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I RACCONTI DI LIBERAEVA

SCANDALO
"Nella penombra della farmacia e il peso del
lutto, i miei occhi tradivano il rigore della vedovanza, posandosi
furtivi sul giovane aiutante. La famiglia di mio marito non avrebbe
mai tollerato che mi spogliassi dei miei abiti neri prima del tempo.
Eppure, tra quei medicinali, il battito del mio cuore scandiva già
l’inizio di uno scandalo..."

Mio marito, morendo, mi
aveva lasciato una casa al centro di Lucca, una figlia
ancora troppo giovane e una farmacia nella piazza
principale della città che mi permetteva di vivere più
che decorosamente. Se n’era andato quando ancora i miei
anni non si decidevano a sfiorire. L’immagine di vedova
mi avvolgeva tutt’intorno e mi legava dentro un vuoto
appiccicoso. La famiglia del mio povero marito non
mancava occasione di farmi notare i minimi dettagli del
mio comportamento che ribellandosi alla malinconia
cercavano timidamente di scrollarsi di dosso i miei
vestiti rigorosamente neri, le visite quotidiane al
cimitero e le messe dedicate al venerdì mattina.
La famiglia Marcuzzi, nota e stimata in tutta Lucca,
non avrebbe potuto tollerare che la moglie dello
sfortunato primogenito potesse con il suo comportamento
oscurarne il ricordo o peggio tradirne la memoria. Le
uniche uscite in società si limitavano ad onorare le
feste comandate o qualche invito di rango dove la
famiglia Marcuzzi non poteva certo sottrarsi. Sempre
accompagnata dalle cognate e dai suoceri non c’era
scampo di fare nuovi incontri che potessero in qualche
modo riaccendere in me l’illusione di una nuova vita.
L’unica ragione di vita, e solo per la quale mi
alzavo ogni mattina, risiedeva nella luce degli occhi di
mia figlia Giada che ancora quattordicenne aveva vissuto
la scomparsa del padre nell’incoscienza dell’età. Ed
ogni mattina mi ripetevo che niente al mondo avrebbe
potuto offuscare quella luce cercando di mantenerla viva
con una presenza costante per sostituirmi almeno in
parte al suo unico compagno di giochi preferito.
La farmacia era comunicante con la casa e questo mi
permetteva di starle vicino e seguirla nei suoi studi,
ma alle volte avvertivo di non fare abbastanza e di non
avere il tempo necessario da dedicarle. Per queste
ragioni dissi un giorno a mio suocero, proprietario
dell’attività, di aver bisogno di un aiuto, ma la
difficoltà di trovare un buon lavorante che conoscesse
il lavoro e per lo più fidato fecero cadere la proposta
nel nulla.
Per mesi e mesi tirai avanti finché
la mia stanchezza lasciò il posto all’abulia e poi al
rifiuto totale del lavoro. Aprivo e chiudevo il negozio
nelle ore più insolite, la clientela cominciò a
lamentarsi insinuando i motivi più disparati finché,
sempre per il buon nome della famiglia, le cognate e mio
suocero riuniti, individuarono nel figlio del
maresciallo dei carabinieri, iscritto al secondo anno di
medicina, il valido aiuto che stavo cercando.
Si
presentò timido e giovane e con tanta voglia di
imparare. Dopo alcune settimane prese in mano tutta la
gestione dell’attività dimostrandosi esperto ed abile
nei conti e soprattutto nel rapporto con i clienti. La
farmacia tornò agli antichi splendori ed il bel ragazzo
con meticolosità e pazienza elargiva consigli medici e
sorrisi a trentadue denti come un veterano pratico del
mestiere.
Passarono solo pochi giorni, prima di
sorprendermi a guardarlo furtivamente tra una fattura ed
un’ordinazione, e passarono solo dei minuti nel vedere i
suoi occhi adagiarsi sulla mia scollatura perennemente a
lutto. Forse sarà stata l’astinenza o il semplice
desiderio di sentirmi ancora viva e donna quando mi
accorsi che qualcosa in me stava cambiando, quando la
sera abbracciavo mia figlia, e ritardavo ostinatamente
il sonno e i sogni invadenti che con l’andar delle notti
si erano fatti più vitali e sfacciatamente reali.
Non ci volle altro tempo per immaginare le sue
intenzioni, quando con quel fare timidamente taciturno
mi strinse la mano sotto il bancone mentre serviva una
giovane cliente svenevole e fintamente raffreddata. Mi
sottrassi immediatamente alla presa cercando durante la
giornata di far finta di niente per non dare adito a
qualche complicità inopportuna, ma in realtà la scena di
quella ragazzina svenevole e successivamente anche altre
mi lasciarono un certo disagio, come se qualcuno stesse
invadendo il mio terreno.
