HOME   CERCA   CONTATTI   COOKIE POLICY
 
 
Adamo Bencivenga
UN PESO SUL CUORE
Sono seduta in salotto e guardo fuori dalla finestra. Il risultato delle analisi mi rimbomba nella testa come un martello: INCINTA! Non riesco a respirare bene, l’aria sembra densa, come se il mondo intero mi stesse soffocando. So chi è il padre. Lo so fin troppo bene, e questa certezza mi stritola il cuore



 

Sono seduta in salotto e guardo fuori dalla finestra. Il risultato delle analisi mi rimbomba nella testa come un martello: INCINTA! Non riesco a respirare bene, l’aria sembra densa, come se il mondo intero mi stesse soffocando. So chi è il padre. Lo so fin troppo bene, e questa certezza mi stritola il cuore. È mio suocero! Non c’è scampo, non c’è via d’uscita che non mi faccia sentire una persona orribile.

Mi guardo intorno, questa casa che dovrebbe essere il mio rifugio ora sembra solo una prigione di segreti. Il silenzio è assordante, rotto solo dal ticchettio dell’orologio in cucina. Mio marito è al lavoro, ignaro di tutto, e io sono qui, a combattere con i miei demoni. Vorrei piangere, urlare, sfogarmi, ma non posso. Non voglio. Devo tenere tutto dentro, come sempre. E scrivo, scrivo perché sento che se non metto nero su bianco questi pensieri, impazzirò. La penna trema nella mia mano, e ogni parola che scrivo sembra un’accusa contro me stessa.

È iniziato tutto sei mesi fa. Non so nemmeno come sia successo, o forse lo so fin troppo bene, ma non voglio ammetterlo. La prima volta è stato un momento di debolezza, un’occhiata troppo lunga, un sorriso che non avrebbe dovuto esserci. Mio suocero, con quel suo modo di fare così sicuro, così diverso da tutto ciò che conosco, mi ha fatto sentire viva in un modo che non provavo da tempo. Non giustifico quello che ho fatto, ma è come se una parte di me si fosse lasciata trascinare, senza pensare alle conseguenze. E ora, quelle conseguenze sono qui, scritte su un foglio di carta che non posso ignorare.

Oggi è successo di nuovo. Anche stamattina, mentre il resto del mondo andava avanti con la sua routine, io ero lì, a tradire tutto ciò che sono, tutto ciò che dovrei essere. Ogni volta mi dico che è l’ultima, che non succederà più, che troverò la forza di fermarmi. Ma poi lui mi guarda, mi parla, mi sfiora, e io crollo. È come una droga, un bisogno che non riesco a controllare. Lo amo, lo amo da impazzire, e questo mi fa sentire uno schifo. Come posso amare qualcuno che mi sta distruggendo? Come posso amare qualcuno che non dovrei nemmeno sfiorare?

La vergogna mi divora. Mi guardo allo specchio e vedo una cretina, una donna che ha perso il controllo della propria vita. Eppure, non riesco a smettere. Ogni volta che penso di confessare, di dire tutto a mio marito, di liberarmi da questo peso, qualcosa mi ferma. La paura, forse. Paura di perdere tutto: la mia famiglia, la mia dignità, la mia identità. E ora, con questa gravidanza, la paura è diventata terrore. Non posso dirlo a nessuno, mai. Neanche sotto tortura.

Stasera, forse, troverò un modo per coprire tutto. Potrei avvicinarmi a mio marito, fingere che tutto sia normale, fare l’amore con lui come se nulla fosse cambiato. Sarebbe il mio alibi, il mio segreto, una bugia per proteggere questa vita che sto portando dentro di me. Ma mentre ci penso, sento un nodo in gola. Come posso vivere così? Come posso guardare mio marito negli occhi, sapendo quello che ho fatto? E come posso guardare mio figlio, un giorno, sapendo che la sua esistenza è nata da un errore che non riesco a smettere di commettere?

È strano guardarmi indietro e pensare a come tutto sembrava perfetto. Sono sposata con Massimo da quasi quindici anni, e se chiudo gli occhi, riesco ancora a vedere il ragazzo che mi ha fatto perdere la testa a quel convegno di giovani medici, tanti anni fa. Io, chirurgo in erba, con la testa piena di sogni e bisturi, lui, odontoiatra con quel sorriso che sembrava promettere il mondo. “Cuore e dente”, ci scherzavamo sempre, due mondi apparentemente inconciliabili che, invece, si sono incastrati alla perfezione. Otto mesi dopo ci siamo sposati, travolti da un’intensità che non ti lascia scelta, che ti spinge a dire “sì” senza pensarci troppo. È stato come se il destino avesse deciso per noi.

Oggi, guardo la nostra vita e vedo tutto quello che abbiamo costruito: due figli meravigliosi, un cane che lascia peli ovunque, un gatto che mi fissa con aria di superiorità, una villetta alle porte di Roma che è il nostro angolo di paradiso. Accanto a noi, la casa dei miei suoceri, immersa in un verde che sa di pace. Tra le due case scorre un ruscello, un filo d’acqua che sembra sussurrare segreti, e accanto c’è l’orto che mio suocero cura con una dedizione che ha sempre qualcosa di poetico. Ogni pomodoro, ogni zucchina, ogni foglia di basilico sembra portare il suo amore per la terra. È un uomo che mette il cuore in tutto quello che fa, e forse è stato proprio questo a fregarmi.

Massimo è sempre stato il marito perfetto. Non c’è stato un giorno in cui non mi abbia fatto sentire amata, importante, desiderata. Mi ha riempita di attenzioni, di piccoli gesti che scaldano il cuore: una tazza di caffè portata a letto la mattina, un biglietto lasciato sul frigo, un abbraccio nei momenti in cui il mondo sembrava crollarmi addosso. Posso dirlo con certezza: sono stata una donna felice. Eppure, qualcosa è cambiato. Non so nemmeno dire quando sia successo, ma è come se la vita, piano piano, ci abbia trascinati su binari paralleli. Lui sempre più assorbito dal suo studio, io persa tra i turni in ospedale, le operazioni, le notti insonni. La nostra vita affettiva, quella scintilla che ci faceva ridere e litigare con la stessa passione, si è ridotta a una routine fatta di doveri: educare i figli, organizzare cene con amici, pianificare una vacanza estiva che sembra più un obbligo che un desiderio.

Non ho nulla da rimproverare a Massimo. È un padre fantastico, un marito che chiunque invidierebbe. E forse è proprio questo che mi fa impazzire. Non c’è una crepa evidente, un errore, una mancanza che possa giustificare quello che ho fatto, quello che sto facendo. Non posso puntare il dito contro di lui, non posso dire “è colpa tua”. Perché è colpa mia, solo mia, e questo pensiero mi strazia l’anima. Come ho potuto tradire tutto questo? Come ho potuto lasciare che mio suocero, quell’uomo che dovrebbe essere solo una figura paterna, entrasse nella mia vita in un modo così sbagliato, così devastante?

Ogni volta che passo accanto al suo orto, che lo vedo chinato a strappare erbacce o a raccogliere un pomodoro maturo, sento una fitta al petto. È iniziato tutto con un gesto innocente, una conversazione troppo lunga, un complimento che mi ha fatto arrossire. Non so come sia successo, ma sei mesi fa qualcosa si è rotto dentro di me, e da allora non riesco a fermarmi. È come se fossi intrappolata in una versione di me stessa che non riconosco, una donna che si odia ma che non riesce a smettere di desiderare. E ora, con questo figlio che porto in grembo, il peso è diventato insostenibile. Non è solo il segreto, non è solo la vergogna. È la consapevolezza che sto tradendo non solo Massimo, ma anche i nostri figli, la nostra casa, il nostro ruscello, il nostro orto. Sto tradendo tutto ciò che rendeva la mia vita perfetta.

