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I RACCONTI DI LIBERAEVA


SALA D'ATTESA
A quale prezzo?
Intrappolata in una relazione clandestina con un uomo sposato, una donna si ritrova in una squallida stazione in un’attesa. Nel suo tormento interiore si chiede quale sia il valore di quell’amore rubato, ma l’incontro con uno sconosciuto, la spinge a confrontarsi con la propria identità e le illusioni che la tengono prigioniera. Un sogno sconvolgente diventa il punto di svolta, portandola a un risveglio che ridefinisce il suo rapporto con se stessa e con l’amore...
 



 

 
Mi domando come la vita possa avermi ridotta senza più anima e pelle, come l’amore m’abbia devastato cuore e ragione fino a convincermi che altro nella vita non avrei potuto sperare se non questo ritaglio di tempo riempito in gran parte d’ansia e d’attesa. Lui è sposato con Laura, la mia migliore amica, ha dei figli, una villa, un lavoro e tante partite a tennis ancora da sudare.

Mi domando cosa altro potrei offrirgli, cosa potrebbe mai trovare dentro questa donna che s’accontenta di minuzie e d’avanzi, di risvolti di tempo nei luoghi più anonimi e squallidi, adatti solo a confondere acque e non farsi scoprire.
È cominciato tutto per caso, una sera al telefono, la mia amica non c’era e lui ha risposto. La voce calda, un po’ sorpresa, ma così gentile da farmi sentire a mio agio.
“Pronto? Laura non c’è, è scesa un attimo. Vuoi che le dica qualcosa?” Ha detto, con un tono gentile.
“No, no, tranquillo, la richiamo dopo…” Ho risposto, un po’ impacciata. “Tu sei…?”
“Oh, scusa, sono Matteo. E tu sei…?”
“Elena.” Ho detto, e mi sono accorta che stavo sorridendo anch’io, senza motivo. “Niente, era solo per fare due chiacchiere.”
“Beh, se vuoi, posso farti compagnia io.” Ha detto, e c’era una leggerezza nella sua voce, come se fosse la cosa più naturale del mondo. “Sono solo e mi stavo annoiando.”

Abbiamo iniziato a parlare, di stupidaggini all’inizio: il tempo, il traffico, il bar dove Laura mi aveva trascinata la settimana prima. Poi, non so come, siamo finiti a parlare di film, di viaggi, di quelle cose che ti fanno sentire vicino a qualcuno anche se lo conosci da dieci minuti. Era carino, gentile, con quel modo di ascoltare che ti fa venir voglia di raccontare di più. E rideva, una risata che mi scaldava, anche attraverso il telefono.
“Elena, potremmo vederci sei vuoi.”
“Va bene, senz’altro, lo dirò a Laura.”
E lui: “Preferirei vederti da sola, magari per una cena romantica…” Sono arrossita, non me lo aspettavo. Ho cercato di chiudere la telefonata e lui: “Elena, magari ci sentiamo ancora, no? Mi ha fatto piacere.”
“Anche a me…” Ho risposto, e ho chiuso la chiamata con il cuore che batteva un po’ troppo forte.

Non ci ho pensato troppo, lì per lì. Ma poi, un paio di giorni dopo, è arrivato un messaggio. “Ciao, sono Matteo. Ho rubato il tuo numero dalla rubrica di Laura. Ti va di prendere un caffè se passi da queste parti?” E da lì, tutto è cambiato. Ha iniziato a cercarmi, con quella gentilezza che ti disarma, ma anche con quel modo di guardarti che ti fa sentire… voluta, donna e desiderata.
La prima volta che ci siamo visti, in un bar anonimo vicino alla stazione, mi ha sorriso come se ci conoscessimo da sempre. E quando mi ha sfiorato la mano, per passarmi lo zucchero, ho capito che non era solo un caffè.
“Elena, sei diversa.” Mi ha detto, con gli occhi fissi nei miei. “Non so, c’è qualcosa in te… di particolare, di intrigante, mi piaci e mi fai sognare.”
Ho riso, nervosa, cercando di smorzare. “Ma dai, sono normale, Matteo. Non c’è niente di speciale in me.”
“No, fidati.” Ha insistito, e si è avvicinato un po’ di più, abbassando la voce. “Mi fai venir voglia di scoprire tutto di te.”
È stato lì che ho sentito qualcosa di pericoloso che ti fa dimenticare il buon senso. Ed ho accettato il suo invito e col tempo non solo quello…