Purtroppo sì, lui se ne
era accorto ed io cominciavo ad avvertire qualche
imbarazzo che per nessuna ragione al mondo avrei
desiderato che trasparisse. Ma i giorni indifferenti che
rincorrevano le notti disordinate avevano reso tutto più
evidente come quella mano che mi aveva segretamente
cercato e quel suo sguardo profondo che continuava in
ogni istante a spogliare i miei decolté rigorosamente
accollati.
E come ogni situazione che si protrae
a lungo nel tempo sarebbe rimasta incollata, chissà
quanto nei miei non posso, se la raffreddata di turno
non si fosse fatta più intraprendente da strappargli un
invito per un caffè. Rimasi per un attimo a pensare,
rigida come una statua di marmo sulla mia sedia alla
cassa, ma un attimo dopo inveii contro di lui e la sua
poca discrezionalità, minacciandolo di licenziarlo in
tronco. Lui girò dietro il bancone, mi venne lentamente
incontro e nonostante la vetrina aperta mi baciò
avidamente.
Lottai con tutta me stessa tentando
di rimanere aggrappata a quella finta ipocrisia. Lo
colpii violentemente, lo scalciai cercando di farmi
spazio tra gli spigoli dei cassetti, ma alla fine
cedetti alle sue labbra ostinate che non avevano
arretrato di un respiro. Le accettai come si accetta un
temporale durante una giornata di sole e schiusi le mie
lasciando che la sua lingua si facesse largo tra la mia
debole resistenza.
E inevitabilmente tutto
cambiò, tutto scivolò perdendo importanza, tutto si
riposizionò nella giusta misura come quelle labbra che
continuavano a cercarmi ed io continuavo ad accoglierle
incurante di quello che sarebbe potuto accadere. E con
la serranda alzata e la certezza che prima o poi
qualcuno sarebbe entrato sentii il vapore della sua
bocca lungo il collo e poi più giù lungo l’incavo del
mio seno che ritto e insolente non aspettava altro. Non
lo respinsi né in quel memento né dopo quando colmo di
ardore s’arrestò inesorabilmente sui miei capezzoli,
succhiandoli come mai il mio povero marito era riuscito
a farli divenire sfrontati in attesa solo di piacere.
Lo lasciai sguazzare tra le morbidezze della mia
rigida castità, ma non m’abbandonai totalmente, la mia
lucida convinzione del rango, del lutto e soprattutto
spaventata dall’immediato pericolo riacquistai pian
piano il mio contegno. Certo sì per un attimo avevo
ceduto, avevo concesso il mio seno alla sua bocca avida
e questo mi fece sentire fragile tanto da dubitare sulle
mie resistenze in caso ci avesse ancora provato.
M’aggrappai alle mie cose, al rispetto della memoria
di mio marito, a mia figlia, alla famiglia, alla
consapevolezza dei miei anni che, passando inesorabili,
mi facevano sentire ridicola ogni qualvolta mi
riflettevo allo specchio. Certo sì ero consapevole che
il suo non fosse amore, ma mi sentivo ugualmente
intrappolata in un vortice di sensazioni.
Capitò
una sera dopo l’orario di chiusura. Gli avevo chiesto di
rimanere per riordinare il magazzino, ma il magazzino
rimase tale e quale, disordinato come il mio vestito e i
miei capelli sotto i colpi incessanti del suo desiderio.
Avvenne come mai l’avevo fatto, senza alcun rispetto,
avvenne addosso ad una parete fredda e scomoda e ci
scambiammo baci bollenti come due innamorati alla
stazione. Poi scivolammo sul pavimento e fu sesso vero!
Mi prese immediatamente e questa volta non lasciò la
presa. La sua bocca seguì le curve del mio decolté
ancora a lutto dandomi del lei e chiamandomi Signora
Marcuzzi, finché mi ritrovai nuda di mio marito, della
mia vedovanza, del nome che portavo, di quella etichetta
che si era disintegrata al primo attacco.
