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RACCONTO

Adamo Bencivenga
L'OMBRA NELLA NOTTE
Tra il peso della sopravvivenza e la
ricerca di un frammento di dignità, Yara incarna il dramma
universale di chi vive ai margini di una società distrutta dalla
guerra. In un mondo di macerie e ipocrisia la sua vita notturna è un
grido di resistenza contro un’esistenza che la riduce a un’ombra

Passeggio per le strade di
Kalatà, la mia città, qui tutto è un velo di polvere e
paura. Da dopo la guerra nulla è rimasto uguale. Dicono
che sia stata la liberazione, ma io sinceramente non
vedo nulla di positivo. La chiamo Kalatà, ma è un nome
che ho inventato. Non importa dove sia o come si chiami
davvero, perché tutte le città del mondo, dopo una
guerra, sono uguali. Puzzano di morte e tragedia, di
cenere e rimpianti. Le strade, i volti, le case
distrutte… tutto si mescola in un’unica ferita che non
smette di sanguinare. Le sue strade, coperte di polvere
e macerie, raccontano una storia universale: quella di
case sventrate, mercati silenziosi e vite distrutte. È
un luogo dove il tempo sembra essersi fermato,
intrappolato tra il fragore delle bombe passate e il
peso di un presente senza speranza. Kalatà è ovunque ci
sia stato conflitto, ovunque la paura e il caos abbiano
preso il posto dell’ordine, per quanto fragile fosse.
Certo non è che prima si stava bene, perché
Kalatà è stata sempre una città contesa tra il governo
centrale e le forze rivoluzionarie, poi però sono
arrivate le bombe dei russi, degli inglesi e
immancabilmente degli americani. Prima della guerra la
vita aveva un ordine, anche se duro, c’era paura, sì, ma
era una paura prevedibile. Sapevi chi evitare, cosa non
dire. Al tempo sognavo di studiare, magari di
diventare insegnante o una parrucchiera. Ma la guerra ha
cambiato tutto. Quando le bombe hanno smesso di cadere e
i carri armati hanno occupato le strade, la città si è
trasformata. Non c’era più un governo, non c’era più un
sistema, un punto di riferimento e nemmeno una tubatura
d’acqua funzionante. Solo polvere e caos.
Le
strade di Kalatà sono diventate un labirinto di
checkpoint e milizie e noi donne siamo finite in mezzo,
oppresse e subalterne come prima. Le famiglie si sono
spezzate, gli uomini sono partiti per combattere o sono
morti, e molte di noi sono rimaste sole, senza niente.
Le poche donne che lavoravano sono state licenziate ed è
stato allora che ho dovuto prendere la mia decisione,
perché non c’era altro modo per sopravvivere.
La
società è cambiata, e io l’ho vista mano mano nei
dettagli, nei piccoli gesti. Prima si usciva per un
caffè, una passeggiata con le amiche, ma ora, le strade
sono piene di ombre come me, ragazze che vendono quello
che resta di loro stesse. Non è solo la povertà, è la
libertà malata che è arrivata con gli invasori. Dicono
che ci abbiano liberate, ma per molte di noi è una
libertà che sa di catene. Gli uomini locali hanno
iniziato a guardarci diversamente, senza rispetto. Non
più come sorelle o figlie, ma come prede. I soldati
stranieri, con i loro soldi facili, hanno portato un
mercato nuovo, e noi siamo diventate come la merce
esposta nei mercati.
Io, che cammino di notte per
le strade di Kalatà, vedo gli sguardi delle altre donne,
quelle che ancora hanno una casa, una famiglia. Mi
giudicano, ma non sanno che anche loro sono a un passo
dal mio destino. Basta una bomba, un marito morto o una
casa distrutta. Del resto siamo sempre le prime a
pagare. Ci dicono di non parlare, di non esistere.
Eppure, allo stesso tempo, ci sono uomini che vengono da
noi, di nascosto, e poi di giorno fanno finta che non
esistiamo. È un’ipocrisia che mi fa ribollire il sangue.
Non so se questo sia il futuro immaginato per noi.
Dicono che stiamo costruendo un futuro, ma io vedo solo
macerie. Le scuole sono chiuse, gli ospedali sono un
disastro, e le ragazze come me non hanno più sogni. Qui
a Kalatà, il cambiamento è un lusso che non possiamo
permetterci.