E ora, eccomi qui, a chiedermi cosa posso offrirgli, mentre mi perdo in questi momenti che sono tutto e niente, che mi fanno sentire viva, ma anche così fragile. Ora mi ritrovo qui in questa sala d’attesa con l’ansia che s’ingrossa ed una patina di sudore nelle mani che s’infittisce ad ogni minuto che l’attesa s’allunga. Non so se questo sia amore, ma il pensiero di lui mi occupa la giornata e mi dà valore nelle piccole cose cha faccio, quando faccio la spesa, quando mi guardo allo specchio o semplicemente respiro. Mi ripeto che comunque è follia, che forse sarebbe stato meglio aspettare invece di concedermi senza resistenza, sarebbe stato meglio puntare i piedi e stringere le cosce quando le sue voglie e i suoi problemi diventavano più grandi dei miei.

Ma sono fatta così, cavolo! Mi sono sempre andata a cercare situazioni che non avevano né capo e né coda e che lasciavano strascichi melmosi e temporali che allagavano il cuore ed arrugginivano la mente. Mi sono sempre innamorata di parole e mai di discorsi, di vagoni e mai di treni, di gente senza causa ed effetto che si materializzava dal nulla e proprio un nulla di rimpianto lasciava quando sbatteva la porta.

Ora, in questo stanzone di sala d’aspetto, guardo la mia faccia nello specchio perché sia identica a quella che vedo. Oltre le grandi vetrate di grigio sporco, oltre i lastroni di marmo che ricordano l’illusione del primo fascismo. I treni fuori schizzano veloci e non hanno intenzione di fermarsi risparmiandomi fatica e buon senso di decidere per dove partire.

Un uomo passa oltre, mi guarda e si siede di fronte, stringe nella mano sinistra una rosa gialla che odora, venera e gradisce, come se fosse un sesso di donna appena lavato. Mi fissa dritto tra le gambe. Il suo vestito non ha tempo, non ha moda; le sue scarpe non hanno lacci da legare, ma suole per camminare. Chissà quale fantasia l’ha portato sin qui, chissà quale illusione l’ha ridotto a pensare che tra poco di un niente potrei allargare le gambe e fargli vedere che intimo indosso, oppure che accetterò senza esitazione la sua corte sfacciata ingannando l’attesa apparente del prossimo treno.

Ma io non aspetto nessun treno, ho solo affittato un uomo non mio che ora aspetto e tra poco mi darà l’illusione di un viaggio senza aver pagato il biglietto. Come al solito arriverà trafelato, maledettamente in ritardo, con le ore nella testa che corrono più veloci di sessanta minuti, con la pesantezza nelle mutande che nessun’altra, a suo dire, potrebbe alleggerire. Ma sono anche la sola ad accettare questa fretta maledetta che più del sesso m’ingrossa i respiri, e questa corsa frenetica dove l’amore è un caffè all’autogrill o peggio una leggera frenata prima di un sorpasso. Il nostro paradiso è qui vicino, a due passi dalla stazione, Pensione Cristina, con un letto ed un lavandino al terzo piano di un albergo senza stelle e senza ascensore.

