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Adamo Bencivenga
MANCAVANO TRE MESI AL MIO MATRIMONIO



 
Mancavano appena tre mesi al giorno del mio “sì”. Avevo 37 anni, e la mia vita con Gloria era un rifugio sicuro, tutto quello che finora avrei mai potuto sperare. Il nostro rapporto era una culla, una tana, un luogo tranquillo dove ogni cosa sembrava al suo posto. Cinque anni insieme, fatti di comprensioni, risate, viaggi improvvisati, complicità e silenzi quando ci guardavamo dentro e scoprivamo di essere l’uno per l’altra. Insomma eravamo pronti a sposarci, a sigillare il nostro amore sotto un cielo d’estate, a gridarlo al mondo compresi amici e parenti, con il profumo dei fiori d’arancio e la promessa di non lasciarci mai.
Gloria, aveva due anni meno di me, era bella bionda procace con un fisico che attirava sguardi maschili e femminili a non finire. Sempre pronta allo scherzo, riusciva a dare leggerezza a qualsiasi noia. L’avevo conosciuta ad un master all’università e sin da subito tra noi era scoppiata una complice e totale simpatia. Lavorava in banca, in una filiale di Roma Centro, mentre io, laureato in Economia, gestivo una strategica agenzia immobiliare che si occupava in modo particolare di case e residence per le vacanze.

******

Tre mesi prima del grande evento Gloria mi chiese di accompagnarla ad una festa di lavoro per festeggiare l’anniversario dei 100 anni della sua banca in un grande locale all’Eur. Appena arrivati fummo coinvolti da un caos ordinato di voci, risate, battute, bicchieri che tintinnavano, tappi di spumante che volavano ad altezza uomo e musica ad alto volume.
Gloria, radiosa nel suo vestito blu e verde smeraldo, tenendomi per mano mi presentò via via ai suoi colleghi con quel sorriso materno che mi aveva sempre fatto sentire a casa. E fu lì che qualcosa successe. Tra i tanti suoi colleghi mi presentò Carlotta. Lei, stranamente sola, era seduta al bancone del bar con in mano un calice di Spritz, avvolta in un seducente vestito nero e un alone di splendore che sembrava risucchiare tutta la luce intorno a sé. I suoi capelli morbidi rossi cadevano sulle sue spalle scoperte come seta, e il suo sorriso aveva una forza magnetica che mi colpì dritto al petto. Non riuscivo a smettere di guardarla. Quando Gloria, ignara, ci presentò – “Carlotta, una delle mie colleghe preferite!” – Sentii il cuore inciampare. La mano di Carlotta era calda, il suo sguardo un invito pericoloso e la sua voce mi scivolò dentro come un sussurro. Dissi: “Piacere, Graziano.” E dentro di me sentii uno strano magnetismo, come se quella persona sconosciuta nella realtà l’avessi già incontrata in un’altra dimensione.

Gloria risucchiata da altri colleghi ci lasciò soli e noi iniziammo a parlare, all’inizio di cose banali – il lavoro, la città, un libro che entrambi avevamo letto, un film che ancora non avevamo visto. Ma ogni parola sembrava scavare più a fondo, come se stessimo cercando di afferrare qualcosa in comune che entrambi avevamo già vissuto. Ridevamo, e ogni risata era un filo che ci legava. Mi sentivo ubriaco, non di vino, ma di lei. Ed a poco a poco la conversazione prese una piega diversa. Non era più solo chiacchiere. Lei mi parlò del suo disagio: “Sai qui mi sento come un pesce fuor d’acqua…” Poi parlammo di momenti in cui ci eravamo sentiti persi, di sogni messi in pausa, di come il suono della pioggia in una sera d’autunno potesse sembrare una musica che nessun altro sentiva. Ogni frase che Carlotta diceva sembrava un’eco di qualcosa che avevo già pensato, vissuto, sentito. E quando io parlavo, vedevo nei suoi occhi lo stesso lampo di riconoscimento, come se anche lei trovasse pezzi di sé nelle mie parole.