Eppure, una parte di me continua a giustificarsi. Mi dico che non potevo scegliere di meglio, che la mia vita con Massimo è tutto ciò che una donna potrebbe desiderare. Ma allora perché? Perché ho permesso che accadesse? Perché, ogni volta che mio suocero mi guarda, sento il cuore battere come quella prima volta al convegno con Massimo? E perché, nonostante il terrore e il senso di colpa, una parte di me non vuole che finisca?


Il bollitore comincia a fischiare, un suono acuto che mi strappa dai miei pensieri. Verso l’acqua nella mia tazza preferita per una tisana, sperando che qualcosa di caldo, di semplice, possa calmare il caos che mi si agita dentro. Mi serve chiarezza, un momento di pausa per rispondere alla domanda che mi martella da ore, da giorni, da mesi: Perché non sono mai riuscita a dirgli di no? E perché ora mi è capitata questa disgrazia? La risposta sembra così vicina, eppure scivola via ogni volta che cerco di afferrarla. È come se il mio cuore e la mia mente fossero in guerra, e nessuno dei due vuole cedere.

Parlo di lui, di mio suocero. Sergio. Un uomo di 63 anni che sembra sfidare il tempo. Perennemente abbronzato, con quel fascino che non si spiega solo con l’aspetto fisico, anche se il suo è di tutto rispetto. È alto, slanciato, con i muscoli ancora definiti da anni di sport. Insegna tennis, e lo fa con una passione che ti cattura, con quel modo di muoversi sul campo che sembra una danza. È sempre stato così, attivo, pieno di energia, con un sorriso che ti disarma e ti fa sentire l’unica persona al mondo. Ma c’è di più. C’è quella storia, quel passato che mia suocera lascia trapelare solo a mezze frasi, con un misto di amarezza e rassegnazione. Sergio è stato un tombeur de femmes, un seduttore incallito, uno di quegli uomini che non si accontentano mai, che cercano sempre qualcosa di più, che fanno di una donna la loro ragione di vita. Lei lo ha sempre saputo, e più di una volta sono stati a un passo dal lasciarsi. “Il suo vizietto,” lo chiama mia suocera, con un sorriso tirato che nasconde anni di ferite.

Eppure, con me, non è mai stato solo “il vizietto”. O almeno, è quello che mi dico per giustificarmi. È iniziato tutto in modo innocente, o almeno così mi piace raccontarmelo. Un pomeriggio, nell’orto, mentre mi spiegava come piantare i pomodori, le sue mani hanno sfiorato le mie. È stato un gesto banale, ma il modo in cui mi ha guardata mi ha fatto tremare. C’era qualcosa nei suoi occhi, una scintilla che non avevo più visto in Massimo da troppo tempo. Non era solo desiderio, era attenzione, era come se mi vedesse davvero, non solo come la nuora, la madre dei suoi nipoti, la moglie di suo figlio. Mi vedeva come una donna!

Da quel momento, è stato come cadere in una spirale. Ogni incontro, ogni conversazione, ogni risata condivisa nell’orto o durante una cena di famiglia mi ha trascinata più a fondo. Non volevo, o forse sì. Non lo so. Ogni volta che mi dicevo “basta, non succederà più”, lui trovava il modo di riavvicinarsi: un messaggio, un’occhiata, un invito a giocare una partita a tennis. E io, come una stupida, ci cascavo. Ogni. Singola. Volta. Non riesco a dirgli di no. È come se la mia volontà si sciogliesse davanti a lui, come se il suo fascino, la sua sicurezza, la sua energia fossero una droga di cui non posso fare a meno.

Ma ora, con questo figlio che porto in grembo, tutto è cambiato. La gravidanza non è solo una “disgrazia”. È un segnale, un punto di non ritorno. Mi costringe a guardarmi in faccia, a chiedermi chi sono diventata. Non è solo la paura che Massimo lo scopra, o che mia suocera, con il suo intuito affilato, capisca qualcosa. È la paura di me stessa di quella che sono diventata!

Mentre verso l’acqua bollente sulla bustina di camomilla, il vapore mi scalda il viso, ma non scioglie il nodo che mi stringe lo stomaco. La tazza è calda tra le mie mani, ma non abbastanza da scacciare il freddo che sento dentro. Devo trovare una risposta. Devo trovare un modo per uscire da questo incubo, ma ogni soluzione sembra portare con sé un prezzo che non so se sono pronta a pagare. Confessare? Mentire? Continuare a nascondermi? Ogni strada è un vicolo cieco, e io sono stanca di correre.

La prima volta che è successo, ricordo ogni dettaglio come se fosse ieri. Era una mattina di fine giugno, circa sei mesi fa. Mi ero svegliata con una serenità che non provavo da tempo, come se il mondo, per una volta, avesse deciso di essere gentile con me. Era il mio giorno di riposo, una pausa rara tra i turni massacranti in ospedale, e avevo deciso di godermelo. Ho infilato un paio di scarpe comode da tennis e sono uscita per una passeggiata nel quartiere, lasciando che il sole tiepido e l’aria profumata di gelsomino mi accarezzassero il viso. Le strade erano tranquille, i negozi stavano appena aprendo, e io mi sentivo leggera, quasi come la ragazza di un tempo, quella che sognava di salvare vite e innamorarsi follemente.

Tutto procedeva normalmente, come una di quelle giornate che non lasciano tracce particolari nella memoria. Al ritorno, però, mi sono ricordata di una commissione: dovevo passare in farmacia a prendere uno sciroppo per la tosse per i bambini. Ho preso l’auto, senza fretta, canticchiando una canzone che passava alla radio. Poi, lungo il viale che porta al circolo di tennis, l’ho visto. Gianni, mio suocero, camminava sul marciapiede con la sua inseparabile racchetta in mano, il borsone a tracolla, il passo deciso di chi sa sempre dove sta andando. Stranamente, era a piedi. Di solito lo vedevo sfrecciare sulla sua vecchia spider rossa, con quel suo stile che sembrava uscito da un film degli anni Settanta.

Per pura cortesia, lo giuro, ho rallentato e ho abbassato il finestrino. “Gianni, tutto bene? Come mai a piedi?” Gli ho chiesto, con un sorriso che voleva essere solo amichevole. Lui si è fermato, mi ha guardata con quegli occhi che sembrano sempre vedere oltre, e ha sfoderato uno dei suoi soliti complimenti. “Sai, cara, il sole di oggi ti fa brillare più del solito. Dovresti uscire più spesso così, sembri una dea.” Ho riso, un po’ imbarazzata, un po’ lusingata. Era il suo modo di fare, lo avevo sempre saputo. Fin da quando Massimo mi aveva presentata ai suoi, quando avevo poco più di ventiquattro anni, Gianni aveva questo modo di guardarmi, di parlarmi, di farmi sentire speciale. Non era mai stato volgare, mai fuori luogo, ma c’era sempre stato quel non so che nei suoi occhi, un’attenzione che mi avvolgeva come un abbraccio.

A quei tempi, ero una ragazza giovane, appena laureata, con il cuore pieno di sogni e un vuoto che non avevo mai confessato a nessuno. Non avevo conosciuto mio padre, ero cresciuta con mia madre e le mie sorelle, in una casa piena di amore ma anche di silenzi. Le attenzioni di Gianni, all’inizio, erano come un balsamo. Mi faceva piacere sentirmi notata, apprezzata, quasi come se colmasse un’assenza che non volevo ammettere. Certo, forse il mio atteggiamento non aiutava. Sorridevo, rispondevo ai suoi complimenti con battute leggere, lasciavo che quel gioco innocuo continuasse. Non ci vedevo nulla di male. Era solo il suo modo di essere. Un uomo affascinante, un po’ vanitoso, che amava scherzare e far sentire le donne desiderate. Non avevo mai pensato che potesse diventare qualcos’altro.

