cui mi ha guardata mi ha fatto
tremare. C’era qualcosa nei suoi occhi, una scintilla
che non avevo più visto in Massimo da troppo tempo. Non
era solo desiderio, era attenzione, era come se mi
vedesse davvero, non solo come la nuora, la madre dei
suoi nipoti, la moglie di suo figlio. Mi vedeva come una
donna!
Da quel momento, è stato come cadere in
una spirale. Ogni incontro, ogni conversazione, ogni
risata condivisa nell’orto o durante una cena di
famiglia mi ha trascinata più a fondo. Non volevo, o
forse sì. Non lo so. Ogni volta che mi dicevo “basta,
non succederà più”, lui trovava il modo di
riavvicinarsi: un messaggio, un’occhiata, un invito a
giocare una partita a tennis. E io, come una stupida, ci
cascavo. Ogni. Singola. Volta. Non riesco a dirgli di
no. È come se la mia volontà si sciogliesse davanti a
lui, come se il suo fascino, la sua sicurezza, la sua
energia fossero una droga di cui non posso fare a meno.
Ma ora, con questo figlio che porto in grembo, tutto
è cambiato. La gravidanza non è solo una “disgrazia”. È
un segnale, un punto di non ritorno. Mi costringe a
guardarmi in faccia, a chiedermi chi sono diventata. Non
è solo la paura che Massimo lo scopra, o che mia
suocera, con il suo intuito affilato, capisca qualcosa.
È la paura di me stessa di quella che sono diventata!
Mentre verso l’acqua bollente sulla bustina di
camomilla, il vapore mi scalda il viso, ma non scioglie
il nodo che mi stringe lo stomaco. La tazza è calda tra
le mie mani, ma non abbastanza da scacciare il freddo
che sento dentro. Devo trovare una risposta. Devo
trovare un modo per uscire da questo incubo, ma ogni
soluzione sembra portare con sé un prezzo che non so se
sono pronta a pagare. Confessare? Mentire? Continuare a
nascondermi? Ogni strada è un vicolo cieco, e io sono
stanca di correre.
La prima volta che è successo,
ricordo ogni dettaglio come se fosse ieri. Era una
mattina di fine giugno, circa sei mesi fa. Mi ero
svegliata con una serenità che non provavo da tempo,
come se il mondo, per una volta, avesse deciso di essere
gentile con me. Era il mio giorno di riposo, una pausa
rara tra i turni massacranti in ospedale, e avevo deciso
di godermelo. Ho infilato un paio di scarpe comode da
tennis e sono uscita per una passeggiata nel quartiere,
lasciando che il sole tiepido e l’aria profumata di
gelsomino mi accarezzassero il viso. Le strade erano
tranquille, i negozi stavano appena aprendo, e io mi
sentivo leggera, quasi come la ragazza di un tempo,
quella che sognava di salvare vite e innamorarsi
follemente.
Tutto procedeva normalmente, come una
di quelle giornate che non lasciano tracce particolari
nella memoria. Al ritorno, però, mi sono ricordata di
una commissione: dovevo passare in farmacia a prendere
uno sciroppo per la tosse per i bambini. Ho preso
l’auto, senza fretta, canticchiando una canzone che
passava alla radio. Poi, lungo il viale che porta al
circolo di tennis, l’ho visto. Gianni, mio suocero,
camminava sul marciapiede con la sua inseparabile
racchetta in mano, il borsone a tracolla, il passo
deciso di chi sa sempre dove sta andando. Stranamente,
era a piedi. Di solito lo vedevo sfrecciare sulla sua
vecchia spider rossa, con quel suo stile che sembrava
uscito da un film degli anni Settanta.
Per pura
cortesia, lo giuro, ho rallentato e ho abbassato il
finestrino. “Gianni, tutto bene? Come mai a piedi?” Gli
ho chiesto, con un sorriso che voleva essere solo
amichevole. Lui si è fermato, mi ha guardata con quegli
occhi che sembrano sempre vedere oltre, e ha sfoderato
uno dei suoi soliti complimenti. “Sai, cara, il sole di
oggi ti fa brillare più del solito. Dovresti uscire più
spesso così, sembri una dea.” Ho riso, un po’
imbarazzata, un po’ lusingata. Era il suo modo di fare,
lo avevo sempre saputo. Fin da quando Massimo mi aveva
presentata ai suoi, quando avevo poco più di
ventiquattro anni, Gianni aveva questo modo di
guardarmi, di parlarmi, di farmi sentire speciale. Non
era mai stato volgare, mai fuori luogo, ma c’era sempre
stato quel non so che nei suoi occhi, un’attenzione che
mi avvolgeva come un abbraccio.
A quei tempi, ero
una ragazza giovane, appena laureata, con il cuore pieno
di sogni e un vuoto che non avevo mai confessato a
nessuno. Non avevo conosciuto mio padre, ero cresciuta
con mia madre e le mie sorelle, in una casa piena di
amore ma anche di silenzi. Le attenzioni di Gianni,
all’inizio, erano come un balsamo. Mi faceva piacere
sentirmi notata, apprezzata, quasi come se colmasse
un’assenza che non volevo ammettere. Certo, forse il mio
atteggiamento non aiutava. Sorridevo, rispondevo ai suoi
complimenti con battute leggere, lasciavo che quel gioco
innocuo continuasse. Non ci vedevo nulla di male. Era
solo il suo modo di essere. Un uomo affascinante, un po’
vanitoso, che amava scherzare e far sentire le donne
desiderate. Non avevo mai pensato che potesse diventare
qualcos’altro.
Quel giorno di giugno, però,
qualcosa è cambiato. Dopo il suo complimento, mi ha
chiesto un passaggio al circolo. “La macchina è dal
meccanico, e non mi va di chiamare un taxi. Mi fai
questo favore, nuora preferita?” Ha detto “nuora
preferita” con quel tono scherzoso che usava sempre, ma
c’era qualcosa di diverso nella sua voce, un calore che
mi ha fatto esitare per un istante. Ero comunque
guardinga. Pensavo: “Sta cercando l’occasione, lo so!” E
allora l’auto in panne mi è sembrata una scusa, una di
quelle mosse studiate che un uomo come lui, con il suo
passato da seduttore, poteva aver orchestrato. Ma poi mi
sono detta: Clara, calmati. Il circolo di tennis è a
meno di un chilometro. Cosa vuoi che succeda in due
minuti di macchina? Così, con un misto di curiosità e
cautela, ho abbassato il finestrino e gli ho detto di
salire. Appena si è seduto, l’aria nell’abitacolo è
cambiata. Non so se fosse il suo profumo, quel misto di
colonia fresca e di qualcosa che sa di terra e sudore, o
se fosse il modo in cui occupava lo spazio, con quella
sicurezza che ti fa sentire piccola e importante allo
stesso tempo. Non ha perso tempo. “Clara, questo
vestitino estivo ti sta d’incanto.” Ha detto. “E con i
capelli raccolti sembri una di quelle attrici degli anni
Sessanta. Dovresti portarli così più spesso.” Io ho
sorriso, un po’ per abitudine, un po’ perché i suoi
complimenti, per quanto scontati, mi facevano sempre
sentire vista. Ma dentro di me, il cuore batteva forte.