L’amore è sempre lo stesso. Mi prende in piedi, all’istante, col suo sesso voglioso che spunta rigido tra i denti della lampo e la mia gonna arrotolata fino ai fianchi. Mi prende immediatamente con il telefono sempre acceso che interrompe e cadenza i suoi movimenti e le ore successive di moglie e lavoro. Rapido come un treno che scompare in una galleria, consuma dentro di me la sua passione fino a che liquida sgocciola sulla moquette marrone. Non ho mai sentito il suo calore bagnarmi, non l’ho mai sentito godere tra le mie ossa, perché la sua più piccola paura è sempre più forte del massimo del piacere, perché qualsiasi preservativo può sempre nascondere una minaccia alla sua vita di padre, marito e professionista famoso.

Ma io lo amo, amo le sue paure e i continui viaggi insieme che solo nella sua fantasia prendono un treno, un aereo e parlano una lingua che non conosco. Desidero il suo sesso perché nessun altro m’ha mai penetrata dalle parti del cuore, oltre il piacere che rimane in disparte e fa capolino nei miei sogni quando al mattino mi sveglio da sola. Lo amo e mi convinco di essere stata fortunata ad incontrarlo, ed ora ad aspettare minuti che nessun altro uomo al mondo potrebbe gonfiarmeli di smania e impazienza.

Mi guardo intorno, ma ancora non sento l’odore, non vedo il suo borsone nero pieno di scuse, di shampoo, racchetta, accappatoio e scarpe da tennis. “Sarà qui a momenti! Il traffico, il lavoro, i figli, la moglie…” Mi persuado cercandogli scuse. Ma il tempo s’allunga ed io mi sento più sola.

Dopo un’ora che aspetto mi convinco che questo pomeriggio, che lentamente si scurisce, non mi concederà nemmeno quel minimo che a fatica accetto. Vorrei chiamarlo al telefono, ma m’è proibito. Potrei andarmene, ma questo signore di fronte continua a guardarmi. Lui sì, che ha tempo e mi dedica tutta l’attenzione che altri a malapena mi offrono o come in questo momento mi negano senza avvertirmi. Lui sì che ha pazienza da vendere, attento ad ogni impercettibile movimento delle mie gambe, ad ogni chiaro scuro della trama delle mie calze.

Eh già, mi ritrovo a immaginare cosa vorrebbe vedere. Cosa vorrebbe scoprire? La mia mente si perde, dipinge immagini che mi fanno arrossire. Forse si sta chiedendo se sotto la gonna c’è una calza autoreggente, se il bordo di pizzo si intravede appena quando mi muovo. O magari è più audace, e nei suoi occhi c’è la curiosità di indovinare il colore delle mie mutandine nere come la mia borsa, o forse rosse come il rossetto che ho messo stamattina? Si immagina come sarebbe sfiorare il tessuto, seguire con le dita la linea che separa il visibile dall’invisibile?

Sposto appena la gamba, un movimento lento, quasi involontario, e il suo sguardo si accende, segue la curva del mio ginocchio. Non dice nulla, non si muove, ma so che sta costruendo una storia nella sua testa, e io sono la protagonista. È un gioco pericoloso, questo, e una parte di me si chiede perché non mi alzo e basta. Eppure, c’è qualcosa nel suo modo di guardarmi, così intenso, così sfacciato, che mi fa restare. Come se, per un momento, fossi più di quella che si accontenta di attenzioni rubate. Come se, nei suoi occhi, fossi tutto ciò che desidera vedere.

Lo guardo bene, ha l’aria da straniero. Porta i capelli lunghi e biondi sopra una faccia bianca dove in trasparenza si può vedere il sangue scorrere e ribollire per una donna che sta aspettando un altro uomo, un altro sesso sicuramente meno passionale e forse meno potente del suo.
Ma continuo a giocare per vedere l’effetto e divarico appena le gambe per dare più profondità al suo sguardo, per allungare di qualche centimetro il suo percorso appagandolo con l’effimero colore delle mie mutande. Forse lo deluderò, lo so, perché oggi sono banalmente bianche, di cotone, senza neanche uno straccio di merletto che abbellisca questo sesso che, senza vanità, da anni porto tra le cosce. Del resto, per il mio uomo in affitto, i miei slip sono soltanto una barriera, uno stupido impedimento di stoffa di anonimo colore e fattezza che lui scosta senza vedere e prepara la strada alla sua unica parte di corpo che prova piacere.