Il mio
corpo lasciò da parte ogni remora e tattica e s’incendiò
sotto i colpi volenterosi del mio amante, rivendicando
sesso, passione e un’indelebile serata d’appiccicare
come un poster sulle pareti del mio cervello. Lui,
stimolato dai miei ripetuti orgasmi, non s’accontentò
del suo primo piacere, mi volle di nuovo nel magazzino e
poi seduta e poi ancora sulla scala che portava a casa,
eccitandosi per quella mia astinenza e cercandomi oltre
la coltre spessa del buio di quella trasgressione, e
oltre i suoi vent’anni che finora avevano colto solo
leggeri e sterili orgasmi di ragazzine insignificanti.
Fu intenso e interminabile, sbattuta lì sul pavimento
gli giurai amore vero confessandogli i miei desideri
prima che accadesse e che da quel momento in poi e per
nulla al mondo avrei fatto a meno del suo ardore di
maschio.
Certo sì, lo sapevo che se avessi
ceduto me ne sarei innamorata e così è successo e da
quel momento non gli vedevo altro che pregi come i suoi
baci persuasivi, la sua pelle accattivante, la sua
insolenza testarda, i suoi rifiuti e le sue concessioni
magicamente sfrontate. Insomma persi la testa quasi
subito, le ore scure della notte diventarono
insopportabilmente lunghe, quelle chiare del giorno
troppo brevi per contenere tutti i miei orgasmi.
Ogni giorno chiudevamo sempre più tardi, e non
veniva pranzo, tramonto e luna senza che mi coprisse di
baci e carezze, senza che trovassimo nei ritagli, minuti
intermittenti d’amore e desiderio. Passarono settimane e
lui diventò indispensabile e tutte le mie ore del giorno
ruotavano intorno a lui, diventai gelosa di tutte le
raffreddate di turno che entravano in farmacia e bene
presto la mia ossessione gli tolse l’ossigeno e la sua
intraprendenza s’affievolì non colorando più i miei
vestiti a lutto.
Era troppo giovane per sentirsi
completamente appagato da quella storia incredibile,
vissuta nel segreto e rubata alla famiglia ed ai
pettegolezzi sempre in agguato. Aveva i suoi amici, i
suoi studi e soprattutto un futuro davanti a sé, a me
completamente negato. Si fece taciturno e svogliato,
sfuggente alle mie attenzioni sempre più incalzanti.
Cominciai a dubitare di lui finché una mattina, mentre
mi teneva tra le braccia al riparo degli scaffali, non
avvertì alcun timore a confessarmi che da qualche tempo
usciva con una ragazza della sua stessa età.
La
mia reazione fu così immediata che non gli diedi il
tempo di realizzare quello che era uscito dalla sua
bocca. Presi il fermacarte di pietra sul bancone e lo
colpii ripetutamente finché un rivolo di sangue sulla
tempia non arrestò la mia pazzia. Era mio e per nessun
motivo l’avrei regalato alla concorrenza. Lo trascinai
in magazzino, lo imbavagliai legandolo ad una sedia. Lo
amavo troppo, ma non mi sentivo pentita e come se niente
fosse tornai a servire. Ero pazza sì e forse me ne
rendevo conto, ma il mio essere donna non avrebbe mai
potuto tollerare quell’affronto!
All’ora di
pranzo andai dritta a casa senza curarmene, ero decisa a
lasciarlo in quello stato per giorni e giorni finché la
sua testa malata non avesse dato segni di ravvedimento.
Ma la sera ebbi pietà di lui, lo andai a trovare e per
mia fortuna la ferita si era rimarginata, mi pregò di
slacciarlo assicurandomi che non avrebbe gridato e non
sarebbe scappato. Così feci, ma il suo bel faccino
convincente s’increspò coprendomi di schiaffi e
ingiurie, facendomi giurare che mai più avrei ostacolato
la sua vita fuori da quella farmacia, facendomi capire
che il mio stato di donna rispettabile ed avanti con
l’età non poteva pretendere altro.
Quella notte,
abbracciata a mia figlia, piansi lacrime amare. Lo
immaginavo nelle braccia della raffreddata, nei seni
caldi di qualche prostituta fuori le mura, nelle labbra
della donna giusta che l’avrebbe portato fino
all’altare. Mi girai più volte nel letto sicura e
convinta di farla finita, ma alle prime luci dell’alba
mi rassegnai a non poter fare a meno di quel traballante
appiglio, unica speranza remota che mi riempiva di sesso
e passione.
Accettai quel compromesso senza
pensare che quello era solo il primo passo e non sarebbe
di certo finita lì. Lui iniziò ad essere dapprima più
aggressivo e poi ormai convinto di essere indispensabile
divenne presuntuoso ed arrogante sentendosi ogni giorno
di più essenziale e necessario a una donna matura e
senza futuro.