Quel giorno di giugno, però, qualcosa è cambiato. Dopo il suo complimento, mi ha chiesto un passaggio al circolo. “La macchina è dal meccanico, e non mi va di chiamare un taxi. Mi fai questo favore, nuora preferita?” Ha detto “nuora preferita” con quel tono scherzoso che usava sempre, ma c’era qualcosa di diverso nella sua voce, un calore che mi ha fatto esitare per un istante.
Ero comunque guardinga. Pensavo: “Sta cercando l’occasione, lo so!” E allora l’auto in panne mi è sembrata una scusa, una di quelle mosse studiate che un uomo come lui, con il suo passato da seduttore, poteva aver orchestrato. Ma poi mi sono detta: Clara, calmati. Il circolo di tennis è a meno di un chilometro. Cosa vuoi che succeda in due minuti di macchina? Così, con un misto di curiosità e cautela, ho abbassato il finestrino e gli ho detto di salire. Appena si è seduto, l’aria nell’abitacolo è cambiata. Non so se fosse il suo profumo, quel misto di colonia fresca e di qualcosa che sa di terra e sudore, o se fosse il modo in cui occupava lo spazio, con quella sicurezza che ti fa sentire piccola e importante allo stesso tempo. Non ha perso tempo. “Clara, questo vestitino estivo ti sta d’incanto.” Ha detto. “E con i capelli raccolti sembri una di quelle attrici degli anni Sessanta. Dovresti portarli così più spesso.” Io ho sorriso, un po’ per abitudine, un po’ perché i suoi complimenti, per quanto scontati, mi facevano sempre sentire vista. Ma dentro di me, il cuore batteva forte. Pensavo: E se allunga la mano? Cosa faccio? Lo respingo? Lo lascio fare? Ero tesa, e lui l’ha notato subito.

“Clara, stai tranquilla, non ti mangio mica…” Ha detto, ridendo piano, con quel tono da gentiluomo che sa come disarmarti. Mi ha spiazzata. Per un attimo, mi sono sentita ridicola per aver pensato male di lui. Forse era davvero solo un passaggio, forse stavo esagerando. Così ho cercato di rilassarmi, di rispondere come se nulla fosse. Mi ha chiesto se fossi sola, come mai non fossi in ospedale. “È il mio giorno di riposo.” Ho risposto, con un sorriso che speravo sembrasse naturale. “Volevo godermi un po’ di calma e stare solo con me stessa.” Lui ha annuito, e la conversazione è scivolata sul più e sul meno: il tempo, il tennis, i pomodori che stava coltivando nell’orto. Cose banali, innocue. Eppure, c’era qualcosa nel modo in cui parlava, nel modo in cui ogni tanto girava la testa per guardarmi, che mi faceva sentire come se stessi camminando su una corda sospesa.

In meno di due minuti, eravamo al circolo. Ho parcheggiato davanti all’ingresso, e lui ha aperto la portiera, pronto a scendere. “Grazie, Clara. Sei un tesoro.” Ha detto, con un sorriso che sembrava sincero. Io ho ricambiato il sorriso, ma dentro di me mi stavo dando della stupida. “Vedi? Non è successo nulla. Ti sei fatta mille paranoie per niente.” Mi ripetevo. Lui è sceso, ha chiuso la portiera, e io ho tirato un sospiro di sollievo. Ma poi, invece di andarsene, si è chinato verso il finestrino. “Sai, un caffè non ci starebbe male. Che dici, hai cinque minuti per un vecchio come me?” Il suo tono era leggero, scherzoso, ma c’era una sfumatura che mi ha fatto esitare. Ho guardato l’orologio, come se davvero stessi calcolando il tempo, ma in realtà stavo cercando una scusa per dire di no. Non l’ho trovata. “Va bene, cinque minuti.” Ho detto, spegnendo il motore. Non so perché ho accettato. Forse perché mi sentivo in colpa per aver dubitato di lui, forse perché una parte di me voleva prolungare quel momento, quella sensazione di essere al centro della sua attenzione. Siamo entrati nel circolo, e mentre ordinavamo il caffè al bar, mi sono accorta che la tensione di prima non era sparita. Abbiamo chiacchierato, riso, e poi lui mi ha invitata a fare due passi verso i campi. “Solo per mostrarti dove passo le mie giornate.” Ha detto. E io l’ho seguito, come se fossi in trance, come se una parte di me sapesse già cosa stava per succedere, ma non volesse ammetterlo.

E ora, mentre la tisana si raffredda tra le mie mani, ripenso a quel passaggio in macchina, a quel “stai tranquilla” che mi aveva fatto abbassare la guardia, e mi chiedo come sia possibile che un momento così breve abbia cambiato tutto. Infatti, tornata a casa la mia testa era ancora lì, incastrata in quel breve passaggio in macchina con Gianni. Ogni parola, ogni sguardo, ogni intonazione della sua voce mi girava nella mente come un disco rotto. Mi sentivo accaldata, non solo per il sole che batteva forte, ma per qualcosa che non riuscivo a definire. Ero sudata, con il cuore che ancora batteva un po’ troppo veloce, così ho deciso di farmi una doccia, sperando che l’acqua fresca potesse lavare via quella strana inquietudine. Sotto il getto, però, non riuscivo a smettere di pensare a lui. Al suo sguardo penetrante, che aveva un modo di scavarmi dentro, di farmi sentire vista in un modo che Massimo, con tutto il suo amore, non aveva mai saputo fare. C’era qualcosa in Gianni, qualcosa di indefinito, di magnetico, di pericolosamente intrigante, che suo figlio non aveva mai posseduto. E questo pensiero, lo ammetto, mi spaventava e mi eccitava allo stesso tempo.

Dopo la doccia, avvolta in un accappatoio morbido, mi sentivo un po’ più calma, ma non abbastanza da scacciare del tutto quella sensazione. Ho deciso di prepararmi un’insalata di pomodori, qualcosa di semplice per ancorarmi alla normalità, per ricordarmi chi ero: Clara, la moglie di Massimo, la madre di due figli, la chirurga. Ma quando ho aperto il frigo, mi sono accorta che mancavano i due ingredienti essenziali: pomodori e basilico. “Perfetto.” Ho borbottato tra me, pensando che l’orto di Gianni, a pochi passi da casa, fosse la soluzione più veloce. Senza pensarci troppo, ancora in accappatoio, con i capelli umidi che gocciolavano sulla schiena, sono uscita di casa, attraversando il piccolo sentiero che separa la nostra villetta dalla loro.

Il sole era alto, il ruscello gorgogliava piano, e l’aria profumava di erba tagliata. Mi sono avvicinata all’orto, cercando con lo sguardo le piante di pomodoro, quando un movimento tra le zucchine mi ha fatto sobbalzare. Il cuore mi è schizzato in gola. Lì, in mezzo alle piante, c’era Gianni, accovacciato, intento a strappare erbacce con la stessa cura che metteva in tutto. Non era al circolo di tennis, come avevo dato per scontato. Era lì, a pochi metri da me, con la camicia aperta sul petto e le maniche arrotolate, le mani sporche di terra. Mi ha preso letteralmente un colpo. Come aveva fatto a tornare così in fretta? E perché non mi aveva detto che sarebbe stato lì?