Pensavo: E se allunga la mano? Cosa faccio? Lo respingo?
Lo lascio fare? Ero tesa, e lui l’ha notato subito.
“Clara, stai tranquilla, non ti mangio mica…” Ha
detto, ridendo piano, con quel tono da gentiluomo che sa
come disarmarti. Mi ha spiazzata. Per un attimo, mi sono
sentita ridicola per aver pensato male di lui. Forse era
davvero solo un passaggio, forse stavo esagerando. Così
ho cercato di rilassarmi, di rispondere come se nulla
fosse. Mi ha chiesto se fossi sola, come mai non fossi
in ospedale. “È il mio giorno di riposo.” Ho risposto,
con un sorriso che speravo sembrasse naturale. “Volevo
godermi un po’ di calma e stare solo con me stessa.” Lui
ha annuito, e la conversazione è scivolata sul più e sul
meno: il tempo, il tennis, i pomodori che stava
coltivando nell’orto. Cose banali, innocue. Eppure,
c’era qualcosa nel modo in cui parlava, nel modo in cui
ogni tanto girava la testa per guardarmi, che mi faceva
sentire come se stessi camminando su una corda sospesa.
In meno di due minuti, eravamo al circolo. Ho
parcheggiato davanti all’ingresso, e lui ha aperto la
portiera, pronto a scendere. “Grazie, Clara. Sei un
tesoro.” Ha detto, con un sorriso che sembrava sincero.
Io ho ricambiato il sorriso, ma dentro di me mi stavo
dando della stupida. “Vedi? Non è successo nulla. Ti sei
fatta mille paranoie per niente.” Mi ripetevo. Lui è
sceso, ha chiuso la portiera, e io ho tirato un sospiro
di sollievo. Ma poi, invece di andarsene, si è chinato
verso il finestrino. “Sai, un caffè non ci starebbe
male. Che dici, hai cinque minuti per un vecchio come
me?” Il suo tono era leggero, scherzoso, ma c’era una
sfumatura che mi ha fatto esitare. Ho guardato
l’orologio, come se davvero stessi calcolando il tempo,
ma in realtà stavo cercando una scusa per dire di no.
Non l’ho trovata. “Va bene, cinque minuti.” Ho detto,
spegnendo il motore. Non so perché ho accettato. Forse
perché mi sentivo in colpa per aver dubitato di lui,
forse perché una parte di me voleva prolungare quel
momento, quella sensazione di essere al centro della sua
attenzione. Siamo entrati nel circolo, e mentre
ordinavamo il caffè al bar, mi sono accorta che la
tensione di prima non era sparita. Abbiamo
chiacchierato, riso, e poi lui mi ha invitata a fare due
passi verso i campi. “Solo per mostrarti dove passo le
mie giornate.” Ha detto. E io l’ho seguito, come se
fossi in trance, come se una parte di me sapesse già
cosa stava per succedere, ma non volesse ammetterlo.
E ora, mentre la tisana si raffredda tra le mie
mani, ripenso a quel passaggio in macchina, a quel “stai
tranquilla” che mi aveva fatto abbassare la guardia, e
mi chiedo come sia possibile che un momento così breve
abbia cambiato tutto. Infatti, tornata a casa la mia
testa era ancora lì, incastrata in quel breve passaggio
in macchina con Gianni. Ogni parola, ogni sguardo, ogni
intonazione della sua voce mi girava nella mente come un
disco rotto. Mi sentivo accaldata, non solo per il sole
che batteva forte, ma per qualcosa che non riuscivo a
definire. Ero sudata, con il cuore che ancora batteva un
po’ troppo veloce, così ho deciso di farmi una doccia,
sperando che l’acqua fresca potesse lavare via quella
strana inquietudine. Sotto il getto, però, non riuscivo
a smettere di pensare a lui. Al suo sguardo penetrante,
che aveva un modo di scavarmi dentro, di farmi sentire
vista in un modo che Massimo, con tutto il suo amore,
non aveva mai saputo fare. C’era qualcosa in Gianni,
qualcosa di indefinito, di magnetico, di pericolosamente
intrigante, che suo figlio non aveva mai posseduto. E
questo pensiero, lo ammetto, mi spaventava e mi eccitava
allo stesso tempo.
Dopo la doccia, avvolta in un
accappatoio morbido, mi sentivo un po’ più calma, ma non
abbastanza da scacciare del tutto quella sensazione. Ho
deciso di prepararmi un’insalata di pomodori, qualcosa
di semplice per ancorarmi alla normalità, per ricordarmi
chi ero: Clara, la moglie di Massimo, la madre di due
figli, la chirurga. Ma quando ho aperto il frigo, mi
sono accorta che mancavano i due ingredienti essenziali:
pomodori e basilico. “Perfetto.” Ho borbottato tra me,
pensando che l’orto di Gianni, a pochi passi da casa,
fosse la soluzione più veloce. Senza pensarci troppo,
ancora in accappatoio, con i capelli umidi che
gocciolavano sulla schiena, sono uscita di casa,
attraversando il piccolo sentiero che separa la nostra
villetta dalla loro.
Il sole era alto, il
ruscello gorgogliava piano, e l’aria profumava di erba
tagliata. Mi sono avvicinata all’orto, cercando con lo
sguardo le piante di pomodoro, quando un movimento tra
le zucchine mi ha fatto sobbalzare. Il cuore mi è
schizzato in gola. Lì, in mezzo alle piante, c’era
Gianni, accovacciato, intento a strappare erbacce con la
stessa cura che metteva in tutto. Non era al circolo di
tennis, come avevo dato per scontato. Era lì, a pochi
metri da me, con la camicia aperta sul petto e le
maniche arrotolate, le mani sporche di terra. Mi ha
preso letteralmente un colpo. Come aveva fatto a tornare
così in fretta? E perché non mi aveva detto che sarebbe
stato lì?