Oh che sciocca non mi sono ancora
presentata! Mi chiamo Yara, ho vent’anni, ho gli occhi
verdi, un neo poco sotto l’occhio sinistro e due labbra
grandi e rosse che sono l’unica mia fonte di guadagno. I
miei sono morti per una bomba assassina durante la
guerra ed io vivo con le mie sorelle. I giornali e le
televisioni hanno smesso di parlare di noi, perché per
loro la guerra è solo bombe e morte, ma la vera morte è
ora per chi è sopravvissuto. Forse un giorno qualcuno
ricorderà che oltre ai morti c’eravamo anche noi, noi
sopravvissuti, schiacciati tra le macerie di una guerra
che non abbiamo scelto. Ed io senza più padre e madre
sono dovuta crescere in fretta.
Di notte le
strade si svuotano e tra i vicoli illuminati pulsa un
mondo che nessuno vuole nominare e quello è il mio
mondo. Seduta sulle rovine di un palazzo sventrato
guardo la città che si spegne. È mezzanotte, e l’unico
suono che mi accompagna è il ronzio intermittente di un
generatore in lontananza. La luce gialla di un lampione
mezzo rotto illumina a stento il mio angolo di mondo.
Indosso calze a rete dorate e rosse, che scintillano ai
riflessi della luna. I tacchi vertiginosi, neri e
lucidi, mi sollevano da terra, ma non dal peso di questa
vita. Il vestito sintetico che brilla come seta vera,
aderisce al corpo con una scollatura che lascia poco
all’immaginazione. Sotto, la lingerie è un segreto che
porto con me: un reggiseno di pizzo nero ricamato e un
perizoma coordinato, comprato a borsa nera da un uomo
che non fa domande. Ogni pezzo è un’armatura che mi
costruisco, un’illusione di potere in un mondo che me lo
strappa via.
Prima di uscire, il rituale è
sempre lo stesso, mi vesto con cura come se stessi
dipingendo un quadro. Nella stanza che divido con le mie
sorelle, mi preparo in un angolo, dietro una tenda
logora che funge da separé. Mi siedo su una sedia di
plastica, davanti a uno specchio incrinato che
apparteneva a mia madre. Il beauty-case è un caos di
trucchi rubati o comprati a poco prezzo: il rossetto
rosso fuoco che spalmo con cura seguendo il contorno
delle labbra con un pennellino consumato; il kohl, nero
e denso che stendo con le dita, sfumandolo fino a far
sembrare i miei occhi più grandi. Ogni gesto è un atto
di trasformazione, un passaggio da chi sono a cosa devo
apparire. La lingerie è nascosta sotto un lenzuolo,
lontano dagli occhi delle mie sorelle. La scelgo con
cura: il pizzo nero è un lusso che mi concedo, un
frammento di bellezza in un mondo che la nega. Il
reggiseno ha le spalline sottili e il perizoma, con il
suo bordo di pizzo, è così fragile che sembra possa
strapparsi al primo movimento. Faccio tutto in silenzio
e rapidamente come se stessi commettendo un crimine. E
forse lo è, in un certo senso. Ogni volta che mi vesto
così, sento il peso di una doppia vita: la ragazza
immacolata di giorno e questa creatura notturna, che
esiste solo sotto la luce del neon.
Sono gesti
rapidi e meccanici e non c’è più poesia, ma solo
abitudine e l’ostinazione di piacere per qualche dollaro
o rublo in più. Le mie sorelle sanno cosa faccio, che
faccio la puttana, anche se non lo diranno mai ad alta
voce. Quella parola ci fa paura e schifo. Quando torno a
casa all’alba, con il trucco sbavato e i tacchi nascosti
in una borsa di plastica, i loro occhi mi evitano
facendo finta di dormire. Non c’è giudizio nei loro
sguardi, solo una rassegnazione che ci accomuna. Siamo
orfane e la sopravvivenza ha un prezzo che paghiamo in
modi diversi. La più grande, lava i panni per le
famiglie ricche di Kalatà; la più piccola vende agli nei
vicoli. Io porto a casa i soldi che tengono insieme i
pezzi della nostra vita. La vergogna mi brucia dentro
quando mi siedo con loro a colazione, con il sapore del
rossetto ancora in bocca e l’odore di profumo scadente
che mi segue come un’ombra.