Quando mi ha visto, si è alzato lentamente, pulendosi le mani sui jeans. Non sembrava per nulla sorpreso, né si è giustificato per essere lì invece che al circolo. Mi ha guardata, con quel suo sorriso che era un misto di sicurezza e malizia, e ha detto: “Sai, Clara, le piante sono come le donne: hanno sempre bisogno di cure e attenzioni.” Il suo sguardo è scivolato sul mio accappatoio, fermandosi sul décolleté in un modo così sfacciato che mi sono sentita nuda come se quel sottile strato di tessuto non esistesse. Ha aggiunto, a mezza voce, quasi tra i denti: “Se non fossi mia nuora…”

Le sue parole mi hanno colpita come un fulmine. Non ho risposto, non ci sono riuscita. Ero paralizzata, con il cuore che batteva così forte che temevo lo sentisse. Una parte di me voleva girarsi e scappare in casa, chiudermi dentro, fingere che quel momento non fosse mai successo. Ma un’altra parte, quella che mi faceva paura, voleva restare lì, voleva sapere cosa sarebbe successo se avessi lasciato che quelle parole, quel “se”, prendessero forma. Ho abbassato lo sguardo, stringendo l’accappatoio contro il petto e ho mormorato qualcosa di incoerente sui pomodori. Lui ha riso piano, come se sapesse esattamente cosa mi passava per la testa, e mi ha indicato le piante con un gesto disinvolto. “Prendi quello che ti serve, Clara. L’orto è anche tuo.”
Ho raccolto un paio di pomodori e qualche foglia di basilico in fretta, con le mani che tremavano, e sono tornata a casa senza guardarmi indietro. Ma quelle parole, quel “se non fossi mia nuora”, si sono infilate nella mia testa come un tarlo. E ora, mentre sorseggio la mia tisana ormai fredda, ripenso a quel momento nell’orto, a come tutto sia iniziato a sfuggirmi di mano. È stato quel giorno, quel “se”, a cambiare tutto. È stato quel giorno che ho capito che non sarei mai riuscita a dirgli di no.

Sapevo chi era lui, conoscevo i suoi trascorsi. Le storie che mia suocera lasciava trapelare, i pettegolezzi sussurrati tra le sue amiche, il modo in cui le donne al circolo di tennis lo guardavano: Gianni era un uomo che non si fermava davanti a niente, nemmeno al grado di parentela. Per lui, quel “se” era solo una formalità, un ostacolo che non gli importava di scavalcare. Eppure, invece di girarmi e andarmene, ho rilanciato. Non so perché. Forse per stemperare l’imbarazzo, forse per curiosità, forse per quella parte di me che voleva vedere fin dove si sarebbe spinto. “E tu, come mai non sei al campo da tennis?” Gli ho chiesto, con un sorriso che speravo sembrasse disinvolto.

La sua risposta è arrivata senza esitazione, come se l’avesse preparata. “Il mio compagno ha dato forfait all’ultimo minuto, così ho pensato di tornare a casa e dedicarmi all’orto.” Ha scrollato le spalle, con quel suo fare da uomo che non deve mai giustificarsi. Ma c’era qualcosa nel suo tono, un’ombra di malizia che mi ha fatto dubitare. Senza pensarci, con un coraggio che non sapevo di avere, ho sorriso e ho detto: “Non ci credo affatto, Gianni.” Le parole mi sono uscite di getto, leggere, come se stessi scherzando, ma dentro di me sentivo il terreno tremare.

Lui ha inclinato la testa, guardandomi con quegli occhi che sembravano scavarmi dentro. “Pensi bene, tesoro.” Ha detto, con un sorriso che era puro divertimento. “Secondo te, tra te e il mio compagno di tennis, che tra l’altro è brutto e pure uomo, chi potrei mai preferire?” La sua voce era bassa, carica di un’intenzione che non potevo ignorare. Non sapevo cosa rispondere. Il mio cervello cercava freneticamente qualcosa di intelligente, qualcosa che chiudesse quella conversazione e mi riportasse al sicuro, ma tutto quello che sono riuscita a dire è stato: “Ma io non so giocare a tennis.” Appena l’ho detto, mi sono data della cretina. Che risposta idiota! Gli avevo praticamente servito un assist su un piatto d’argento.

Gianni non ha perso l’occasione. Si è avvicinato di un passo, quel tanto che basta per farmi sentire il suo profumo, un misto di terra e colonia, e ha detto, con un tono che era un misto di scherzo e provocazione: “Sono sicuro che tu sai fare bene altro… e sicuramente sarebbe per me più piacevole.” Le sue parole mi hanno colpita come un pugno, ma non in senso negativo. Era come se ogni sillaba accendesse qualcosa dentro di me, qualcosa che non volevo ammettere di provare. Ho abbassato lo sguardo, stringendo i pomodori e le foglie di basilico contro il petto, come se potessero proteggermi da quello che stava succedendo.

Prima che potessi rispondere, lui ha cambiato tono, come se niente fosse. “Sai, Clara, credo che verrò a pranzo da te.” Ha detto, con un’aria compiaciuta. “Adoro l’insalata di pomodori, e mia moglie è andata a trovare una vecchia zia, quindi sono solo.” Ha fatto una pausa, poi ha aggiunto, con un sorriso che sembrava quasi innocente: “Non vorrai lasciare un povero pensionato a mangiare da solo, vero?” Ho riso, più per nervosismo che per altro, ma dentro di me una sirena d’allarme si era messa a suonare. Eravamo soli. Non era la prima volta, certo. Era capitato mille volte di ritrovarci da soli in casa, per un caffè, per una chiacchierata. Ma quella volta era diverso. Lo sentivo. C’era un’energia nell’aria, una tensione che non avevo mai percepito prima, o forse che avevo sempre ignorato.

Non ho detto di no. Non ci sono riuscita. Ho annuito, mormorando un “va bene” che mi è uscito a fatica, e sono tornata verso casa, con lui che mi seguiva a pochi passi. Mentre camminavo, con l’accappatoio che mi sembrava improvvisamente troppo corto, troppo sottile, non potevo fare a meno di pensare: Questa volta sarà diverso. Non so se fosse una paura o un desiderio. Forse entrambi. Ma una cosa era certa: quel pranzo non sarebbe stato solo un’insalata di pomodori.

Entrati in casa, sentivo ancora il peso delle sue parole nell’orto, quel “se non fossi mia nuora” che mi ronzava in testa come un’eco. Ero confusa e ho cercato di riprendere il controllo. “Vado a cambiarmi.” Ho detto d’istinto, come se indossare qualcosa di più appropriato potesse rimettere tutto al suo posto, ristabilire i confini che stavano diventando pericolosamente sfumati. Ma Gianni non mi ha lasciato nemmeno il tempo di allontanarmi. Mi ha preso la mano, con un gesto che era insieme gentile e deciso, e abbassando la voce, come se stesse condividendo un segreto solo nostro, ha sussurrato: “Ti prego, rimani in accappatoio e non scioglierti i capelli… Sei bellissima.”

Le sue parole mi hanno colpita come un’onda, lasciandomi senza fiato. C’era qualcosa nel suo tono, nella sua vicinanza, qualcosa di estremamente intimo, confidenziale e familiare che mi faceva sentire come se fossi sotto un incantesimo. Dopo la scena in macchina, dove mi ero data della cretina per aver pensato male di lui, per aver immaginato chissà quali intenzioni, mi sono sentita in dovere di dimostrargli che mi fidavo, che non ero quella paranoica che sospettava di ogni suo gesto. Così, contro ogni buonsenso, ho annuito, con un sorriso incerto, e ho deciso di restare in accappatoio. “Vado a preparare l’insalata.” Ho detto, cercando di riportare la situazione su un terreno più sicuro, più normale. Ma normale, con Gianni, non era mai un’opzione.