Quando mi ha visto, si è alzato
lentamente, pulendosi le mani sui jeans. Non sembrava
per nulla sorpreso, né si è giustificato per essere lì
invece che al circolo. Mi ha guardata, con quel suo
sorriso che era un misto di sicurezza e malizia, e ha
detto: “Sai, Clara, le piante sono come le donne: hanno
sempre bisogno di cure e attenzioni.” Il suo sguardo è
scivolato sul mio accappatoio, fermandosi sul décolleté
in un modo così sfacciato che mi sono sentita nuda come
se quel sottile strato di tessuto non esistesse. Ha
aggiunto, a mezza voce, quasi tra i denti: “Se non fossi
mia nuora…”
Le sue parole mi hanno colpita come
un fulmine. Non ho risposto, non ci sono riuscita. Ero
paralizzata, con il cuore che batteva così forte che
temevo lo sentisse. Una parte di me voleva girarsi e
scappare in casa, chiudermi dentro, fingere che quel
momento non fosse mai successo. Ma un’altra parte,
quella che mi faceva paura, voleva restare lì, voleva
sapere cosa sarebbe successo se avessi lasciato che
quelle parole, quel “se”, prendessero forma. Ho
abbassato lo sguardo, stringendo l’accappatoio contro il
petto e ho mormorato qualcosa di incoerente sui
pomodori. Lui ha riso piano, come se sapesse esattamente
cosa mi passava per la testa, e mi ha indicato le piante
con un gesto disinvolto. “Prendi quello che ti serve,
Clara. L’orto è anche tuo.” Ho raccolto un paio di
pomodori e qualche foglia di basilico in fretta, con le
mani che tremavano, e sono tornata a casa senza
guardarmi indietro. Ma quelle parole, quel “se non fossi
mia nuora”, si sono infilate nella mia testa come un
tarlo. E ora, mentre sorseggio la mia tisana ormai
fredda, ripenso a quel momento nell’orto, a come tutto
sia iniziato a sfuggirmi di mano. È stato quel giorno,
quel “se”, a cambiare tutto. È stato quel giorno che ho
capito che non sarei mai riuscita a dirgli di no.
Sapevo chi era lui, conoscevo i suoi trascorsi. Le
storie che mia suocera lasciava trapelare, i
pettegolezzi sussurrati tra le sue amiche, il modo in
cui le donne al circolo di tennis lo guardavano: Gianni
era un uomo che non si fermava davanti a niente, nemmeno
al grado di parentela. Per lui, quel “se” era solo una
formalità, un ostacolo che non gli importava di
scavalcare. Eppure, invece di girarmi e andarmene, ho
rilanciato. Non so perché. Forse per stemperare
l’imbarazzo, forse per curiosità, forse per quella parte
di me che voleva vedere fin dove si sarebbe spinto. “E
tu, come mai non sei al campo da tennis?” Gli ho
chiesto, con un sorriso che speravo sembrasse
disinvolto.
La sua risposta è arrivata senza
esitazione, come se l’avesse preparata. “Il mio compagno
ha dato forfait all’ultimo minuto, così ho pensato di
tornare a casa e dedicarmi all’orto.” Ha scrollato le
spalle, con quel suo fare da uomo che non deve mai
giustificarsi. Ma c’era qualcosa nel suo tono, un’ombra
di malizia che mi ha fatto dubitare. Senza pensarci, con
un coraggio che non sapevo di avere, ho sorriso e ho
detto: “Non ci credo affatto, Gianni.” Le parole mi sono
uscite di getto, leggere, come se stessi scherzando, ma
dentro di me sentivo il terreno tremare.
Lui ha
inclinato la testa, guardandomi con quegli occhi che
sembravano scavarmi dentro. “Pensi bene, tesoro.” Ha
detto, con un sorriso che era puro divertimento.
“Secondo te, tra te e il mio compagno di tennis, che tra
l’altro è brutto e pure uomo, chi potrei mai preferire?”
La sua voce era bassa, carica di un’intenzione che non
potevo ignorare. Non sapevo cosa rispondere. Il mio
cervello cercava freneticamente qualcosa di
intelligente, qualcosa che chiudesse quella
conversazione e mi riportasse al sicuro, ma tutto quello
che sono riuscita a dire è stato: “Ma io non so giocare
a tennis.” Appena l’ho detto, mi sono data della
cretina. Che risposta idiota! Gli avevo praticamente
servito un assist su un piatto d’argento.
Gianni
non ha perso l’occasione. Si è avvicinato di un passo,
quel tanto che basta per farmi sentire il suo profumo,
un misto di terra e colonia, e ha detto, con un tono che
era un misto di scherzo e provocazione: “Sono sicuro che
tu sai fare bene altro… e sicuramente sarebbe per me più
piacevole.” Le sue parole mi hanno colpita come un
pugno, ma non in senso negativo. Era come se ogni
sillaba accendesse qualcosa dentro di me, qualcosa che
non volevo ammettere di provare. Ho abbassato lo
sguardo, stringendo i pomodori e le foglie di basilico
contro il petto, come se potessero proteggermi da quello
che stava succedendo.
Prima che potessi
rispondere, lui ha cambiato tono, come se niente fosse.
“Sai, Clara, credo che verrò a pranzo da te.” Ha detto,
con un’aria compiaciuta. “Adoro l’insalata di pomodori,
e mia moglie è andata a trovare una vecchia zia, quindi
sono solo.” Ha fatto una pausa, poi ha aggiunto, con un
sorriso che sembrava quasi innocente: “Non vorrai
lasciare un povero pensionato a mangiare da solo, vero?”
Ho riso, più per nervosismo che per altro, ma dentro di
me una sirena d’allarme si era messa a suonare. Eravamo
soli. Non era la prima volta, certo. Era capitato mille
volte di ritrovarci da soli in casa, per un caffè, per
una chiacchierata. Ma quella volta era diverso. Lo
sentivo. C’era un’energia nell’aria, una tensione che
non avevo mai percepito prima, o forse che avevo sempre
ignorato.
Non ho detto di no. Non ci sono
riuscita. Ho annuito, mormorando un “va bene” che mi è
uscito a fatica, e sono tornata verso casa, con lui che
mi seguiva a pochi passi. Mentre camminavo, con
l’accappatoio che mi sembrava improvvisamente troppo
corto, troppo sottile, non potevo fare a meno di
pensare: Questa volta sarà diverso. Non so se fosse una
paura o un desiderio. Forse entrambi. Ma una cosa era
certa: quel pranzo non sarebbe stato solo un’insalata di
pomodori.