Invece, questi occhi non smettono di guardarmi. Intermittenti provano e danno piacere. Vorrei essere quella rosa gialla così fragile e profumata, vorrei che il mio sesso sgorgasse la mia intima essenza al solo contatto con le sue dita ruvide ed anarchiche che incedono senza morale.
Passa ancora del tempo, forse Matteo non verrà e non è la prima volta che succede, ma oggi mi sento diversa, per la prima volta ribelle. Qualcuno oggi davvero potrebbe lenire la mia attesa, il mio senso innato di inutilità. Guardo dentro e guardo fuori, c’è una toilette poco distante, la guardo di sfuggita per provocarlo, per fargli capire e non essere troppo diretta e sfrontata.

La guardo di nuovo per constatare fino a che punto sono femmine le mie gambe, ma forse avrà altre più nobili intenzioni. Chissà tra poco m’invita a passare la notte nel suo appartamento e mi vorrà tutta per sé magari raccontandomi per una notte intera di sua moglie e dei suoi bimbi rimasti in Polonia o in qualche parte del mondo dove non li vede da anni. Oppure mi ha semplicemente preso per una puttana capendo al volo il mio cenno degli occhi verso la toilette, ma non s’avvicina e fa finta di non capire perché magari non ha soldi, perché la mia fica borghese costa più di tutto il denaro che è passato finora tra le sue mani.

Divarico ancora leggermente le gambe, le allargo e le stringo per vedere il colore dentro i suoi occhi. Ora sarà davvero difficile, anche se parla italiano, fargli capire che non sono una zoccola da stazione, sarà impossibile spiegargli le tare che dall’adolescenza mi porto appresso e cerco inutilmente di farmele riempire da muscoli ed attenzioni maschili. Squilla il telefono ed è il mio bell’amante che m’inventa una scusa dopo due ore che aspetto, mi dà appuntamento per domani, ma sa già che non potrà rispettarlo mentre le mie gambe hanno oramai il sapore dell’indecenza, spalancate oltre l’effimero d’una tinta, oltre l’impaccio dello straniero che resta immobile a fissarmi.

Stringo gli occhi per trattenere quel poco di amor proprio che ancora m’è rimasto, mentre un velo d’inutilità e tristezza m’avvolge e m’immobilizza come una fitta rete da pesca. Nell’oscurità delle palpebre umide vedo la sua ombra, oramai non più timida, alzarsi e venirmi vicino. Come se questo mio pianto senza lacrime che scende gli abbia dato l’intraprendenza di corteggiare una donna e magari farsela tutta dentro un cesso della stazione.

Si siede accanto e senza dire nulla m’accosta le gambe come se ormai fosse lui il padrone, come se altri non dovessero vedere quello che lui ha visto per ore. Senza accortezza poggia una mano sulla mia gonna, prima che abbia il tempo di rialzarmi, prima che la mia faccia possa assumere un aspetto perlomeno di sorpresa, prima di chiamare un poliziotto e fare la scena. “Un uomo mi sta violentando, sta sporcando con le sue mani la mia fica borghese appena lavata che offro soltanto ad un uomo sposato!” Lo penso, ma rimango ferma.

“Signora, la seguo.” Mi dice, afferrandomi un braccio con un sorriso tranquillo. “La seguo fin dove ora la porta il suo bisogno di sentirsi desiderata, fin dove il destino accomuna tutte le donne che non hanno ancora imparato a distinguere il piacere dall’amore.” Parla un italiano perfetto, sembra un professore di filosofia, con un accento che non è poi lontano da qui. Mi guarda con un sorriso magnetico: “La seguo ovunque lei voglia, anche dentro quel cesso…” La sua voce è un misto di sfida e compassione. “Fino a quando il suo essere di femmina si sazi delle tante attese di tutti gli uomini che l’hanno delusa.”