Mi guardo allo
specchio e mi vedo bella, non per i miei occhi, ma per
gli sguardi dei maschi che tra poco mi divoreranno. Per
lavorare ho dovuto accettare di vestirmi in questo modo
perché la concorrenza anche se non si vede è molto
agguerrita. La lingerie la compro in un sexy shop, per
così dire, ma in realtà è un negozio che di giorno in
vetrina espone detersivi e roba per la casa, ma quando
il sole tramonta, il titolare, un uomo basso con i baffi
ingrigiti, tira fuori la merce vera. La porta si chiude
a chiave, e il negozio si trasforma. Dietro un bancone
di legno, c’è una tenda di perline che nasconde una
stanza sul retro. È lì che tiene la roba. Non sarebbe
illegale venderla, ma lui sente il peso della vergogna
come se stesse spacciando droga. Quando vado a
comprare, è sempre lo stesso copione. Lui non fa
domande, ma a volte allunga le mani ed io accetto perché
mi fa lo sconto. Poi mi passa un sacchetto nero e io
pago. Non scelgo quasi mai, tanto non è per me quella
roba. L’ultima volta, mi ha venduto un completino di
pizzo nero, quello che indosso stasera. “Buona qualità,
non come quella cinese, e poi su di te farà un effetto
incantevole…” Ha detto. Ho controllato la merce sotto la
luce fioca: il pizzo era ruvido, ma aveva un’aria di
eleganza che mi ha fatto sentire, per un istante, meno
sola. Ho pagato senza contrattare, perché il tempo è
denaro, e il mio tempo scorre troppo in fretta.
Ora seduta su queste rovine, con il vento che mi porta
l’odore di fumo e metallo, mi chiedo se questa sia
davvero la mia vita. Il rossetto rosso fuoco, il kohl
che mi brucia gli occhi, le calze a rete che mi
graffiano la pelle: sono la mia armatura, ma anche la
mia prigione. Kalatà dorme, ma io sono sveglia, un’ombra
tra le ombre, in attesa di un cliente, di un’alba, di
qualcosa che non so nemmeno nominare. Questo è il grande
buco nero ed io sono il suo segreto. Quando le serrande
dei negozi si abbassano, la vita rispettabile finisce e
inizia un’altra realtà. Un mondo di corpi, di desideri
nascosti, di perversioni sussurrate. Vengono da me
tutti: i mercanti, gli uomini d’affari, i soldati
inglesi e italiani rimasti qui come presidio. Quando
sono fortunata ne ricevevo anche tre in una notte.
Parlano poco, sono sempre ubriachi, ma pagano bene.
Lavoro in due tre posti diversi che alterno per non
dare nell’occhio, ma il mio preferito è un vicolo
illuminato solo dal bagliore intermittente di un
lampione che sfrigola come se fosse sul punto di
spegnersi. Qui mi sento più sicura e appoggiata al muro,
tra le rovine di un palazzo bombardato mostro la mia
merce aggraziata dalle calze a rete dorate e dal vestito
aderente che riflette alla luce le mie forme. Non sono
bella, insomma non sono da copertina di rivista, ma so
che piaccio, almeno come sfogo, almeno per qualche
minuto! Il rossetto rosso fuoco è ancora perfetto, anche
se so che non durerà a lungo.
Nel silenzio della
notte si sentono passi incerti, il suono di suole che
strisciano sul selciato polveroso. È il rumore del
cliente, che si avvicina di solito titubante, di solito
un uomo qualunque, uno dei tanti. Un cappello calato
sugli occhi, come se volesse nascondersi dalla moglie o
dalle figlie. Si ferma a qualche metro, le mani nelle
tasche. Lo guardo, senza sorridere, senza invitare.
Anche in questo mestiere ci sono delle regole da
rispettare tra uomo e donna. So che deve essere lui a
fare il primo passo. I suoi occhi si muovono rapidi, dal
mio viso al vestito, alle gambe, per poi ricominciare
chiedendosi se sono adatta alle sue voglie.
“Quanto?” Chiede infine, con la voce bassa come se
temesse di essere ascoltato. La parola esce pesante,
carica di desiderio e disgusto. Come fossi una dose di
crack che odia, ma non ne può fare a meno. A quel punto
so cosa devo fare, mi stacco dal muro per farmi ammirare
e rispondo: “Dipende da cosa vuoi.” Lui esita, si passa
una mano sul mento con la barba corta che gratta contro
le dita. “Solo… quello che fai di solito.” Risponde
senza guardarmi. So cosa significa: vuole il minimo,
l’atto rapido, senza complicazioni, senza parole. È
sempre così con quelli come lui, quelli che vengono di
nascosto, che sfogano la loro voglia e poi tornano alle
loro vite come se nulla fosse. “Cinquecento.” Dico
senza guardarlo. E come tutti gli altri fa una smorfia,
come se si aspettasse qualcosa di meno, ma non discute,
vuole solo fare in fretta. A quel punto tira fuori una
manciata di banconote sgualcite dalla tasca contandole
sotto la luce del lampione. “Qui?” Chiede, guardandosi
intorno, come se si aspettasse di vedere una pattuglia
sbucare dal nulla. Indico un angolo più scuro, dietro un
cumulo di macerie dove il muro forma una nicchia
nascosta.