In negozio, da perfetto padrone,
predisponeva il lavoro senza più interpellarmi. Stava
tutto il giorno alla cassa, mentre la rispettabilissima
signora Marcuzzi si era ridotta a stare dietro il
bancone e servire i clienti. La paga settimanale
concordata al tempo con mio suocero, si trasformò mano
mano in una percentuale sugli incassi.
Purtroppo
anche l’amore non rimase incontaminato da quel gioco
perverso prendendo una piega che non avevo previsto. Lo
desideravo più di me stessa e iniziai ad obbedire alle
sue richieste sempre più audaci. L’accontentai senza
battere ciglio anche quando una mattina si avvicinò e mi
slacciò i bottoni della camicetta mettendo in mostra il
mio seno generoso. Poi si allontanò per vedere l’effetto
e mi fece giurare che soltanto dopo aver servito il
primo cliente avrei potuto coprirmi di nuovo.
Pazza ed eccitata non dissi di no ed offrii al primo
cliente il mio pizzo nero e la parte più scura della mia
pelle dove il seno comincia a farsi capezzolo. Certo sì,
non era evidente, ma quella scollatura faceva di me
un’altra donna in balia dei suoi desideri più
peccaminosi. Non era amore ovviamente ma solo potere su
di me, in cui lui aveva trovato una soddisfazione
assoluta!
L’accontentai di nuovo quando in pieno
giorno m’inginocchiai al riparo del bancone mentre la
sua affilata cortesia consigliava medicamenti per le più
disparate malattie. Certo sì, i clienti non mi vedevano,
ma la mia bocca, incurante di ciò che succedeva sopra di
me, si fece sempre più profonda e non smise di dargli
piacere fino a quando non lo sentì irrigidirsi.
Successe altre volte e intestardita muovevo la lingua,
succhiavo avidamente su quel sesso che ogni giorno era
sempre meno voglioso resistendomi oltre misura. Alle
volte lui, avvertendo la mia stanchezza, mi spronava a
fare meglio della sua ragazza che poco prima gli aveva
offerto le sue labbra. E per vincere quella gara
perversa, di fronte a quel coso penosamente inerte,
cercavo di rivitalizzarlo mettendoci tutta me stessa
racimolando tutte le forze che possedevo.
Ma non
finì lì perché qualche sera dopo, appena prima della
chiusura, mi confessò di avere problemi di eccitazione
con la sua ragazzina. Era fintamente preoccupato di non
riuscire a soddisfarla e mi chiese quello che mi sembrò
naturale. Mi inginocchiai e sbottonandogli i pantaloni
con fare delicato lievitai la sua passione facendo
attenzione a non pregiudicare il suo incontro serale.
Senza più un minimo di decenza, il giorno dopo gli
chiesi come fosse andata ed emisi un grido di gioia
quando mi disse che grazie a me era andato tutto a
gonfie vele. In segno di riconoscenza appoggiò le sue
labbra sulla mia fronte, ed io mi sentii sollevata per
aver dato un piccolo contributo alla sua vittoria. Come
mi ero ridotta?
Mia figlia la vedevo crescere
sotto gli occhi con la cruda consapevolezza di non darle
abbastanza. I suoi pensieri cominciavano a capire quello
che in cuor mio cercavo di non far trasparire. Con la
famiglia del mio ex-marito mi comportavo da buona vedova
infelice sempre attenta a non tralasciare l’etichetta e
le forme, offrendo loro l’immagine di donna affranta e
inconsolata.
In effetti, tutto ciò non era molto
distante dalla realtà e le mie povere forze cominciavano
a traballare al cospetto di quel rapporto sempre più
compromettente. Oramai mi ero chiusa in un vicolo cieco
dove la scelta di mollare tutto sarebbe stata più
dannosa e di conseguenza più dolorosa di quanto stessi
vivendo. Ma questi pensieri non facevano parte, in quel
momento, delle mie preoccupazioni oramai completamente
appiattite all’umore di quel ragazzo.
Una sera
mi volle più bella di quanto lo fossi stata fino ad
allora. Decidemmo di cenare a lume di candela
direttamente in negozio. Durante il pomeriggio mi feci
aiutare addirittura da mia figlia, poi lei stanca, prima
della chiusura, s’addormentò in magazzino. Il mio amante
aveva preteso che mi vestissi completamente di bianco
compreso l’intimo. Cercai di resistere, era la mia prima
volta che dismettevo il lutto e non mi sentivo a mio
agio. Ma fu irremovibile, tanto da minacciarmi che
sarebbe andato via per sempre. Alla fine lo accontentai,
ma guardandomi allo specchio piansi facendomi più volte
il segno della croce.