Le sue parole si insinuano nei miei pensieri, scavando il mio bisogno che mi tiene qui, in questa squallida salda d’attesa, a inseguire sguardi e momenti che mi facciano sentire almeno viva. Ma non è solo di me che parla: è come se vedesse tutte le donne che, come me, si sono perse in questa danza di attese, di promesse non mantenute, di uomini che ti guardano, ma non ti vedono davvero. Uomini che ti fanno sentire desiderata per un istante, ma poi ti lasciano con un vuoto che pesa più di prima.

“Lei corre dietro a qualcosa che non esiste.” Continua, abbassando appena la voce, come se stesse confidando un segreto. “Pensa che il desiderio di un uomo, il suo sguardo, il suo tocco, possa riempire quella voragine che sente dentro. La seguo, sì, ovunque lei voglia spingersi oggi.” Dice, indicando con un cenno il bagno lurido in fondo al locale. “Perché so che è lì che cerca qualcosa. Un brivido, un’illusione, una prova che lei esiste ancora per qualcuno come se fosse un desiderio di uno sconosciuto a definirla, contro tutti gli altri che l’hanno fatta aspettare, che l’hanno usata, che l’hanno dimenticata, ma non erano altro che specchi rotti, incapaci di rifletterla davvero.”

Le sue parole mi fanno male, ma non riesco a distogliere lo sguardo. È come se stesse smontando pezzo per pezzo la mia storia, le mie scelte, i miei errori. Parla di un “essere di femmina” che non è solo il mio corpo, ma qualcosa di più profondo, un’essenza che si è nutrita troppo a lungo di attenzioni sbagliate. Sono confusa, non capisco e non decido, ma lui non ha tempo d’aspettare che io mi riprenda, che l’ultimo barlume di coscienza abbia il sopravvento e mi detti ragione. Non ha tempo ed io mi lascio trascinare dove l’odore di piscio è più intenso, dove un essere umano non potrebbe mai sentirsi desiderato.

Tra il via vai di gente che entra in fretta ed esce indifferente mi trascina dentro un cubo di piastrelle umide e verdastre che hanno soltanto il soffitto per respirare. Accosta la porta senza chiuderla e m’appoggia a forza sul lavandino con una gamba che dondola e l’altra puntata sul pavimento bagnato. “Sono qui per servirla.” Mi sussurra con un filo di voce, mentre slaccia bottoni e pudore della mia camicia trasparente. Senza nessun trasporto mi scopre una tetta. “Se lei è d’accordo potremmo aprire la porta ed offrirla al primo che entra.” La tiene in mano senza accarezzarla, come per farmi un favore, come un paio di scarpe davanti alla commessa che t’invita a comprarle. Si scosta per vedere l’effetto delle mie gambe allargate, per vedere il mio seno indecente con gli occhi del primo che ignaro varcherà quella soglia.

Mi ordina di guardarmi intorno, mi dice che non c’è differenza, che anche io faccio parte di quell’arredamento, che chiunque entrando potrebbe usufruirne. “Non si stupisca, sono qui per guarirla!” Mi dice sbottonandosi la patta. Con mossa esperta allarga le mie cosce fino al punto che le mie mutande bianche, tirandosi, non coprono più niente. Potrei ancora ribellarmi, potrei ancora saltare giù dal lavandino uscire di corsa e chiedere aiuto, potrei … un bel niente, quando il suo sesso indurito per ore d’attesa s’accosta. Fa finta, ma non mi penetra. Mi strofina il piacere e si ritrae per poi tornare più gonfio senza avanzare di un millimetro. Scosta le mie pieghe ed adagia il suo sesso, lo bagna e l’intinge appena fissando i miei occhi, premendomi nel punto dove non c’è più ragione, dove nessun uomo avrebbe ancora la facoltà di stare lì a pensarci.