Entrati in casa, sentivo ancora il peso
delle sue parole nell’orto, quel “se non fossi mia
nuora” che mi ronzava in testa come un’eco. Ero confusa
e ho cercato di riprendere il controllo. “Vado a
cambiarmi.” Ho detto d’istinto, come se indossare
qualcosa di più appropriato potesse rimettere tutto al
suo posto, ristabilire i confini che stavano diventando
pericolosamente sfumati. Ma Gianni non mi ha lasciato
nemmeno il tempo di allontanarmi. Mi ha preso la mano,
con un gesto che era insieme gentile e deciso, e
abbassando la voce, come se stesse condividendo un
segreto solo nostro, ha sussurrato: “Ti prego, rimani in
accappatoio e non scioglierti i capelli… Sei
bellissima.”
Le sue parole mi hanno colpita come
un’onda, lasciandomi senza fiato. C’era qualcosa nel suo
tono, nella sua vicinanza, qualcosa di estremamente
intimo, confidenziale e familiare che mi faceva sentire
come se fossi sotto un incantesimo. Dopo la scena in
macchina, dove mi ero data della cretina per aver
pensato male di lui, per aver immaginato chissà quali
intenzioni, mi sono sentita in dovere di dimostrargli
che mi fidavo, che non ero quella paranoica che
sospettava di ogni suo gesto. Così, contro ogni
buonsenso, ho annuito, con un sorriso incerto, e ho
deciso di restare in accappatoio. “Vado a preparare
l’insalata.” Ho detto, cercando di riportare la
situazione su un terreno più sicuro, più normale. Ma
normale, con Gianni, non era mai un’opzione.
Lui
mi ha seguita in cucina, con quella disinvoltura che lo
rendeva così pericolosamente affascinante. Mentre
affettavo i pomodori, con le mani che tremavano appena,
ha iniziato un corteggiamento che definire asfissiante
sarebbe riduttivo. Si è appoggiato al bancone, a pochi
passi da me, e ha iniziato a parlare, con quella voce
che sembrava accarezzarmi. “Sai, Clara, mio figlio è un
brav’uomo, ma è sempre stato troppo preso dal lavoro.
Non ti valorizza come donna, non come meriti.” Le sue
parole erano taglienti, non tanto per il contenuto, ma
per il modo in cui le diceva, come se stesse scavando in
una verità che io non volevo affrontare. Non era la
prima volta che sentivo Gianni parlare così di Massimo.
Spesso, anche davanti a me, lo definiva un incapace, un
buono a nulla, con un misto di disprezzo e delusione che
mi aveva sempre messa a disagio. E, in fondo, non aveva
tutti i torti: Massimo era dolce, affidabile, ma a volte
sembrava vivere in un mondo tutto suo, fatto di pazienti
e cartelle cliniche, lasciando poco spazio per noi, per
me.
Eppure, sentirlo dire da Gianni, in quel
momento, mi sembrava strano: “Perché parli così di tuo
figlio?” Ho chiesto, posando il coltello e girandomi a
guardarlo. “Massimo è un buon marito, un buon padre. Non
è giusto che tu lo giudichi così.” La mia voce era più
incerta di quanto volessi, ma non potevo lasciar passare
quelle parole senza reagire.
Gianni non si è
scomposto. Si è spostato, appoggiandosi alla porta della
cucina con le mani conserte, il corpo rilassato ma il
suo sguardo fisso su di me, come se stesse leggendo ogni
mia minima reazione. “Sai, Clara, ti capisco.” Ha detto,
con un tono che era un misto di complicità e
provocazione. “Dopo tanti anni di matrimonio, è normale
che le cose cambino. Quando ti ho conosciuta, eri
diversa. Eri piena di vita, inavvicinabile, una donna
che sembrava non avere bisogno di nessuno. Ma ora… ora
lo vedo nei tuoi atteggiamenti, nella tua sensualità
straripante. Ti piace essere desiderata, corteggiata.
Anche se mi respingi, sento che ti manca qualcosa.”
Le sue parole mi hanno trafitto. Era come se avesse
preso i miei pensieri più nascosti, quelli che non osavo
nemmeno confessare a me stessa, e li avesse messi lì,
sul tavolo della cucina, accanto ai pomodori e al
basilico. Istintivamente, ho ribattuto: “Ma come fai a
dire queste cose? Io sono una donna felice!” La mia voce
era salita di tono, quasi a voler convincere me stessa
oltre che lui. Ma dentro, sentivo una crepa aprirsi, una
verità che non volevo guardare.
Gianni si è messo
a ridere: “Clara, ho tanti anni più di te e sono avvezzo
al fascino femminile. Con me non puoi mentire.” Ha
detto, avanzando di un passo verso di me. “E, scusa se
te lo dico, ma una donna sazia d’amore non accetterebbe
mai delle avance, seppure innocue, da un uomo. E tanto
meno da un suocero.” Ha enfatizzato quell’ultima parola,
lasciandola sospesa nell’aria come una sfida. Non ho
risposto. Non ci sono riuscita. Le sue parole erano come
uno specchio che rifletteva una versione di me che non
volevo vedere. Ero lì, in accappatoio, con i capelli
ancora umidi, a preparare un’insalata che sembrava
sempre più una scusa per non guardarlo negli occhi. Ma
lui era lì, a pochi passi, e ogni fibra del mio corpo
era consapevole della sua presenza.
“Da quanto
tempo non scopi?” La domanda di Gianni è arrivata come
un colpo, cruda, diretta, senza più filtri. Mi sono
voltata di scatto, dandogli le spalle, concentrandomi
sui pomodori che stavo sbucciando, come se affettare la
buccia rossa potesse tenermi ancorata alla realtà, a ciò
che ero: Clara, la moglie di Massimo, la madre, la
chirurga. Non ho risposto. Non potevo. Ammettere che
aveva ragione, che erano mesi che io e Massimo non
facevamo l’amore, che la nostra intimità si era ridotta
a gesti frettolosi e momenti rubati, sarebbe stato come
dargli il permesso di andare avanti. E una parte di me,
quella che più mi spaventava, voleva che andasse avanti,
che mi chiedesse il motivo, che scavasse nella mia
insoddisfazione di donna.
Il mio silenzio, però,
è stato come un invito. Ho sentito il suo fiato caldo
sul mio collo, un brivido che mi ha attraversata come
una scarica elettrica. “Ma che fai? Sei matto?” Ho
detto, cercando di divincolarmi, di mettere distanza tra
noi. La mia voce era un misto di indignazione e paura,
ma anche di qualcos’altro che non volevo nominare. Lui
non si è mosso, non ha fatto un passo indietro. “No, non
sono matto.” Ha risposto, con quella sicurezza che mi
faceva quasi rabbia. “Sei tu che me lo stai chiedendo! E
ci sta che mi allontani, perché sai benissimo che non
mollo.” Le sue parole erano come una rete che si
stringeva intorno a me, e la cosa peggiore era che aveva
ragione. Lo sapevo. Sapevo che non si sarebbe fermato, e
una parte di me non voleva che lo facesse.