Lui mi ha seguita in cucina, con quella disinvoltura che lo rendeva così pericolosamente affascinante. Mentre affettavo i pomodori, con le mani che tremavano appena, ha iniziato un corteggiamento che definire asfissiante sarebbe riduttivo. Si è appoggiato al bancone, a pochi passi da me, e ha iniziato a parlare, con quella voce che sembrava accarezzarmi. “Sai, Clara, mio figlio è un brav’uomo, ma è sempre stato troppo preso dal lavoro. Non ti valorizza come donna, non come meriti.” Le sue parole erano taglienti, non tanto per il contenuto, ma per il modo in cui le diceva, come se stesse scavando in una verità che io non volevo affrontare. Non era la prima volta che sentivo Gianni parlare così di Massimo. Spesso, anche davanti a me, lo definiva un incapace, un buono a nulla, con un misto di disprezzo e delusione che mi aveva sempre messa a disagio. E, in fondo, non aveva tutti i torti: Massimo era dolce, affidabile, ma a volte sembrava vivere in un mondo tutto suo, fatto di pazienti e cartelle cliniche, lasciando poco spazio per noi, per me.

Eppure, sentirlo dire da Gianni, in quel momento, mi sembrava strano: “Perché parli così di tuo figlio?” Ho chiesto, posando il coltello e girandomi a guardarlo. “Massimo è un buon marito, un buon padre. Non è giusto che tu lo giudichi così.” La mia voce era più incerta di quanto volessi, ma non potevo lasciar passare quelle parole senza reagire.

Gianni non si è scomposto. Si è spostato, appoggiandosi alla porta della cucina con le mani conserte, il corpo rilassato ma il suo sguardo fisso su di me, come se stesse leggendo ogni mia minima reazione. “Sai, Clara, ti capisco.” Ha detto, con un tono che era un misto di complicità e provocazione. “Dopo tanti anni di matrimonio, è normale che le cose cambino. Quando ti ho conosciuta, eri diversa. Eri piena di vita, inavvicinabile, una donna che sembrava non avere bisogno di nessuno. Ma ora… ora lo vedo nei tuoi atteggiamenti, nella tua sensualità straripante. Ti piace essere desiderata, corteggiata. Anche se mi respingi, sento che ti manca qualcosa.”

Le sue parole mi hanno trafitto. Era come se avesse preso i miei pensieri più nascosti, quelli che non osavo nemmeno confessare a me stessa, e li avesse messi lì, sul tavolo della cucina, accanto ai pomodori e al basilico. Istintivamente, ho ribattuto: “Ma come fai a dire queste cose? Io sono una donna felice!” La mia voce era salita di tono, quasi a voler convincere me stessa oltre che lui. Ma dentro, sentivo una crepa aprirsi, una verità che non volevo guardare.

Gianni si è messo a ridere: “Clara, ho tanti anni più di te e sono avvezzo al fascino femminile. Con me non puoi mentire.” Ha detto, avanzando di un passo verso di me. “E, scusa se te lo dico, ma una donna sazia d’amore non accetterebbe mai delle avance, seppure innocue, da un uomo. E tanto meno da un suocero.” Ha enfatizzato quell’ultima parola, lasciandola sospesa nell’aria come una sfida. Non ho risposto. Non ci sono riuscita. Le sue parole erano come uno specchio che rifletteva una versione di me che non volevo vedere. Ero lì, in accappatoio, con i capelli ancora umidi, a preparare un’insalata che sembrava sempre più una scusa per non guardarlo negli occhi. Ma lui era lì, a pochi passi, e ogni fibra del mio corpo era consapevole della sua presenza.

“Da quanto tempo non scopi?” La domanda di Gianni è arrivata come un colpo, cruda, diretta, senza più filtri. Mi sono voltata di scatto, dandogli le spalle, concentrandomi sui pomodori che stavo sbucciando, come se affettare la buccia rossa potesse tenermi ancorata alla realtà, a ciò che ero: Clara, la moglie di Massimo, la madre, la chirurga. Non ho risposto. Non potevo. Ammettere che aveva ragione, che erano mesi che io e Massimo non facevamo l’amore, che la nostra intimità si era ridotta a gesti frettolosi e momenti rubati, sarebbe stato come dargli il permesso di andare avanti. E una parte di me, quella che più mi spaventava, voleva che andasse avanti, che mi chiedesse il motivo, che scavasse nella mia insoddisfazione di donna.

Il mio silenzio, però, è stato come un invito. Ho sentito il suo fiato caldo sul mio collo, un brivido che mi ha attraversata come una scarica elettrica. “Ma che fai? Sei matto?” Ho detto, cercando di divincolarmi, di mettere distanza tra noi. La mia voce era un misto di indignazione e paura, ma anche di qualcos’altro che non volevo nominare. Lui non si è mosso, non ha fatto un passo indietro. “No, non sono matto.” Ha risposto, con quella sicurezza che mi faceva quasi rabbia. “Sei tu che me lo stai chiedendo! E ci sta che mi allontani, perché sai benissimo che non mollo.” Le sue parole erano come una rete che si stringeva intorno a me, e la cosa peggiore era che aveva ragione. Lo sapevo. Sapevo che non si sarebbe fermato, e una parte di me non voleva che lo facesse.

Ho continuato a tagliare i pomodori, con le mani che tremavano, cercando di ignorare la sua presenza, ma era impossibile. Gianni era lì, a pochi centimetri da me, e ogni suo respiro sembrava amplificare il battito del mio cuore. Poi, senza preavviso, ho sentito le sue mani sui miei fianchi, una stretta decisa, che mi ha fatto trattenere il fiato. Il mio atteggiamento, lo sentivo, stava già cambiando. La rabbia, la paura, la volontà di resistergli si stavano sgretolando sotto il peso del suo tocco, della sua voce, di quella sicurezza che mi faceva sentire desiderata in un modo che avevo quasi dimenticato.

Gianni stava tessendo la sua ragnatela, e lo sapeva. Sapeva di essere a un passo dal suo “trofeo”, come se io fossi una preda che aveva inseguito per anni. Si è avvicinato ancora di più, il suo petto quasi contro la mia schiena, e ha sussurrato: “Toccherei il cielo con un dito se, anche per una sola volta, potessi fare l’amore con una donna magnifica come te. Ti desidero, sai, e ti sogno ogni notte!” La sua voce era carica di un’eccitazione che non nascondeva più, un desiderio che sembrava consumarlo. Ho sentito l’accappatoio scivolare lungo la mia schiena, la sua mano che esplorava, senza esitazione il mio seno e poi giù più giù, fino a svelare il mio segreto più intimo. “Oddio, sei già bagnata!” Ha detto, con un misto di trionfo e stupore. “Vedi che avevo ragione? Sei stupenda, Clara!”

In quell’istante, ho sentito il suo sesso eccitato premere contro il mio fianco, e non lo nego: mi faceva un piacere immenso essere desiderata così, da un uomo come lui. Un uomo che, come sapevo dai racconti e dalle mezze frasi di mia suocera, aveva avuto centinaia di donne, che conosceva il desiderio come pochi. Essere il centro del suo mondo, anche solo per un momento, mi faceva sentire viva, potente, desiderabile in un modo che avevo dimenticato. Ma allo stesso tempo, una voce dentro di me gridava che stavo sbagliando, che stavo tradendo tutto ciò che ero, tutto ciò che avevo costruito con Massimo, con i nostri figli, con la nostra vita.