“Ti è mai capitato…” Disse a un certo punto, abbassando la voce come se stesse confidando un segreto. “Di sentirti come se stessi cercando qualcosa, ma non sai cosa?” Annuii, senza bisogno di aggiungere altro. Le parole scorrevano facili, come un fiume che trova il suo corso naturale, e ogni risata, ogni pausa, sembrava sigillare un’intesa che non aveva bisogno di spiegazioni. Quando Gloria tornò, con il suo entusiasmo rumoroso, ci guardò come se avesse interrotto qualcosa di prezioso. “Che avete da bisbigliare voi due?” Chiese, ridendo. Non rispondemmo. Non serviva. In quella mezzora avevamo trovato un frammento di qualcosa che, forse, stavamo cercando da sempre.

Tornato a casa, mi girai più volte nel letto, incapace di chiudere gli occhi: Carlotta occupava ogni mio pensiero e accelerava il battito del mio cuore. Mi ripetevo che fosse solo un’infatuazione, un momento di follia che sarebbe svanito con le prime luci dell’alba. Cercando di distrarmi, pensai alle mie prossime nozze con Gloria, ma fu allora che un profondo senso di colpa mi travolse, intrappolandomi in una morsa di rimorsi. Ogni mio pensiero sembrava un tradimento che scivolava verso un abisso che non riuscivo a comprendere del tutto. Amavo Gloria, la sua risata rumorosa, il modo in cui organizzava ogni dettaglio della nostra vita, la sicurezza che emanava. Ma quell’incontro mi aveva aperto spiragli che non conoscevo, era come se con Carlotta avessi intravisto una versione di me che non conoscevo, una porta socchiusa su possibilità che non avevo mai osato immaginare.

La mattina mi alzai confuso, era una bella domenica di fine maggio, misi su la moca e chiamai Gloria per il solito buongiorno, ma poi sul telefono le mie dita curiose trovarono il profilo di Carlotta, su Facebook e senza pensarci troppo le scrissi: “Ti andrebbe un aperitivo prima di pranzo?” Scrivere quel messaggio fu come premere un interruttore: un gesto semplice, ma pieno di aspettative e conseguenze. Bevvi il caffè guardando fuori dalla finestra, ma ogni secondo di attesa per la sua risposta fu una vera e propria agonia.
Quando lei rispose, proponendo una cena, sentii un brivido elettrico corrermi lungo la schiena, un’ondata di eccitazione che si scontrava violentemente con il senso di colpa che mi stringeva lo stomaco. Era come camminare su un filo sospeso: da un lato, l’ebbrezza di inseguire quella connessione inspiegabile con Carlotta; dall’altro, il peso della fedeltà a Gloria, della vita che stavamo costruendo giorno dopo giorno. Mi chiesi se fossi un mostro, se quel desiderio di rivedere Carlotta fosse un tradimento imperdonabile.

Ogni pensiero di lei era accompagnato da un fremito di vergogna, come se stessi rubando qualcosa a Gloria, qualcosa che le apparteneva di diritto. Eppure, non riuscivo a fermarmi. L’idea di quella cena, di ritrovare quell’intesa, di vedere se quel fuoco fosse reale o solo un’illusione, era più forte di ogni rimorso. Mi sentivo come un uomo che, dopo anni di navigazione tranquilla, si trovava improvvisamente in balia di una tempesta: spaventato, ma incapace di resistere al richiamo del mare aperto. Mentre fissavo lo schermo del telefono, con il messaggio di Carlotta che brillava come una provocazione, mi resi conto che stavo per fare un passo che non avrei potuto mai cancellare. Chiusi gli occhi, respirando profondamente, e mi chiesi se avrei avuto il coraggio di affrontare ciò che mi aspettava – o se, alla fine, quell’affetto smisurato per Gloria mi avrebbe riportato indietro.