Ho
continuato a tagliare i pomodori, con le mani che
tremavano, cercando di ignorare la sua presenza, ma era
impossibile. Gianni era lì, a pochi centimetri da me, e
ogni suo respiro sembrava amplificare il battito del mio
cuore. Poi, senza preavviso, ho sentito le sue mani sui
miei fianchi, una stretta decisa, che mi ha fatto
trattenere il fiato. Il mio atteggiamento, lo sentivo,
stava già cambiando. La rabbia, la paura, la volontà di
resistergli si stavano sgretolando sotto il peso del suo
tocco, della sua voce, di quella sicurezza che mi faceva
sentire desiderata in un modo che avevo quasi
dimenticato.
Gianni stava tessendo la sua
ragnatela, e lo sapeva. Sapeva di essere a un passo dal
suo “trofeo”, come se io fossi una preda che aveva
inseguito per anni. Si è avvicinato ancora di più, il
suo petto quasi contro la mia schiena, e ha sussurrato:
“Toccherei il cielo con un dito se, anche per una sola
volta, potessi fare l’amore con una donna magnifica come
te. Ti desidero, sai, e ti sogno ogni notte!” La sua
voce era carica di un’eccitazione che non nascondeva
più, un desiderio che sembrava consumarlo. Ho sentito
l’accappatoio scivolare lungo la mia schiena, la sua
mano che esplorava, senza esitazione il mio seno e poi
giù più giù, fino a svelare il mio segreto più intimo.
“Oddio, sei già bagnata!” Ha detto, con un misto di
trionfo e stupore. “Vedi che avevo ragione? Sei
stupenda, Clara!”
In quell’istante, ho sentito il
suo sesso eccitato premere contro il mio fianco, e non
lo nego: mi faceva un piacere immenso essere desiderata
così, da un uomo come lui. Un uomo che, come sapevo dai
racconti e dalle mezze frasi di mia suocera, aveva avuto
centinaia di donne, che conosceva il desiderio come
pochi. Essere il centro del suo mondo, anche solo per un
momento, mi faceva sentire viva, potente, desiderabile
in un modo che avevo dimenticato. Ma allo stesso tempo,
una voce dentro di me gridava che stavo sbagliando, che
stavo tradendo tutto ciò che ero, tutto ciò che avevo
costruito con Massimo, con i nostri figli, con la nostra
vita.
Non ho detto nulla. Non ho avuto la forza
di fermarlo, né di fermarmi. Il coltello è scivolato sul
tagliere, i pomodori sono rimasti lì, dimenticati, e io
mi sono lasciata andare, travolta da un’onda che non
potevo più controllare. In quel momento, in quella
cucina, con l’accappatoio che scivolava a terra e il suo
respiro sul mio collo, ho capito che non sarei tornata
indietro. Non quel giorno. E ora, mentre stringo la
tazza di tisana fredda tra le mani, ripenso a quel
momento, a come tutto sia iniziato, e il peso della
gravidanza che porto in grembo mi schiaccia. Come ho
potuto lasciare che accadesse? E come posso vivere con
questo segreto, sapendo che ogni passo che faccio mi
allontana dalla donna che credevo di essere?
Le
sue parole mi hanno colpita come un fulmine. “Ti
desidero come donna, sei la femmina che ogni maschio
vorrebbe possedere, ma soprattutto ti voglio perché sei
mia nuora.” Quelle ultime parole, pronunciate con una
sicurezza che non ammetteva repliche, mi hanno fatto
tremare. C’era qualcosa di oscuro, di proibito, in quel
“perché sei mia nuora”, come se il taboo stesso fosse il
carburante del suo desiderio. Ero paralizzata, incapace
di muovermi, di pensare. L’unica cosa che sono riuscita
a dire, con un filo di voce, è stata: “Ti prego,
facciamo in fretta!” Non era una supplica per
accelerare, non proprio. Era paura, desiderio, vergogna,
tutto mescolato in un groviglio che non riuscivo a
sciogliere.
Gianni ha sorriso, un sorriso che era
insieme rassicurante e predatorio. “Tranquilla, tuo
marito non saprà mai nulla.” Ha detto, con quella calma
che mi faceva quasi rabbia, come se avesse già tutto
sotto controllo e avesse previsto ogni mia reazione. Mi
sono voltata, guardandolo fisso negli occhi, e ho
sentito il bisogno di mettere un confine, almeno uno.
“Anche tua moglie non deve sapere nulla! Promettimelo
sui tuoi figli!” La mia voce era un misto di
disperazione e determinazione. Lui non ha risposto, ma
il suo silenzio, il modo in cui mi ha guardata, era una
promessa implicita. Non c’era bisogno di parole. E così,
è successo.
Mentre ci dirigevamo verso la camera
da letto, il cuore mi batteva così forte che pensavo
sarebbe esploso. “Facciamo in fretta…” Continuavo a
ripetere, come un mantra, come se dire quelle parole
potesse rendere tutto meno reale, meno grave. Ma Gianni
era ormai su di giri, la sua eccitazione palpabile in
ogni gesto, in ogni parola. “Tranquilla, ti scopo come
vuoi e per il tempo che desideri.” Ha risposto, con una
voce che vibrava di desiderio. Quelle parole, così
crude, così dirette, mi hanno fatto arrossire, ma non mi
hanno fermata. Non potevo più fermarmi.
In camera
da letto, mi sono ritrovata distesa sul mio letto
matrimoniale, il letto che condividevo con Massimo, il
letto dove avevamo riso, litigato, fatto l’amore,
concepito i nostri figli. E ora c’era lui, Gianni, sopra
di me, con gli occhi che brillavano di una fame che mi
spaventava e mi attirava allo stesso tempo. “Sei
perfetta.” Continuava a ripetere, elogiando il mio
corpo, ogni curva, ogni dettaglio, come se fossi
un’opera d’arte che aveva sognato di possedere per anni.
“Allarga il tuo paradiso umido.” Ha sussurrato, con una
voce che era un misto di reverenza e urgenza. “Perché da
qui a poco proverai qualcosa di sublime, qualcosa che
ricorderai per sempre.” Si è spogliato mostrandosi in
tutta la sua virilità e mi ha detto: “Non vergognarti!
Guardalo! Ne hai bisogno vero?”