Non ho detto nulla. Non ho avuto la forza di fermarlo, né di fermarmi. Il coltello è scivolato sul tagliere, i pomodori sono rimasti lì, dimenticati, e io mi sono lasciata andare, travolta da un’onda che non potevo più controllare. In quel momento, in quella cucina, con l’accappatoio che scivolava a terra e il suo respiro sul mio collo, ho capito che non sarei tornata indietro. Non quel giorno. E ora, mentre stringo la tazza di tisana fredda tra le mani, ripenso a quel momento, a come tutto sia iniziato, e il peso della gravidanza che porto in grembo mi schiaccia. Come ho potuto lasciare che accadesse? E come posso vivere con questo segreto, sapendo che ogni passo che faccio mi allontana dalla donna che credevo di essere?

Le sue parole mi hanno colpita come un fulmine. “Ti desidero come donna, sei la femmina che ogni maschio vorrebbe possedere, ma soprattutto ti voglio perché sei mia nuora.” Quelle ultime parole, pronunciate con una sicurezza che non ammetteva repliche, mi hanno fatto tremare. C’era qualcosa di oscuro, di proibito, in quel “perché sei mia nuora”, come se il taboo stesso fosse il carburante del suo desiderio. Ero paralizzata, incapace di muovermi, di pensare. L’unica cosa che sono riuscita a dire, con un filo di voce, è stata: “Ti prego, facciamo in fretta!” Non era una supplica per accelerare, non proprio. Era paura, desiderio, vergogna, tutto mescolato in un groviglio che non riuscivo a sciogliere.

Gianni ha sorriso, un sorriso che era insieme rassicurante e predatorio. “Tranquilla, tuo marito non saprà mai nulla.” Ha detto, con quella calma che mi faceva quasi rabbia, come se avesse già tutto sotto controllo e avesse previsto ogni mia reazione. Mi sono voltata, guardandolo fisso negli occhi, e ho sentito il bisogno di mettere un confine, almeno uno. “Anche tua moglie non deve sapere nulla! Promettimelo sui tuoi figli!” La mia voce era un misto di disperazione e determinazione. Lui non ha risposto, ma il suo silenzio, il modo in cui mi ha guardata, era una promessa implicita. Non c’era bisogno di parole. E così, è successo.

Mentre ci dirigevamo verso la camera da letto, il cuore mi batteva così forte che pensavo sarebbe esploso. “Facciamo in fretta…” Continuavo a ripetere, come un mantra, come se dire quelle parole potesse rendere tutto meno reale, meno grave. Ma Gianni era ormai su di giri, la sua eccitazione palpabile in ogni gesto, in ogni parola. “Tranquilla, ti scopo come vuoi e per il tempo che desideri.” Ha risposto, con una voce che vibrava di desiderio. Quelle parole, così crude, così dirette, mi hanno fatto arrossire, ma non mi hanno fermata. Non potevo più fermarmi.

In camera da letto, mi sono ritrovata distesa sul mio letto matrimoniale, il letto che condividevo con Massimo, il letto dove avevamo riso, litigato, fatto l’amore, concepito i nostri figli. E ora c’era lui, Gianni, sopra di me, con gli occhi che brillavano di una fame che mi spaventava e mi attirava allo stesso tempo. “Sei perfetta.” Continuava a ripetere, elogiando il mio corpo, ogni curva, ogni dettaglio, come se fossi un’opera d’arte che aveva sognato di possedere per anni. “Allarga il tuo paradiso umido.” Ha sussurrato, con una voce che era un misto di reverenza e urgenza. “Perché da qui a poco proverai qualcosa di sublime, qualcosa che ricorderai per sempre.” Si è spogliato mostrandosi in tutta la sua virilità e mi ha detto: “Non vergognarti! Guardalo! Ne hai bisogno vero?”

Certo che ne avevo bisogno… Aveva ragione. È stato a dir poco meraviglioso. Non so come descriverlo senza sentirmi in colpa, senza odiare me stessa per averlo desiderato, per aver ceduto. Nonostante l’età, Gianni era strepitoso. La sua passionalità, il suo impeto, erano qualcosa che non avevo mai sperimentato, nemmeno nei momenti più intensi con Massimo. Mi ha travolta, mi ha rivoltata più volte, portandomi all’orgasmo con una forza che mi lasciava senza fiato, senza parole. Ogni volta che lo pregavo di smettere, di darmi un momento per riprendere fiato, lui sorrideva, paziente, altruista, ma sempre deciso, sempre presente. Era rigido, instancabile, e ha raggiunto l’estasi solo dopo aver consumato ogni mia goccia di piacere, come se il suo unico scopo fosse stato quello di darmi tutto ciò che desideravo, tutto ciò che mi era mancato.

In quei momenti, sdraiata sotto di lui, con il suo peso che mi ancorava al letto, mi sono sentita viva come non lo ero da anni. Ringrazio Dio per aver ceduto, per aver provato qualcosa di così intenso, di così travolgente. Ma ora quel ricordo mi brucia. Perché quella passione, quella sensazione di essere desiderata, è diventata il mio segreto più pesante. Ogni orgasmo, ogni sussurro, ogni tocco di Gianni è un tradimento che porto dentro di me, e ora, con questa gravidanza, quel tradimento ha un peso che non posso più ignorare. Come posso vivere sapendo che il figlio che porto in grembo è il frutto di quel momento, di quella follia? Come posso guardare Massimo, i miei figli, senza che questo segreto mi distrugga?

Dopo l’amore, mentre i nostri respiri erano ancora affannati e i nostri corpi intrecciati sul letto matrimoniale, Gianni ha continuato a baciarmi, le sue labbra che cercavano ogni centimetro della mia pelle. “Lo sapevo che ci saresti stata, sai? Mi spiace solo di non averci provato prima. E spero che ora tu non ti sia pentita!” Le sue parole erano un misto di trionfo e dolcezza, come se volesse rassicurarmi, ma anche reclamare la sua vittoria. E la verità, per quanto mi costi ammetterlo, è che non ero pentita. Anzi, il mio corpo vibrava ancora di piacere, la mia mente annebbiata da una sensazione che non provavo da anni. Quando mi ha guardato, con quegli occhi che sembravano leggermi dentro, e mi ha chiesto: “Lo vuoi ancora?”, non ho resistito. Nonostante il timore che Massimo o mia suocera potessero rientrare da un momento all’altro, ho sentito una parte di me, quella più selvaggia, più nascosta, prendere il controllo. Per la prima volta in vita mia, sono esplosa. Ho urlato, ho reclamato di averne ancora, come se fossi una ragazza alle prime esperienze, come se il mondo fuori da quella stanza non esistesse più.

Rischiando di essere scoperti, siamo andati avanti per due ore, persi l’uno nell’altra, in una danza di corpi e desideri che sembrava non avere fine. Da quel giorno, siamo diventati amanti. Abbiamo iniziato a frequentarci quasi ogni giorno, sfruttando ogni scusa, ogni ritaglio di tempo. Gianni aveva affittato una piccola garçonnière vicino al circolo di tennis, un nido segreto che esisteva solo per noi. Ogni incontro era un’esplosione di passione, un vortice in cui ci cercavamo con una fame che non si saziava mai. Inventavamo scuse sempre più elaborate: una commissione, una passeggiata, un caffè al circolo. Nessuno sospettava nulla, né Massimo, sempre assorbito dal suo lavoro, né mia suocera, che sembrava vivere in un mondo tutto suo. I primi tre mesi sono stati magnifici, un sogno proibito che mi faceva sentire viva, desiderata, come se fossi tornata la ragazza di un tempo, ma con un’audacia che non avevo mai conosciuto.

