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Adamo Bencivenga
LE CONSEGUENZE DI UN
TRADIMENTO
La vita
apparentemente perfetta di un avvocato romano, illuso di avere ogni
cosa sotto controllo, viene travolta dal caso, che intreccia un
destino avverso, frantumando inesorabilmente i suoi segreti.

Mi chiamo Tommaso, ho 35
anni, sono un avvocato con uno studio a Roma in Piazza
Mazzini, ereditato da mio nonno. Non sono uno che si
vanta, ma mi tengo in forma: gioco a tennis due volte a
settimana al circolo, faccio equitazione quando posso, e
le serate con gli amici sono un rito irrinunciabile. La
mia vita, almeno all’apparenza, è quella di un uomo che
ha tutto sotto controllo.
Al tempo stavo insieme
ad Aurora, la mia fidanzata da tre anni. Ci eravamo
conosciuti a una festa al circolo del tennis, tra un
bicchiere di prosecco e una risata. Lei era ospite del
circolo ed accompagnava un’amica che si era classificata
terza ad un torneo femminile. Mi colpì immediatamente!
Un anno più giovane di me, mora, occhi profondi e un
sorriso magnetico che ti catturava all’istante. Parlammo
un po’ e scoprimmo che entrambi eravamo appassionati di
manga e amanti dei Coldplay. Beh si non c’era alcuna
connessione diretta tra il gruppo musicale britannico e
i fumetti giapponesi, ma lo scoprire gli stessi
interessi ci fece approfondire la nostra conoscenza.
Lei aveva un negozio di lingerie all’EUR, figlia
unica con papà ufficiale dei carabinieri. Era una donna
che non passava inosservata, e io, beh, sensibile al
fascino femminile le feci una corte spietata e alla fine
lei crollò e ci mettemmo insieme. Dicevo non sono mai
stato uno stinco di santo, ma con lei sentivo qualcosa
di diverso. Durante il nostro fidanzamento, lo ammetto,
ci sono state un paio di “scivolate” con la mia
segretaria, niente di serio, solo momenti di leggerezza,
come li chiamo io, entrambi consapevoli che dopo quelle
serate piacevoli avremmo dormito nei nostri rispettivi
letti senza confondere il sesso con il lavoro e le
nostre relazioni.
Non mi sono mai giustificato,
né con me stesso né con altri. Però con Aurora volevo
costruire qualcosa d’importante. Eppure, quando dopo tre
anni lei ha iniziato a parlare di matrimonio, io mi sono
sentito in trappola. “Non capisco, Tommaso…” Mi disse
una sera, mentre cenavamo in un ristorante vicino casa
sua, all’EUR. “Abbiamo 35 anni, una posizione solida e
non siamo più due ragazzini. Voglio una famiglia, voglio
un futuro insieme. E poi mettici pure che i miei mi
domandano spesso che intenzioni abbiamo…” Poi dopo una
pausa aggiunse: “Perché tu non sei convinto? Cosa c’è
che ti frena?” Io giocherellavo con il bicchiere di
vino, cercando le parole giuste. “Aurora, io ti amo, ma
dobbiamo prima sistemarci. Una casa nostra, uno studio
più grande per me, il tuo negozio sta andando bene, ma
ci vuole stabilità. Il matrimonio è un passo enorme, no?
Non possiamo fare le cose di fretta.”
Lei mi
guardava, con quegli occhi che sembravano leggermi
dentro. “Stabilità? Tommaso, la stabilità ce l’abbiamo.
I miei ci aiuterebbero… Sei tu che non vuoi impegnarti.
Dimmi la verità, è così?” Mi fissava con i suoi grandi
occhioni neri ed io imbarazzato rispondevo: “No, no, non
è così…” E dentro di me sentivo un grosso nodo. Non era
solo la casa o il lavoro. Era la sensazione di essere
costretto a scegliere una strada senza essere pronto. E
forse, in fondo, cercavo una via di fuga al peso delle
responsabilità che sarebbero sopraggiunte dopo il
matrimonio e la prima convivenza.