Faccio per gridare, ma è solo desiderio, soltanto voglia d’essere presa in fretta e contro la mia volontà, contro qualsiasi perbenismo che mi vorrebbe vigile, contro qualsiasi morale che mi vorrebbe schifata di ogni maschio che s’infila tra la mia carne senza un minimo di sentimento. Lo guardo e penso che in fin dei conti mi sta solo fottendo, come una cagna in mezzo ad un branco, come una puttana di notte che ancheggia estasiata in attesa della coda.

“Signora, non si agiti, non sia precipitosa, le sto facendo soltanto un favore!” Mi obbliga con voce ferma a trattenere il fiato, a convincermi che è solo questione di secondi, di un colpo bene assestato che tra meno di un niente si farà uragano, tempesta e ciclone per interminabili minuti. Lo vedo, tiene in mano il suo orgoglio e gioca con le mie labbra bagnate, le divarica e le riaccosta, le preme per millimetri che sembrano metri per poi ricominciare fino a che prendo respiro ed aspetto di nuovo.

Dopo minuti d’attesa mi rendo conto che non vuole darmi piacere, che il suo pene eretto oltre l’impossibile non entrerà né ora né mai. Eppure non ci vorrebbe niente, basterebbe una leggera pressione, quasi una disattenzione per farlo cadere dove il mio sesso lo reclama a gran voce. Non credo di aver mai raggiunto questo diametro d’invito, non credo d’aver mai desiderato un maschio senza un velo di affetto che m’illudesse di non essere animale. Ma lui non vuole congiungersi, non vuole darmi piacere, vuole solo farmi provare fino alle viscere un immenso desiderio senza amore.

Pazza di follia lo prego di entrare, lo invito a dar retta al suo sesso, al suo orgoglio di maschio che non perde occasione di scaricare le voglie, ma lui imperterrito continua ad accarezzarmi, a dimostrarmi quanto il desiderio sia più forte di qualsiasi orgasmo, oltre il quale non nulla neanche la ragione di aspettare un architetto dentro una sala d’attesa.

Tra le crepe dello specchio riesco ad intravedere la sua mano che veloce assesta gli ultimi colpi al suo piacere. “Aspetta!” Cerco di urlargli con quanta voce la mia delusione consente. Ma lui continua a strofinarsi ed accarezzarmi e mi dice di non preoccuparmi, di aspettare ancora qualche momento. Ora lo sento, si avvicina con il suo corpo scomposto e preme tra le mie gambe capienti, ma qualcuno in preda all’urgenza apre la porta e guarda allibito. Lui si ferma, s’allontana e lo invita indicando l’oggetto che freme, la mia fica borghese che ora non distinguerebbe un uomo ad un sesso.

Cerco di sorridere, ma l’altro declina e cortesemente rifiuta, poi entra nell’altro bagno e chiude la porta. Oramai sono senza controllo, la mia carne impazzisce pensando che uomo qualunque abbia rifiutato cortese queste gambe allargate, queste mutande che pendono, preferendomi un cesso più adatto ai suoi bisogni. Grido, urlo tra un altoparlante che gracchia ed un treno che parte e la scena di colpo svanisce.

Mi sveglio di soprassalto e lo vedo ancora seduto nella stessa posizione intento a cercare di scoprire il colore delle mie mutande. In preda al pudore stringo le mie gambe a morsa. Mi guarda deluso, ma io arrossisco provando vergogna al solo pensare che sia entrato nel mio sogno. Mi alzo e gli sorrido quasi ringraziandolo perché questo pomeriggio non è passato per niente, perché il mio sesso non sarà più un lavandino senza tappo e senza fondo in nome d’un feticcio d’amore, perché finalmente m’accorgo che fino ad oggi, gli uomini tutti, invece del sesso m’hanno solo fottuto l’anima e il cuore.

 



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