“Andiamo.” Dico e quelle rovine ci
inghiottono, complici e indifferenti. Lui mi segue, i
passi più decisi ora, spinto da un’urgenza che supera la
sua titubanza mentre io so già cosa viene dopo: un
incontro rapido che dura quanto un respiro. Non gli
chiederò il nome, né lui il mio. È solo un momento, una
fusione di pelle, un frammento di sopravvivenza e non
c’è dolcezza, solo un’urgenza cruda, una fame che non ha
nulla a che vedere con l’amore.
Lui apre la
cerniera dei pantaloni ed io mi inginocchio e lo
preparo, quando sento che è al culmine del desiderio mi
alzo e mi appoggio al muro, il freddo del cemento mi
morde la schiena. Lui, un estraneo senza nome, con le
mani ruvide e gli occhi che non mi guardano, si
avvicina. Non ci parliamo, non ce n’è bisogno. Le parole
sono un lusso che nessuno dei due può permettersi. I
nostri corpi si uniscono che è più lotta che carezza, un
groviglio di membra che si muovono con rabbia, come se
ogni gesto fosse un grido contro la guerra che ha
distrutto le nostre vite, contro la fame che morde lo
stomaco, contro le rovine che inghiottono i sogni.
La sua mano mi stringe i fianchi con troppa forza,
mi lascia segni che domani coprirò con un po’ di trucco.
Ogni suo movimento è rapido, quasi violento, non cerca
intimità, ma solo sfogo. È un effimero atto liberatorio,
un istante in cui la polvere di Kalatà, il peso della
miseria, la paura delle bombe si dissolvono in
un’esplosione di sensi. Nonostante sia dentro di me lo
sento distante perché qui non c’è tempo per la
tenerezza, né spazio per i sogni. Il suo respiro è un
grugnito soffocato, e il vicolo tace, complice e
indifferente. Per un attimo, in quel groviglio di corpi,
la guerra si ferma. La fame tace. Le rovine non
esistono. Ma è un attimo, fugace come il battito d’ali
di una falena. Lui spinge senza grazia, come un animale,
perché non teme il mio giudizio, perché sa che tra pochi
secondi sarà solo un’ombra nella notte. Lo sento, manca
poco, stringo gli occhi e mi concentro cercando di
sentire quel minimo piacere e venire con lui perché così
tutto sembrerà meno squallido.
Ci sono momenti in
cui il piacere arriva, è raro, ma accade. Il corpo si
risveglia, si abbandona, e per un istante mi sento viva,
intera, come se questo mestiere avesse un senso ed io
non fossi solo un’ombra nella notte. Ma il più delle
volte quel brivido non arriva e mi sento solo un buco,
un vuoto da riempire, un oggetto che esiste solo per il
suo bisogno. Non c’è calore, non c’è scambio, solo un
silenzio che mi inghiotte. In quei momenti, la mia mente
vaga, si aggrappa a pensieri lontani, cercando di non
ascoltare. E quando tutto finisce, resto lì, con un
senso di incompletezza che mi pesa sul petto, come se
una parte di me fosse stata rubata, lasciandomi ancora
più vuota di prima. Mi sistemo il vestito, lui si
allontana senza voltarsi, e il silenzio torna a
reclamare il vicolo. Resto lì, con il cuore che batte
troppo forte, il rossetto ormai cancellato, e la
consapevolezza che questo momento, per quanto disperato,
è stato un grido contro il nulla. Un grido che nessuno
sentirà, ma che, per un istante, mi ha fatta sentire
meno sola.
Mi guardo intorno e non provo vergogna
per quello che ho fatto, per quello che farò di nuovo a
breve. Tutte le mie amiche del resto sono nel giro, in
un modo o nell’altro. C’è chi fa massaggi, chi gira
video porno che finiscono sulle bancarelle a borsa nera.
Alcune scrivono il loro numero sui volantini dei
ristoranti, altre si vendono per una cena abbondante. È
il “survival sex”, il sesso per sopravvivenza. Qui non
c’è scelta. Mia cugina pensava di trovarla. È scappata
in Italia, sognando una vita migliore. Ma da quello che
so fa lo stesso mio mestiere e per giunta sfruttata da
nostri connazionali.