*******

Scelsi un piccolo ristorante in collina, fronte lago, lontano da occhi indiscreti. Carlotta era splendida, indossava un abito in seta nera, lungo fino al ginocchio, con una scollatura a V che esaltava la sua figura con eleganza discreta, stretto in vita da una cintura sottile in velluto color smeraldo, aggiungendo così un tocco di colore raffinato. Completavano il look un paio di décolleté nere, una clutch argentata e un filo di perle al collo che le donava una raffinatezza senza tempo.
Quel magnetismo che avevo sentito la sera prima non si era affatto dissolto, anzi seduti in un angolo del locale parlammo per ore, avidi di conoscerci e di scoprirci. Lei mi raccontò della sua infanzia passata in un paesino di mare, dei sogni che custodiva gelosamente e delle paure per quel futuro incerto, dato che non era stata ancora assunta a tempo indeterminato dalla banca.
Io le parlai del mio lavoro e della mia passione per la musica, un pezzo di me che avevo sepolto per i tanti impegni. Ogni parola ci avvicinava, ogni silenzio una pausa per ricaricarci. E quando le nostre mani si sfiorarono, fu come accendere una scintilla in una stanza piena di benzina. Nessuno dei due esitò, ci stringemmo via via sempre più forte e il bacio che arrivò tra il dessert e la frutta fu inevitabile.
Fu a quel punto che confessammo entrambi di essere rimasti svegli per tutta la notte e fu sempre in quell’istante che pagai il conto in fretta desideroso solo di non perdere neanche un secondo della sua bocca. Ci baciammo ripetutamente in macchina e nel giardino, con la luna che filtrava dalle tende. Entrati in casa, avidi dei nostri corpi, ci spogliammo in ingresso e baciandoci ancora consumammo quella passione tra il divano in soggiorno e la sua camera da letto. L’amore fu qualcosa di sublime. Tra le sue braccia, tra le sue gambe calde mi sentii di nuovo desideroso di donare ogni parte di me ed altrettanto fece lei che non si risparmiò offrendomi tutto l’amore di una vita in una sola notte. Ma al mattino, la realtà mi lasciò senza fiato. Carlotta, che si era svegliata prima, porgendomi la tazzina di caffè, con un sorriso triste, mi disse: “Sai che stai per sposarti, vero? Questa è stata solo una parentesi, Graziano. Non voglio essere la causa di un disastro.” Quelle parole mi trafissero. Mi rivestii in silenzio e sulla porta, salutandomi, lei mi disse: “Comunque è stato bellissimo, grazie!”

Aveva ragione: “Era stato bello così” e prima di tornare a casa, deciso a seppellire quel fuoco, feci un salto a casa di Gloria. Lei era raggiante, immersa nei preparativi delle nozze: il vestito, le bomboniere, la musica per il ricevimento. Io sorridevo, annuivo, ma dentro di me infuriava una guerra. Ogni tanto, il pensiero di Carlotta tornava come una marea, minacciando di trascinarmi via.
Quei tre mesi passarono in fretta. Davanti all’altare, guardavo Gloria avanzare, splendida nel suo abito bianco. Era bellissima, e per un istante pensai che avrei potuto farcela, che avrei potuto essere l’uomo che lei meritava. Pronunciai il “sì” con una voce che sembrava quella di un altro, mentre la folla applaudiva. Ma quella notte, mentre Gloria dormiva tra le mie braccia, fissavo il soffitto, il cuore pesante come piombo. Carlotta mi tornava sempre in mente e mi rendevo conto che non era stato un capriccio, ma un pezzo di me che non riuscivo a ignorare.

Nei mesi successivi, cercai di essere il marito perfetto. Ma ogni giorno era una lotta contro me stesso. Pensavo a lei, al suo sorriso, ma soprattutto a quella sensazione di libertà e di essere me stesso quando ero con lei. Poi, un pomeriggio di fine autunno, la vidi non so quanto per caso, su una strada affollata vicino alla filiale dove lavorava. Indossava un impermeabile bianco, i capelli mossi dal vento. Ci fermammo, quasi increduli, e le proposi un caffè. Le dissi: “Sei tu vero? O sto sognando?” Lei sorrise fissandomi con quello sguardo che non avevo mai dimenticato.