Sono stati mesi di sotterfugi, di bugie, di lingerie sempre più provocante, di rossetto, di tacchi alti e di corse clandestine verso la garçonnière. E ancora oggi quando vado a cena dai miei suoceri, mi preparo come se fosse un appuntamento con lui. Mi vesto come piace a Gianni: gonne aderenti, camicette che lasciano intravedere appena, tacchi che so che lo fanno impazzire. Mi trucco con cura, abbondo con il rossetto rosso fuoco, perché so che gli piace guardarmi le labbra, immaginare come potrei dargli piacere in un momento di distrazione. Ebbene sì durante quelle cene, faccio fatica a trattenermi. Ogni gesto è una provocazione: slaccio un bottone della camicetta, accavallo le gambe lentamente, muovo le labbra in modo malizioso, sperando che lui colga il messaggio, che mi guardi e, magari sottovoce, mi dica quanto sono bella, quanto mi desidera. Quelle parole, cariche di trasgressione e intimità, sono diventate la mia droga.

Lo ammetto, sono persa di lui. Mi piace da impazzire quando mi chiama la sua “puttana”, quando mi dice che sono la donna che tutti desiderano ma che solo lui può avere la chiave delle mie cosce, della mia figa. Le sue parole volgari, che all’inizio mi scioccavano, ora mi eccitano, le voglio, le bramo. Mi sono abituata a quel linguaggio crudo, al modo in cui mi parla mentre facciamo l’amore, al modo in cui mi ricorda che sono di sua proprietà, che sono la nuora che ha trasformato in una donna vogliosa, insaziabile. Anzi sono io a chiedere di chiamarmi “mignotta”, perché so che lo fa impazzire, che alimenta il suo desiderio di possedermi, di sapere che mi ha cambiata, che mi ha fatta sua. E quando, nel pieno della passione, mi ricorda che sto andando a letto con mio suocero, che sono “più sporca di una prostituta a pagamento”, io mi sciolgo. È proprio questo che mi fa impazzire di lui: il modo in cui mi spoglia di ogni pretesto, di ogni difesa, lasciandomi nuda, non solo nel corpo, ma nella mente, nella mia essenza più cruda.

Ma ora, con questa gravidanza, tutto è cambiato. Ogni volta che mi guardo allo specchio, vedo una donna che non riconosco più. Una donna che ama, che desidera, ma che sta distruggendo tutto ciò che ha costruito. Come posso continuare così? Come posso sedermi a tavola con Massimo, con i miei figli, con mia suocera, sapendo che il bambino che porto in grembo non è di mio marito? La tisana che stringo tra le mani è fredda, come il vuoto che sento dentro. Sono intrappolata tra il desiderio che mi consuma e il senso di colpa che mi divora. E non so come uscirne.

Però dopo i primi tre mesi qualcosa in Gianni è cambiato. Non è più solo l’uomo che mi travolgeva con la sua passione sfrenata, quello che mi faceva sentire come se fossi l’unica donna al mondo. È diventato più razionale, più accorto, come se il peso dei nostri incontri, della nostra relazione segreta, lo avesse costretto a misurare ogni passo. Eppure, nell’intimità, è rimasto lo stesso: focoso, passionale, capace di farmi perdere la testa con un solo sguardo, un solo tocco. Mi giura continuamente che sono un “regalo inaspettato”, il suo “giocattolo preferito”, parole che mi fanno sciogliere e al tempo stesso mi feriscono, perché so che non sono l’unica. Nonostante tutto quello che mi dà, nonostante il modo in cui mi fa sentire desiderata, non ha mai messo da parte il suo “vizietto”.

Come mia suocera, che per anni ha chiuso un occhio sulle sue scappatelle, anch’io ho imparato ad accettare. O almeno, ci provo. Ogni volta che penso a lui con un’altra, con le sue allieve giovani al tennis, la gelosia mi stringe lo stomaco, un nodo che non riesco a sciogliere. Ma poi mi ricordo di quello che mi dà, di come mi fa sentire quando siamo insieme, e il confronto con la fedeltà di Massimo, così stabile, così prevedibile, mi sembra quasi insignificante. È terribile ammetterlo, ma ciò che Gianni mi offre è di gran lunga superiore: una passione che brucia, un’intensità che mi fa dimenticare chi sono, una trasgressione che mi rende libera, anche se solo per pochi istanti rubati.

Vorrei che fosse solo mio. Lo vorrei con ogni fibra del mio essere, ma so che non lo sarà mai. L’ho sempre saputo, in fondo, ma accettarlo è un’altra cosa. Una volta, spinta da un impulso che non riuscivo a spiegarmi, l’ho seguito fino al circolo di tennis. Non so cosa sperassi di trovare, forse una conferma, forse una scusa per odiarlo. L’ho visto, con quella sua aria disinvolta, chiacchierare con una delle sue allieve, una ragazza poco più che ventenne, con i capelli biondi e una gonnellina bianca a pieghe che sembrava gridare ingenuità e desiderio. Li ho visti allontanarsi insieme, entrare nella garçonnière, quella che stupidamente pensavo fosse solo nostra, il nostro rifugio segreto. Mi ero illusa che l’avesse affittata per me, per noi, ma in quel momento ho capito che ero solo una delle tante, un altro trofeo nella sua collezione.

Sono rimasta lì, nascosta dietro la mia macchina, con la rabbia che mi bruciava dentro. Pensavo a quella ragazzina, a come offriva il suo sesso giovane, e pensavo a lui che le diceva le stesse parole volgari, ficcanti, ma tremendamente erotiche.
Eppure, non sono riuscita a odiarlo. Perché ogni volta che torno da lui, ogni volta che mi sfiora, che mi sussurra parole crude e dolci allo stesso tempo, io mi perdo di nuovo. Mi perdo nel modo in cui mi guarda, nel modo in cui mi sfiora e mi fa sentire necessaria. Mi perdo nella sua passione, nel suo modo di prendermi senza chiedermi il permesso, come se fossi sua e solo sua, anche se so che non è vero.

Ma ora il peso delle bugie, delle cene in cui fingo di essere la nuora perfetta mentre sogno di sfiorare la sua mano sotto il tavolo, è diventato insostenibile. Ogni volta che mi trucco per lui, che scelgo un vestito o un paio di autoreggenti nere che so che lo farà impazzire, che gioco con i bottoni della camicetta o accavallo le gambe per attirare il suo sguardo, mi sento sempre più lontana da me stessa. E ora, questo bambino che porto in grembo è un promemoria costante di ciò che ho fatto, di ciò che sono diventata. Non ce la faccio più a mentire, a nascondermi, a vivere questa doppia vita. Ma come posso smettere? Come posso rinunciare a lui, a questa passione che mi consuma, anche se so che mi sta distruggendo?

Guardo fuori dalla finestra, verso l’orto, verso il ruscello che separa la nostra casa dalla loro, e mi chiedo come sia possibile che una vita così perfetta, così invidiabile, sia diventata un groviglio di segreti, bugie e desideri. Vorrei tornare indietro, a quella mattina di giugno, e dire di no. Ma poi penso a lui, a come mi fa sentire, e una parte di me sa che non cambierei nulla. Anche se mi sta costando tutto.

Sono in un vicolo cieco. Sono incinta, cavolo, e questo cambia tutto. Il segreto che porto dentro di me, questo bambino che crescerà nel mio grembo, è come una bomba a orologeria che ticchetta in sottofondo, pronta a far esplodere la mia vita. Ogni volta che chiudo gli occhi, vedo solo lui, Gianni, con il suo sorriso, il suo tocco, la sua voce che mi chiama “puttana” e “giocattolo” con quel misto di desiderio e possesso che mi fa impazzire. Ma ora, più di prima, vorrei che tutto questo uscisse alla luce del giorno. Vorrei urlare al mondo che lo amo, che sono sua, che non mi importa di nient’altro. Vorrei avere voce in capitolo, ribellarmi ai suoi tradimenti, pretendere che sia solo mio. Ma so che è un sogno impossibile.