Le autorità sanno tutto,
vedono tutto, ma tacciono. Le guardie locali, con le
loro uniformi sporche e sgualcite e i fucili appoggiati
sulle spalle, chiudono un occhio, a volte anche due. Non
è compassione, né pietà. È convenienza. Ricevono la loro
parte, un mazzetto di banconote infilato in una tasca
lontano da occhi indiscreti. Siamo l’ultimo anello della
catena, noi ragazze che camminiamo sotto i lampioni, con
il trucco pesante e i tacchi che scricchiolano sulla
polvere. Loro, le guardie, sono il penultimo, sempre
pronti a voltarsi dall’altra parte, a patto che il
prezzo sia giusto.
Sopravviviamo così, in un
equilibrio precario fatto di silenzi comprati e segreti
condivisi. Ma sopra di noi ci sono gli intoccabili, i
tenutari dei bordelli, i veri padroni della notte. Sono
ricchi, potenti, con le tasche gonfie di soldi e le
conoscenze giuste per restare al sicuro. Gestiscono i
quartieri hard, quelle strade nascoste dove la luce al
neon tinge tutto di bianco e pulito. Di notte, in quei
locali, le ragazze ballano senza veli, i corpi che si
muovono come fiamme sotto gli occhi di uomini che pagano
per sognare. Di giorno, gli stessi locali si trasformano
in caffè innocui, dove si parla di politica, come se la
notte non fosse mai esistita. È un gioco sadico,
un’ipocrisia che si ripete ogni giorno, un mondo che si
nasconde dietro tende di velluto e sorrisi falsi.
Io invece preferisco stare qui e non lavorare nei
bordelli, anche se sarebbe più facile. I bordelli sono
fortezze di cemento, con stanze buie e tende pesanti.
Lì, le ragazze sono protette, in un certo senso: c’è un
tetto sopra la testa, un letto invece di un vicolo, e
guardie pagate per tenere lontani i guai. Ma quella
protezione ha un costo che non posso permettermi. I
tenutari non ti assumono, ti possiedono. Una volta
dentro, sei loro: una parte dei tuoi guadagni va nelle
loro tasche, e non è solo denaro. È la tua libertà, il
tuo nome, la tua dignità. Ti danno un letto, sì, ma
anche un padrone. Ti dicono quando lavorare, con chi, e
come. Ti controllano, ti schedano, ti incatenano con
debiti che non pagherai mai. Ho visto ragazze sparire
nei bordelli, entrare con un sorriso e uscirne con occhi
vuoti, se mai ne escono. Alcune non tornano più a casa,
vendute come merce.
Battere per le strade è
diverso. È duro, pericoloso, ma è mio. Scelgo io quando
uscire, dove andare, chi accettare. Non devo dividere i
miei soldi con nessuno, tranne le guardie che prendono
la loro tangente. La strada è un rischio costante: un
cliente che non paga, uno che alza le mani, il freddo
della notte che ti morde la pelle. Ma è anche libertà,
per quanto sporca e fragile. Posso tornare a casa dalle
mie sorelle all’alba, con i soldi nascosti nella borsa,
e nessuno mi chiede di inginocchiarmi davanti a un
tenutario. Non sono proprietà di nessuno, anche se a
volte mi sento proprietà della notte stessa, onesta
nella sua brutalità. Preferisco il freddo della strada,
il silenzio delle rovine, il ronzio del generatore.
Almeno qui, so chi sono.
E questa strada è la
nostra rivendicazione contro un’esistenza che ci
schiaccia, ma è anche il nostro dramma. Ho visto ragazze
di tredici anni entrare in questo mondo. Ho visto donne
di cinquant’anni fare massaggi e vendersi per meno di
niente. Io, per ora, sono giovane. Ho ancora clienti. Ma
so che non durerà per sempre.
In un certo senso
mi sento una benefattrice perché faccio dimenticare la
guerra, la povertà, la polvere che ci soffoca tutti. Io
sono lì per loro. Non giudico. Non sogno. Non penso al
futuro. Qualcuno mi chiede se cambierà qualcosa, ora che
le truppe straniere se ne sono andate. Scuoto la testa.
Stanotte, mentre aspetto il prossimo cliente, guardo il
cielo sopra Kalatà. È limpido, pieno di stelle, ma
sembra lontano, come se appartenesse a un altro mondo.
Qui, tra le rovine, c’è solo il mio corpo, le luci in
lontananza delle case e il silenzio che nasconde tutto. |
Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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