Seduti al bar, le parole sgorgarono come un fiume. Le confessai tutto: l’attrazione che non si era mai spenta, il rimpianto di non aver ascoltato il mio cuore, la sensazione che con lei ero finalmente vero e senza finzioni. Lei mi ascoltava, gli occhi lucidi, poi alle fine mi disse: “Non dovremmo, Graziano.” Ma la sua voce tremava, e capii che anche lei era intrappolata in quel vortice e non mi aveva mai dimenticato. Passarono altri due giorni, poi lei mi mandò un messaggio e da quel momento iniziammo a vederci in segreto. Ogni incontro era un misto di gioia e colpa. Mi sentivo diviso in due: l’uomo che aveva giurato amore eterno a Gloria e l’uomo che si stava innamorando di un mondo che non conosceva, ma dal quale si sentiva rapito. Ogni bacio era una promessa, ogni carezza un impegno, un giuramento, ma anche un tradimento.
Avevo un’amante, già. Mai mi sarei immaginato, io, Graziano, l’uomo che si era sempre vantato di essere retto, leale, di parola. Eppure, eccomi lì, a comportarmi proprio come un amante, come tanti, come tutti tra sotterfugi, scuse, segreti e bugie. Fingevo con Gloria, inventando riunioni di lavoro che non esistevano, cene con colleghi mai avvenute, mentre correvo da Carlotta in angoli nascosti della città, in bar fuori mano o a casa di lei. Vivevo una doppia vita e ogni menzogna era un mattone che aggiungevo al muro tra me e mia moglie, un muro che cresceva in silenzio, ma che sentivo crollarmi addosso ogni volta che tornavo a casa e vedevo gli occhi fiduciosi di Gloria.

Eppure, con Carlotta, non riuscivo a fermarmi. Era come se con lei il mondo si accendesse di colori che non sapevo esistessero. Ogni parola, ogni risata, ogni tocco mi faceva sentire vivo, come se stessi respirando per la prima volta dopo una lunga apnea. Ogni volta, prima durante e dopo l’amore ci ripetevamo che era sbagliato, che non avremmo dovuto, ma era più forte di noi.
E quando tornavo a casa la realtà mi colpiva come un pugno. Gloria, con la sua dolcezza, la sua leggerezza, i suoi piccoli gesti quotidiani – il caffè pronto al mattino, il modo in cui mi sistemava la cravatta prima di uscire, la mia biancheria sempre ordinata nei cassetti – mi ricordava chi ero stato, chi avevo promesso di essere. E io, invece, mi guardavo allo specchio e vedevo un estraneo, un ipocrita che si nascondeva dietro un sorriso falso.

Pensavo spesso a come fosse successo. Non era solo attrazione fisica, anche se Carlotta aveva quel modo di muoversi, di guardarmi, che mi faceva perdere il controllo. Era qualcosa di più profondo, come se lei vedesse una parte di me che avevo sepolto, quella parte che sognava, che voleva di più, che non si accontentava di una vita ordinata. Con Gloria ero il marito perfetto, ma con Carlotta ero semplicemente Graziano. E questo mi spaventava, perché significava che stavo vivendo una menzogna, non solo con mia moglie, ma con me stesso.

Ogni volta che incontravo Carlotta, mi dicevo che sarebbe stata l’ultima. “Basta, devo smettere.” Pensavo mentre guidavo verso casa, il profumo di lei ancora sulle mani. Ma poi arrivava un suo messaggio, una frase semplice come “Mi manchi…” o “Quando ti vedo?” E ogni mia risoluzione crollava. Ero intrappolato, diviso tra il dovere e il desiderio, tra la vita che avevo scelto e quella che mi chiamava. Sapevo che non poteva durare, che prima o poi avrei dovuto scegliere. Ma scegliere significava distruggere qualcosa, qualcuno. E io, codardo, continuavo a rimandare, a vivere di momenti rubati, di bugie sussurrate, di promesse che non potevo mantenere.