Nei miei momenti di follia, nei miei voli pindarici, immagino che Massimo scopra tutto. Immagino mia suocera, con il suo sguardo tagliente, che capisce finalmente chi sono diventata la donna di suo marito, invece di giudicarmi, mi lascia libera di amarlo. È una fantasia assurda, lo so. A volte penso addirittura che, se ci vedessero mentre facciamo l’amore, tutto sarebbe più semplice. Non ci sarebbe bisogno di parole, di spiegazioni, di bugie. La verità nuda e cruda, i nostri corpi intrecciati, direbbe tutto. So che è una pazzia, ma non ne posso più di vivere nascosta, di rubare momenti con lui, di sentirmi come un ladro che si intrufola nella vita di un altro.

E non mi basterebbe nemmeno che Massimo mi lasciasse. Non è solo una questione di liberarmi dal mio matrimonio, dal senso di colpa che mi stritola ogni volta che lo guardo negli occhi. Voglio stare con Gianni, voglio lui, tutto di lui, ogni giorno, ogni istante. Ho provato a parlargliene, a dirgli che non sopporto più questa vita di segreti, che vorrei smettere di nascondermi, ma lui è stato categorico. “Non dire una parola, Clara.” Mi ha detto, con quel tono che non ammette repliche. “Non fare cazzate! Se lo fai, tra noi è finita. Per sempre.” Quelle parole mi hanno spezzata. Non concepisco una vita senza di lui, senza le sue attenzioni, senza il modo in cui mi fa sentire viva. Sono diventata schiava di questo amore, di questa passione che mi consuma. Ogni cellula del mio corpo lo desidera, lo cerca, lo reclama, ma lui mi tiene a distanza, mi dice che devo accontentarmi. “In fin dei conti, ti do quello che desideri.” Ripete, come se il suo amore, il suo tempo rubato, fosse abbastanza.

Non lo è. Non più. Non con questo bambino che porto in grembo, che rende tutto reale, irreversibile. Nella mia infinita pazzia, ho pensato anche di scrivere due lettere anonime, una a Massimo, una a mia suocera. Ho immaginato di confessare tutto, di lasciare che la verità esploda come una tempesta, distruggendo ogni cosa. Ma poi penso a Gianni, al suo ultimatum, e il terrore di perderlo mi paralizza. Se scoprisse che sono stata io, che ho tradito il nostro patto di silenzio, so che non mi perdonerebbe mai. E io non potrei vivere senza di lui. Non ora, non dopo tutto quello che abbiamo condiviso, dopo il modo in cui mi ha cambiata, trasformata in una donna che non riconosco più, ma che non può fare a meno di lui.

Vorrei trovare il coraggio di fare qualcosa, di scegliere, di liberarmi da questo peso. Ma ogni volta che penso a un futuro senza Gianni, il mio cuore si ferma. Sono intrappolata, e la gravidanza non fa che stringere ancora di più le catene. Non so come uscirne, e una parte di me si chiede se voglio davvero uscirne. Forse sono davvero pazza, come dico a me stessa. O forse, sono solo una donna che ama troppo, e che sta pagando il prezzo di questo amore.

Ripeto a me stessa, come un mantra, che Massimo non sospetta nulla e non avrebbe mai sospettato nulla. Ma ora, con questo bambino in arrivo, tutto è cambiato. Questo figlio che porto in grembo è una realtà che non posso ignorare, un peso che mi inchioda a terra, e so con assoluta certezza che è di Gianni. Non c’è possibilità di errore perché con Massimo non faccio l’amore da mesi. So anche che se dicessi a Gianni della gravidanza, lui non esiterebbe. Mi direbbe di abortire, senza mezzi termini, perché per lui questo bambino sarebbe solo un impiccio, una complicazione che potrebbe distruggere il suo mondo di libertà, di conquiste, di segreti, di giovani allieve del tennis. Ho la certezza che, per evitare fastidi, troncherebbe la nostra relazione senza guardarsi indietro. L’ho visto nei suoi occhi, l’ho sentito nel modo in cui mi tiene a distanza quando parlo di un futuro insieme, di qualcosa di più del nostro nido segreto nella garçonnière. Per lui, sono il suo “giocattolo preferito”, ma solo finché non divento un problema. E un figlio, lo so, sarebbe il problema più grande di tutti.

Quindi, per rimanere con lui, non ho altra scelta. Devo tacere. Devo portare questo segreto dentro di me, chiuso a chiave, come una prigione che mi sono costruita da sola. Ho deciso, una di queste sere, fingerò, metterò in scena la più tragica delle finzioni: farò l’amore con Massimo. Non per desiderio, non per amore, ma per un calcolo freddo, per costruirmi un alibi, per dare a questo bambino un padre che non sia mio suocero. Sarà una bugia terribile, un tradimento ancora più grande di quelli che ho già commesso, ma è l’unico modo per proteggere ciò che ho con Gianni, per non perderlo. Porterò questo segreto in silenzio, giorno dopo giorno, finché la gravidanza non sarà evidente. E solo allora, quando non ci sarà più modo di nasconderla e le settimane passate complicheranno ogni calcolo, annuncerò la “buona notizia” a Massimo, senza aggiungere altro. Sarà ovvio, almeno per lui, che sarà il padre. Nessuno dovrà mai sapere la verità!

Mi guardo allo specchio e vedo una donna che non riconosco più: una donna che ama troppo, che desidera troppo, che è disposta a mentire, a ingannare, a sacrificare ogni briciolo di sé pur di non perdere l’uomo che la fa sentire viva. Ma a che prezzo? Ogni volta che immagino quella sera con Massimo, il mio stomaco si contorce. Non è solo il senso di colpa verso di lui, verso i nostri figli, verso la vita che abbiamo costruito insieme. È il terrore che, anche con questo alibi, il mio segreto possa venire a galla. E se Gianni lo scoprisse? Se capisse che sto portando avanti una gravidanza che non posso confessargli? E se, un giorno, la verità emergesse, distruggendo tutto?

Guardo fuori dalla finestra, verso l’orto, verso il ruscello che scorre placido, e mi sembra che il mondo continui a girare come se nulla fosse, mentre io sono intrappolata in questa spirale di bugie e desiderio. Vorrei urlare, confessare tutto, liberarmi da questo peso, ma so che non posso. Non posso rischiare di perdere Gianni, non posso immaginare una vita senza di lui. Anche se significa mentire, fingere, tradire. Anche se significa diventare una versione di me stessa che non sopporto più.

Penso a mia suocera e alla sua contentezza quando saprà che le donerò un altro nipotino, penso a mio suocero che mai saprà di avere un altro figlio, penso ai miei due figli che giocheranno con il loro zio, penso a mio marito che sarà felicissimo di essere padre ignorando invece che è semplicemente suo fratello. Insomma penso a quanti casini dovrò affrontare, ma per la felicità di tutti e soprattutto perché mio suocero continui a darmi le stesse attenzioni, amandomi a suo modo, non ho davvero altra scelta.







Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.

IMMAGINE GENERATA DA IA

© All rights reserved
TUTTI I RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA


© Adamo Bencivenga - Tutti i diritti riservati
Il presente racconto è tutelato dai diritti d'autore.
L'utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma, senza il consenso dell'autore

 






 
Tutte le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi autori. Qualora l'autore ritenesse improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione verrà ritirata immediatamente. (All images and materials are copyright protected and are the property of their respective authors.and are the property of their respective authors.If the author deems improper use, they will be deleted from our site upon notification.) Scrivi a liberaeva@libero.it

 COOKIE POLICY



TORNA SU (TOP)

LiberaEva Magazine Tutti i diritti Riservati
  Contatti