Certo che ne
avevo bisogno… Aveva ragione. È stato a dir poco
meraviglioso. Non so come descriverlo senza sentirmi in
colpa, senza odiare me stessa per averlo desiderato, per
aver ceduto. Nonostante l’età, Gianni era strepitoso. La
sua passionalità, il suo impeto, erano qualcosa che non
avevo mai sperimentato, nemmeno nei momenti più intensi
con Massimo. Mi ha travolta, mi ha rivoltata più volte,
portandomi all’orgasmo con una forza che mi lasciava
senza fiato, senza parole. Ogni volta che lo pregavo di
smettere, di darmi un momento per riprendere fiato, lui
sorrideva, paziente, altruista, ma sempre deciso, sempre
presente. Era rigido, instancabile, e ha raggiunto
l’estasi solo dopo aver consumato ogni mia goccia di
piacere, come se il suo unico scopo fosse stato quello
di darmi tutto ciò che desideravo, tutto ciò che mi era
mancato.
In quei momenti, sdraiata sotto di lui,
con il suo peso che mi ancorava al letto, mi sono
sentita viva come non lo ero da anni. Ringrazio Dio per
aver ceduto, per aver provato qualcosa di così intenso,
di così travolgente. Ma ora quel ricordo mi brucia.
Perché quella passione, quella sensazione di essere
desiderata, è diventata il mio segreto più pesante. Ogni
orgasmo, ogni sussurro, ogni tocco di Gianni è un
tradimento che porto dentro di me, e ora, con questa
gravidanza, quel tradimento ha un peso che non posso più
ignorare. Come posso vivere sapendo che il figlio che
porto in grembo è il frutto di quel momento, di quella
follia? Come posso guardare Massimo, i miei figli, senza
che questo segreto mi distrugga?
Dopo l’amore,
mentre i nostri respiri erano ancora affannati e i
nostri corpi intrecciati sul letto matrimoniale, Gianni
ha continuato a baciarmi, le sue labbra che cercavano
ogni centimetro della mia pelle. “Lo sapevo che ci
saresti stata, sai? Mi spiace solo di non averci provato
prima. E spero che ora tu non ti sia pentita!” Le sue
parole erano un misto di trionfo e dolcezza, come se
volesse rassicurarmi, ma anche reclamare la sua
vittoria. E la verità, per quanto mi costi ammetterlo, è
che non ero pentita. Anzi, il mio corpo vibrava ancora
di piacere, la mia mente annebbiata da una sensazione
che non provavo da anni. Quando mi ha guardato, con
quegli occhi che sembravano leggermi dentro, e mi ha
chiesto: “Lo vuoi ancora?”, non ho resistito. Nonostante
il timore che Massimo o mia suocera potessero rientrare
da un momento all’altro, ho sentito una parte di me,
quella più selvaggia, più nascosta, prendere il
controllo. Per la prima volta in vita mia, sono esplosa.
Ho urlato, ho reclamato di averne ancora, come se fossi
una ragazza alle prime esperienze, come se il mondo
fuori da quella stanza non esistesse più.
Rischiando di essere scoperti, siamo andati avanti per
due ore, persi l’uno nell’altra, in una danza di corpi e
desideri che sembrava non avere fine. Da quel giorno,
siamo diventati amanti. Abbiamo iniziato a frequentarci
quasi ogni giorno, sfruttando ogni scusa, ogni ritaglio
di tempo. Gianni aveva affittato una piccola garçonnière
vicino al circolo di tennis, un nido segreto che
esisteva solo per noi. Ogni incontro era un’esplosione
di passione, un vortice in cui ci cercavamo con una fame
che non si saziava mai. Inventavamo scuse sempre più
elaborate: una commissione, una passeggiata, un caffè al
circolo. Nessuno sospettava nulla, né Massimo, sempre
assorbito dal suo lavoro, né mia suocera, che sembrava
vivere in un mondo tutto suo. I primi tre mesi sono
stati magnifici, un sogno proibito che mi faceva sentire
viva, desiderata, come se fossi tornata la ragazza di un
tempo, ma con un’audacia che non avevo mai conosciuto.
Sono stati mesi di sotterfugi, di bugie, di lingerie
sempre più provocante, di rossetto, di tacchi alti e di
corse clandestine verso la garçonnière. E ancora oggi
quando vado a cena dai miei suoceri, mi preparo come se
fosse un appuntamento con lui. Mi vesto come piace a
Gianni: gonne aderenti, camicette che lasciano
intravedere appena, tacchi che so che lo fanno
impazzire. Mi trucco con cura, abbondo con il rossetto
rosso fuoco, perché so che gli piace guardarmi le
labbra, immaginare come potrei dargli piacere in un
momento di distrazione. Ebbene sì durante quelle cene,
faccio fatica a trattenermi. Ogni gesto è una
provocazione: slaccio un bottone della camicetta,
accavallo le gambe lentamente, muovo le labbra in modo
malizioso, sperando che lui colga il messaggio, che mi
guardi e, magari sottovoce, mi dica quanto sono bella,
quanto mi desidera. Quelle parole, cariche di
trasgressione e intimità, sono diventate la mia droga.
Lo ammetto, sono persa di lui. Mi piace da impazzire
quando mi chiama la sua “puttana”, quando mi dice che
sono la donna che tutti desiderano ma che solo lui può
avere la chiave delle mie cosce, della mia figa. Le sue
parole volgari, che all’inizio mi scioccavano, ora mi
eccitano, le voglio, le bramo. Mi sono abituata a quel
linguaggio crudo, al modo in cui mi parla mentre
facciamo l’amore, al modo in cui mi ricorda che sono di
sua proprietà, che sono la nuora che ha trasformato in
una donna vogliosa, insaziabile. Anzi sono io a chiedere
di chiamarmi “mignotta”, perché so che lo fa impazzire,
che alimenta il suo desiderio di possedermi, di sapere
che mi ha cambiata, che mi ha fatta sua. E quando, nel
pieno della passione, mi ricorda che sto andando a letto
con mio suocero, che sono “più sporca di una prostituta
a pagamento”, io mi sciolgo. È proprio questo che mi fa
impazzire di lui: il modo in cui mi spoglia di ogni
pretesto, di ogni difesa, lasciandomi nuda, non solo nel
corpo, ma nella mente, nella mia essenza più cruda.
Ma ora, con questa gravidanza, tutto è cambiato.
Ogni volta che mi guardo allo specchio, vedo una donna
che non riconosco più. Una donna che ama, che desidera,
ma che sta distruggendo tutto ciò che ha costruito. Come
posso continuare così? Come posso sedermi a tavola con
Massimo, con i miei figli, con mia suocera, sapendo che
il bambino che porto in grembo non è di mio marito? La
tisana che stringo tra le mani è fredda, come il vuoto
che sento dentro. Sono intrappolata tra il desiderio che
mi consuma e il senso di colpa che mi divora. E non so
come uscirne.