Nonostante
queste incomprensioni riuscivamo però ad andare d’amore
e d’accordo sempre nella speranza da parte sua che mi
decidessi ed io che mi convincessi a fare il grande
passo, ma poi è arrivata Ginevra. L’ho incontrata per
caso, nel mio studio. Era venuta per una consulenza
legale: bionda, con un vestito corto che lasciava poco
all’immaginazione, gambe lunghe e un sorriso che ti
faceva dimenticare il resto del mondo. “Avvocato, ho
bisogno di un consiglio su un contratto…” Aveva detto,
ma il modo in cui mi guardava mi faceva capire che non
era solo il contratto a interessarle. Abbiamo
chiacchierato, scherzato, poi abbiamo preso un caffè al
bar sotto lo studio e quando è andata via, mi ha
lasciato il suo numero.
Lo ammetto, più volte
sono stato sul punto di chiamarla, ben cosciente che un
invito a cena avrebbe portato ad altro, ma poi ci ha
pensato lei a togliermi ogni dubbio. Pochi giorni dopo,
infatti, mi ha scritto un’email con una scusa banale:
“Avvocato, ho dimenticato di chiederle una cosa,
possiamo vederci per un aperitivo?” Ho sorriso e non ci
ho pensato due volte ad accettare.
Ci siamo
incontrati allo Zodiaco, un bar di Roma con un panorama
incredibile, e da lì è iniziato tutto. La sera dopo
siamo finiti in un ristorante ad Anzio, uno di quei
posti incantevoli e romantici con vista sul mare e le
camere al primo piano. Abbiamo cenato a lume di candela,
il suono delle onde in sottofondo, e tra un bicchiere di
vino e un sorriso, ci siamo lasciati andare. È stata una
serata perfetta, ma ovviamente sbagliata. Mi sono ben
guardato di dirle di Aurora. Pensavo fosse una cosa che
potevo controllare o quantomeno che quella con Ginevra
sarebbe rimasta solo un’avventura di una sera. Tra
l’altro non uso i social, non c’è traccia della mia vita
privata online, tranne qualche profilo professionale,
quindi come avrebbe potuto scoprirlo?
Dopo la
cena a lume di candela, con il mare che sussurrava
appena oltre le vetrate, Ginevra mi ha proposto di
salire al piano superiore, dove il ristorante aveva una
terrazza riservata con un piccolo salottino all’aperto.
L’aria era tiepida, profumata di salsedine, e il cielo
era una distesa di stelle che si riflettevano sull’acqua
scura. Ci sedemmo su un divanetto di vimini, avvolti da
cuscini morbidi e da una coperta leggera che il
cameriere ci aveva portato con discrezione. La luce
delle candele sul tavolo basso davanti a noi illuminava
appena il viso perfetto di Ginevra.
Parlavamo a
bassa voce, come se temessimo di disturbare la magia di
quel posto. Lei mi raccontava delle sue estati da
bambina ad Anzio, di come correva sulla spiaggia con i
piedi nudi e sognava di viaggiare lontano, poi di una
storia finita e di quanto ora le pesasse essere single.
Io ascoltavo, incantato, ma con una parte di me che
combatteva il senso di colpa per ciò che non le dicevo e
che lei avrebbe dovuto sapere. Un altro bicchiere di
vino, un Vermentino fresco che sapeva di mare, ci
sciolse ancora di più. Le sue dita sfiorarono le mie
mentre prendeva il calice, e quel contatto mi fece
dimenticare per un attimo tutto il resto.
Ci
avvicinammo, le nostre parole si fecero più rare, gonfie
di respiri, sostituite da sguardi che dicevano troppo.
Quando la baciai mi sentii più leggero. Era sbagliato,
lo sapevo, ma in quel momento non volevo pensare ad
Aurora, né a cosa sarebbe successo dopo. La notte era
nostra, e la terrazza, con il suo panorama infinito,
sembrava esistere solo per noi. Poi, il cameriere
discreto ci portò un passito accompagnato da piccole
sfogliatine al miele e pistacchio. Ancora più discreto
ci chiese se volessimo altro. Scuotemmo la testa
ridendo, mentre io annuii al cameriere, il quale dopo
alcuni secondi poggiò delicatamente sul tavolo una
chiave avvolta da un tovagliolo bianco. Entrambi non
volevamo che quella serata finisse lì, ci alzammo senza
dire nulla, proseguimmo verso la stanza, anche se dentro
di me sentivo che qualcosa stava per cambiare, che
quella perfezione non poteva durare.