******

Dopo otto mesi, non ce la feci più. Una sera, seduto sul divano accanto a Gloria, trovai il coraggio. Più volte nelle sere precedenti mi ero preparato un discorso pieno di affetto e tenerezze, ma poi davanti a lei mi uscì in un solo fiato: “Gloria, sono innamorato di un’altra donna. Voglio la separazione.” Fu un fulmine a ciel sereno, lei mi fissò incredula, dapprima rise, ma poi il suo volto divenne bianco come un panno lavato. Mi guardava fisso come se da un momento all’altro si aspettasse che le dicessi che fosse uno scherzo. Ma purtroppo era la verità e le lacrime iniziarono a rigarle le guance, silenziose all’inizio, poi un singhiozzo le sfuggì, spezzando il silenzio della stanza.
Si alzò dal divano, le mani nei capelli, camminando avanti e indietro come se cercasse di afferrare un senso in ciò che aveva appena sentito. “Graziano, dimmi che non è vero,” implorò, fermandosi di colpo e voltandosi verso di me. “Dimmi che è un errore, che non mi stai facendo questo.” I suoi occhi, lucidi e disperati, cercavano nei miei una smentita, una qualsiasi ancora a cui aggrapparsi. Ma non potevo darle ciò che voleva. Non potevo più vivere nella menzogna.
“Chi è lei?” chiese, la voce che si incrinava in un misto di rabbia e dolore. “Da quanto tempo? Da quanto mi prendi in giro, Graziano?” Le sue parole erano un’accusa, ma anche una supplica, come se conoscere i dettagli potesse in qualche modo rendere la realtà meno devastante. Si sedette di nuovo, le mani strette in grembo, le dita che si torcevano nervosamente. “Ho dato tutto per noi.” Disse piano, quasi parlando a se stessa. “Ho rinunciato a così tanto… il mio lavoro, i miei sogni, per costruire questa vita con te. E tu… tu mi ripaghi così? Con un’amante? Con una pugnalata alle spalle?”
Le sue lacrime cadevano copiose, e ogni singhiozzo sembrava strapparle un pezzo di anima. “Ti ho amato, Graziano. Ti ho creduto quando mi hai promesso che saremmo stati insieme per sempre. Ogni giorno, ogni maledetto giorno, ho fatto di tutto per renderti felice. E tu… tu eri altrove. Con lei.” La sua voce si spezzò sull’ultima parola, e si coprì il viso con le mani, come se non sopportasse più di guardarmi. “Cosa c’è in lei che io non ho? Dimmi, cos’è che ti ha fatto buttare via tutto?”

Le chiesi scusa, ancora e ancora, ma le mie parole suonavano vuote, inutili. “Non volevo farti soffrire.” Dissi, ma lei scosse la testa, un sorriso amaro che le increspava le labbra. “Non volevi farmi soffrire?” Ripeté, quasi ridendo, ma era un suono pieno di dolore. “E allora perché non hai smesso? Ogni volta che mi sorridevi, ogni volta che mi toccavi, eri con lei nella tua testa, vero?” Si alzò di nuovo, il corpo rigido, come se cercasse di trattenere ciò che restava di sé. Poi urlando disse: “Vattene. Non voglio più vederti.”

Mi sentivo un mostro, schiacciato dal peso del suo dolore, ma in fondo, sapevo che era la cosa giusta. Non per lei, forse, non in quel momento, ma per la verità che non potevo più soffocare. Ogni sua lacrima, ogni sua parola, era una condanna che meritavo, ma non potevo tornare indietro. Non più. Le chiesi scusa, ancora e ancora, ma nulla poteva cancellare il suo dolore ed io non potevo continuare a fingere. Io e Carlotta, finalmente liberi, costruimmo una vita insieme. Ci sposammo sotto un cielo stellato, in una cerimonia semplice ma piena di amore. Quando nacque nostra figlia, un raggio di sole con i suoi occhi, sentii che ogni passo, ogni dolore, mi aveva portato lì, a quel momento. Eppure, a volte, penso ancora a Gloria. Il rimpianto mi morde: non per aver scelto Carlotta, ma per non aver avuto il coraggio di fermarmi prima, di non aver detto a Gloria di quella sera, tre mesi prima di sposarci. Forse non le avrei risparmiato il dolore, ma mi sarei comportato da persona onesta.
Ora seduto sulla mia poltrona di vimini preferita, guardo mia figlia e guardo Carlotta che giocano in veranda, e so che, nonostante quella ferita che ancora sanguina, di aver trovato il mio posto nel mondo.





Questo racconto pur basato su fatti di
cronaca è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.

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