Però dopo i primi tre mesi qualcosa
in Gianni è cambiato. Non è più solo l’uomo che mi
travolgeva con la sua passione sfrenata, quello che mi
faceva sentire come se fossi l’unica donna al mondo. È
diventato più razionale, più accorto, come se il peso
dei nostri incontri, della nostra relazione segreta, lo
avesse costretto a misurare ogni passo. Eppure,
nell’intimità, è rimasto lo stesso: focoso, passionale,
capace di farmi perdere la testa con un solo sguardo, un
solo tocco. Mi giura continuamente che sono un “regalo
inaspettato”, il suo “giocattolo preferito”, parole che
mi fanno sciogliere e al tempo stesso mi feriscono,
perché so che non sono l’unica. Nonostante tutto quello
che mi dà, nonostante il modo in cui mi fa sentire
desiderata, non ha mai messo da parte il suo “vizietto”.
Come mia suocera, che per anni ha chiuso un occhio
sulle sue scappatelle, anch’io ho imparato ad accettare.
O almeno, ci provo. Ogni volta che penso a lui con
un’altra, con le sue allieve giovani al tennis, la
gelosia mi stringe lo stomaco, un nodo che non riesco a
sciogliere. Ma poi mi ricordo di quello che mi dà, di
come mi fa sentire quando siamo insieme, e il confronto
con la fedeltà di Massimo, così stabile, così
prevedibile, mi sembra quasi insignificante. È terribile
ammetterlo, ma ciò che Gianni mi offre è di gran lunga
superiore: una passione che brucia, un’intensità che mi
fa dimenticare chi sono, una trasgressione che mi rende
libera, anche se solo per pochi istanti rubati.
Vorrei che fosse solo mio. Lo vorrei con ogni fibra del
mio essere, ma so che non lo sarà mai. L’ho sempre
saputo, in fondo, ma accettarlo è un’altra cosa. Una
volta, spinta da un impulso che non riuscivo a
spiegarmi, l’ho seguito fino al circolo di tennis. Non
so cosa sperassi di trovare, forse una conferma, forse
una scusa per odiarlo. L’ho visto, con quella sua aria
disinvolta, chiacchierare con una delle sue allieve, una
ragazza poco più che ventenne, con i capelli biondi e
una gonnellina bianca a pieghe che sembrava gridare
ingenuità e desiderio. Li ho visti allontanarsi insieme,
entrare nella garçonnière, quella che stupidamente
pensavo fosse solo nostra, il nostro rifugio segreto. Mi
ero illusa che l’avesse affittata per me, per noi, ma in
quel momento ho capito che ero solo una delle tante, un
altro trofeo nella sua collezione.
Sono rimasta
lì, nascosta dietro la mia macchina, con la rabbia che
mi bruciava dentro. Pensavo a quella ragazzina, a come
offriva il suo sesso giovane, e pensavo a lui che le
diceva le stesse parole volgari, ficcanti, ma
tremendamente erotiche. Eppure, non sono riuscita a
odiarlo. Perché ogni volta che torno da lui, ogni volta
che mi sfiora, che mi sussurra parole crude e dolci allo
stesso tempo, io mi perdo di nuovo. Mi perdo nel modo in
cui mi guarda, nel modo in cui mi sfiora e mi fa sentire
necessaria. Mi perdo nella sua passione, nel suo modo di
prendermi senza chiedermi il permesso, come se fossi sua
e solo sua, anche se so che non è vero.
Ma ora il
peso delle bugie, delle cene in cui fingo di essere la
nuora perfetta mentre sogno di sfiorare la sua mano
sotto il tavolo, è diventato insostenibile. Ogni volta
che mi trucco per lui, che scelgo un vestito o un paio
di autoreggenti nere che so che lo farà impazzire, che
gioco con i bottoni della camicetta o accavallo le gambe
per attirare il suo sguardo, mi sento sempre più lontana
da me stessa. E ora, questo bambino che porto in grembo
è un promemoria costante di ciò che ho fatto, di ciò che
sono diventata. Non ce la faccio più a mentire, a
nascondermi, a vivere questa doppia vita. Ma come posso
smettere? Come posso rinunciare a lui, a questa passione
che mi consuma, anche se so che mi sta distruggendo?
Guardo fuori dalla finestra, verso l’orto, verso il
ruscello che separa la nostra casa dalla loro, e mi
chiedo come sia possibile che una vita così perfetta,
così invidiabile, sia diventata un groviglio di segreti,
bugie e desideri. Vorrei tornare indietro, a quella
mattina di giugno, e dire di no. Ma poi penso a lui, a
come mi fa sentire, e una parte di me sa che non
cambierei nulla. Anche se mi sta costando tutto.
Sono in un vicolo cieco. Sono incinta, cavolo, e questo
cambia tutto. Il segreto che porto dentro di me, questo
bambino che crescerà nel mio grembo, è come una bomba a
orologeria che ticchetta in sottofondo, pronta a far
esplodere la mia vita. Ogni volta che chiudo gli occhi,
vedo solo lui, Gianni, con il suo sorriso, il suo tocco,
la sua voce che mi chiama “puttana” e “giocattolo” con
quel misto di desiderio e possesso che mi fa impazzire.
Ma ora, più di prima, vorrei che tutto questo uscisse
alla luce del giorno. Vorrei urlare al mondo che lo amo,
che sono sua, che non mi importa di nient’altro. Vorrei
avere voce in capitolo, ribellarmi ai suoi tradimenti,
pretendere che sia solo mio. Ma so che è un sogno
impossibile.
Nei miei momenti di follia, nei miei
voli pindarici, immagino che Massimo scopra tutto.
Immagino mia suocera, con il suo sguardo tagliente, che
capisce finalmente chi sono diventata la donna di suo
marito, invece di giudicarmi, mi lascia libera di
amarlo. È una fantasia assurda, lo so. A volte penso
addirittura che, se ci vedessero mentre facciamo
l’amore, tutto sarebbe più semplice. Non ci sarebbe
bisogno di parole, di spiegazioni, di bugie. La verità
nuda e cruda, i nostri corpi intrecciati, direbbe tutto.
So che è una pazzia, ma non ne posso più di vivere
nascosta, di rubare momenti con lui, di sentirmi come un
ladro che si intrufola nella vita di un altro.