Con la serranda del
negozio abbassata gustammo vino e complicità. Mi disse
più volte che ero bella, mi baciò come la prima volta,
mi sussurrò parole che non erano mai uscite dalla sua
bocca, mi prese con trasporto e vero amore come da tempo
non faceva. Mi confidò dei problemi con la sua ragazza.
Ero felice e contenta, incredula come tutto stesse
tornando al proprio posto. Poi alzando il calice mi
disse che l’avrebbe lasciata e sarebbe stato tutto mio,
libero per me e per mia figlia.
Durante la cena
mi chiese di spogliarmi, ed io non ebbi dubbi,
denudandomi davanti ai suoi occhi e rimanendo con i miei
soli indumenti più intimi. I suoi occhi brillarono come
se non mi avesse mai vista così ed io travolta dal suo
desiderio lo invitai dentro di me. Mi fece alzare e il
suo sesso finalmente gonfio di passione mi prese più
volte sbattendomi contro le grate rumorose della
serranda. Estasiata lo imploravo di continuare, di
spingere più a fondo, lui mi accontentava fino a
portarmi in un vortice dove non avrei più rifiutato
nulla. Mi baciava, mordeva i miei seni, urlava che ero
solo sua, fino a quando la sua mente malata alzò quel
tanto la saracinesca per farmi uscire fuori nella
piazza.
Non capii più nulla. Ero in preda ad
un’eccitazione senza condizioni ed acconsentii
richiudendo io stessa la serranda dal di fuori.
Estasiata dal suo desiderio sentivo il piacere del
freddo insinuarsi tra le mie cosce, ma poi, subito dopo,
completamente nuda a qualsiasi sguardo che fosse passato
di là, quel piacere si trasformò in un misto di paura,
disonore e scandalo.
Lo vedevo masturbarsi
all’interno mentre io lì fuori cercavo in qualche modo
di coprirmi sperando con tutta me stessa che non
passasse nessuno e che non mi vedessero dalle finestre
affacciate sulla piazza. In quell’attimo compresi il suo
gioco perverso, perché quelle finestre, quella gente
invisibile era indispensabile e necessaria a farmi
sentire niente nel vortice di quel gioco che io stessa
avevo in qualche modo alimentato.
Ero
completamente nel panico. Lo pregavo di aprirmi, ma lui
eccitato mi gridava che non m’avrebbe fatta rientrare e
che la mia vergogna si sarebbe consumata completamente
lì fuori quella notte. Smarrita e confusa lo pregai
ancora di desistere, m’aggrappai alle grate implorandolo
di farmi rientrare, ma lui era irremovibile. Mi diceva
che più tempo sarebbe passato e più avrei compreso il
valore e l’essenza di sentirmi sua. Ma io sentivo solo
la mia indecenza, il mio disonore arrosarmi la faccia,
pensavo già a quanto sarei stata sulla bocca di tutti,
alle reazioni della famiglia di mio marito, alle mie
cognate.
Ero persa, soggiogata da un ragazzo che
non voleva il mio amore, ma la mia distruzione. Lui
rimaneva lì a fissarmi a dirmi che ero la sua puttana e
che tutti dovevano sapere quanto fossi sua schiava e
devota al suo sesso. E mentre lo pregavo vidi la sua
ombra voltarsi e dirigersi verso il magazzino dove
dormiva mia figlia. Gridai un NO con tutte le mie forze,
il rimbombo della piazza tornò qualche secondo dopo
ancora più forte.
Forse era solo un’ombra nei
miei occhi o forse si era mosso con quell’intenzione, ma
spaventato dalle mie urla corse ad aprire. Rientrai e
con tutta la rabbia che avevo in corpo gli addentai un
orecchio e non smisi fino a che non sentii la sua carne
cedere. Lui gridò dal dolore ed io ancora con la bocca
piena del suo sangue andai in magazzino e strinsi tra le
braccia il faccino addormentato di mia figlia.
Eravamo giunti all’epilogo proprio dove non avrei mai
immaginato, nel punto in cui il mio amor proprio,
calpestato, avrebbe mai voluto ribellarsi; proprio dove
mi accorsi di avere ancora un barlume di decenza;
proprio dove, e solo in quel punto, l’attrazione
dissacrante per quel ragazzo si frantumava al cospetto
dell’amore, quello vero, che nessuna donna mai avrebbe
messo in gioco.
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