E
non mi basterebbe nemmeno che Massimo mi lasciasse. Non
è solo una questione di liberarmi dal mio matrimonio,
dal senso di colpa che mi stritola ogni volta che lo
guardo negli occhi. Voglio stare con Gianni, voglio lui,
tutto di lui, ogni giorno, ogni istante. Ho provato a
parlargliene, a dirgli che non sopporto più questa vita
di segreti, che vorrei smettere di nascondermi, ma lui è
stato categorico. “Non dire una parola, Clara.” Mi ha
detto, con quel tono che non ammette repliche. “Non fare
cazzate! Se lo fai, tra noi è finita. Per sempre.”
Quelle parole mi hanno spezzata. Non concepisco una vita
senza di lui, senza le sue attenzioni, senza il modo in
cui mi fa sentire viva. Sono diventata schiava di questo
amore, di questa passione che mi consuma. Ogni cellula
del mio corpo lo desidera, lo cerca, lo reclama, ma lui
mi tiene a distanza, mi dice che devo accontentarmi. “In
fin dei conti, ti do quello che desideri.” Ripete, come
se il suo amore, il suo tempo rubato, fosse abbastanza.
Non lo è. Non più. Non con questo bambino che porto
in grembo, che rende tutto reale, irreversibile. Nella
mia infinita pazzia, ho pensato anche di scrivere due
lettere anonime, una a Massimo, una a mia suocera. Ho
immaginato di confessare tutto, di lasciare che la
verità esploda come una tempesta, distruggendo ogni
cosa. Ma poi penso a Gianni, al suo ultimatum, e il
terrore di perderlo mi paralizza. Se scoprisse che sono
stata io, che ho tradito il nostro patto di silenzio, so
che non mi perdonerebbe mai. E io non potrei vivere
senza di lui. Non ora, non dopo tutto quello che abbiamo
condiviso, dopo il modo in cui mi ha cambiata,
trasformata in una donna che non riconosco più, ma che
non può fare a meno di lui.
Vorrei trovare il
coraggio di fare qualcosa, di scegliere, di liberarmi da
questo peso. Ma ogni volta che penso a un futuro senza
Gianni, il mio cuore si ferma. Sono intrappolata, e la
gravidanza non fa che stringere ancora di più le catene.
Non so come uscirne, e una parte di me si chiede se
voglio davvero uscirne. Forse sono davvero pazza, come
dico a me stessa. O forse, sono solo una donna che ama
troppo, e che sta pagando il prezzo di questo amore.
Ripeto a me stessa, come un mantra, che Massimo non
sospetta nulla e non avrebbe mai sospettato nulla. Ma
ora, con questo bambino in arrivo, tutto è cambiato.
Questo figlio che porto in grembo è una realtà che non
posso ignorare, un peso che mi inchioda a terra, e so
con assoluta certezza che è di Gianni. Non c’è
possibilità di errore perché con Massimo non faccio
l’amore da mesi. So anche che se dicessi a Gianni della
gravidanza, lui non esiterebbe. Mi direbbe di abortire,
senza mezzi termini, perché per lui questo bambino
sarebbe solo un impiccio, una complicazione che potrebbe
distruggere il suo mondo di libertà, di conquiste, di
segreti, di giovani allieve del tennis. Ho la certezza
che, per evitare fastidi, troncherebbe la nostra
relazione senza guardarsi indietro. L’ho visto nei suoi
occhi, l’ho sentito nel modo in cui mi tiene a distanza
quando parlo di un futuro insieme, di qualcosa di più
del nostro nido segreto nella garçonnière. Per lui, sono
il suo “giocattolo preferito”, ma solo finché non
divento un problema. E un figlio, lo so, sarebbe il
problema più grande di tutti.
Quindi, per
rimanere con lui, non ho altra scelta. Devo tacere. Devo
portare questo segreto dentro di me, chiuso a chiave,
come una prigione che mi sono costruita da sola. Ho
deciso, una di queste sere, fingerò, metterò in scena la
più tragica delle finzioni: farò l’amore con Massimo.
Non per desiderio, non per amore, ma per un calcolo
freddo, per costruirmi un alibi, per dare a questo
bambino un padre che non sia mio suocero. Sarà una bugia
terribile, un tradimento ancora più grande di quelli che
ho già commesso, ma è l’unico modo per proteggere ciò
che ho con Gianni, per non perderlo. Porterò questo
segreto in silenzio, giorno dopo giorno, finché la
gravidanza non sarà evidente. E solo allora, quando non
ci sarà più modo di nasconderla e le settimane passate
complicheranno ogni calcolo, annuncerò la “buona
notizia” a Massimo, senza aggiungere altro. Sarà ovvio,
almeno per lui, che sarà il padre. Nessuno dovrà mai
sapere la verità!
Mi guardo allo specchio e vedo
una donna che non riconosco più: una donna che ama
troppo, che desidera troppo, che è disposta a mentire, a
ingannare, a sacrificare ogni briciolo di sé pur di non
perdere l’uomo che la fa sentire viva. Ma a che prezzo?
Ogni volta che immagino quella sera con Massimo, il mio
stomaco si contorce. Non è solo il senso di colpa verso
di lui, verso i nostri figli, verso la vita che abbiamo
costruito insieme. È il terrore che, anche con questo
alibi, il mio segreto possa venire a galla. E se Gianni
lo scoprisse? Se capisse che sto portando avanti una
gravidanza che non posso confessargli? E se, un giorno,
la verità emergesse, distruggendo tutto?
Guardo
fuori dalla finestra, verso l’orto, verso il ruscello
che scorre placido, e mi sembra che il mondo continui a
girare come se nulla fosse, mentre io sono intrappolata
in questa spirale di bugie e desiderio. Vorrei urlare,
confessare tutto, liberarmi da questo peso, ma so che
non posso. Non posso rischiare di perdere Gianni, non
posso immaginare una vita senza di lui. Anche se
significa mentire, fingere, tradire. Anche se significa
diventare una versione di me stessa che non sopporto
più.
Penso a mia suocera e alla sua contentezza
quando saprà che le donerò un altro nipotino, penso a
mio suocero che mai saprà di avere un altro figlio,
penso ai miei due figli che giocheranno con il loro zio,
penso a mio marito che sarà felicissimo di essere padre
ignorando invece che è semplicemente suo fratello.
Insomma penso a quanti casini dovrò affrontare, ma per
la felicità di tutti e soprattutto perché mio suocero
continui a darmi le stesse attenzioni, amandomi a suo
modo, non ho davvero altra scelta.
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Questo racconto è opera di pura
fantasia. Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e qualsiasi
somiglianza con fatti, scenari e persone è del
tutto casuale.
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