Dal giorno
successivo la mia vita divenne un groviglio di scuse e
momenti rubati, messaggini dolci e lunghe telefonate con
Ginevra, mentre cercavo di nascondere il peso della mia
doppia vita. Ogni incontro con lei era studiato per non
sembrare clandestino, anche se dentro di me sentivo il
nodo stringersi. Ginevra non aveva motivo di dubitare:
il suo sorriso spensierato e la sicurezza nei suoi occhi
mi dicevano che si fidava ciecamente, convinta di essere
la mia unica donna. Non avrebbe mai immaginato che,
durante la giornata, mi sdoppiassi, facendo la spola tra
lei e Aurora bilanciando bugie e verità con una
precisione che mi spaventava.
Una sera, mentre
passeggiavamo vicino al Tevere, Ginevra mi prese la mano
e rise, indicando un barcone illuminato sull’acqua. “Ti
immagini noi due lì sopra, a cena, con la città che ci
guarda? Sarebbe come quella sera ad Anzio, no?” Disse,
con gli occhi che brillavano. “Sì, ma senza le onde…
Anzio è difficile da battere.” Dissi forzando un
sorriso. “Vero, ma noi possiamo fare di meglio.”
Replicò lei, appoggiandosi alla mia spalla. “Domani ha
impegni di lavoro? Potremmo andare fuori Roma, magari in
collina, solo noi due...” La fissai, di certo non
meritava uno come me… “Ci provo, ma ho un po’ di lavoro
da sbrigare…” Mentii, sapendo che avevo promesso ad
Aurora di passare pomeriggio e sera con lei. “Dai… Ti
scrivo appena mi organizzo, ok?” “Certo amore, ma non
farmi aspettare troppo…” Disse con un mezzo broncio
scherzoso, ignara del conflitto che mi consumava. Ogni
suo gesto, ogni parola, rendeva più difficile nascondere
la verità, ma continuavo a illudermi che avrei potuto
controllare tutto, che nessuno avrebbe mai scoperto il
mio segreto.
Dopo un mese però, Ginevra ha
iniziato a fare domande sempre più pressanti. Eravamo in
macchina, tornando da una serata insieme, quando mi ha
guardato e ha detto: “Tommaso, dove stiamo andando?
Cioè, io e te… è una cosa seria o no? Perché io non
voglio perdere tempo.” Come al solito, ho cercato di
svicolare. “Ginevra, guarda, stiamo bene insieme, no?
Perché dobbiamo metterci un’etichetta? Viviamocela e
basta.” Lei ha incrociato le braccia, visibilmente
irritata. “Non funziona così, Tommaso. Io non sono una
che si accontenta di mezze risposte.” “Non ti deluderei
mai.” Ho mentito, guardandola negli occhi. “Solo che non
mi piace correre, tutto qui.” Ma dentro di me sapevo che
stavo giocando col fuoco, barcamenandomi tra due vite
che non potevo sostenere. Ma non ci pensavo proprio a
decidermi. L’amore con Ginevra era qualcosa di
meraviglioso, lei calda sensuale non si negava mai, come
del resto il futuro con Aurora che non volevo vanificare
per nessuna cosa al mondo.
I miei sogni però
cominciavano ad essere cupi, immaginandomi situazioni
dove non avrei più potuto cavarmela con una scusa.
Vivevamo tutti e tre nella stessa città e seppure mi
illudevo di avere tutto sotto controllo, sarebbe bastata
qualche coincidenza per mandare tutto all’aria. Sapevo
che sarebbe arrivata, ma non sapevo né come e né quando.
E alla fine arrivò, sotto forma di disastro! Erano
le sette e mezza di un banale martedì ed io ero
tranquillamente nel mio studio alle prese con un cliente
molto esigente, quando dall’altra parte della città,
Aurora stava tornando a casa in metro dopo una lunga
giornata al negozio. Non so bene cosa sia successo ma ve
la racconto così: Seduta accanto a lei c’è una
ragazza bionda, bellissima, che parlava al telefono.
Aurora non poteva fare a meno di ascoltare la telefonata
e le parole di quella donna che si stava confidando con
un’amica: “Sai, si chiama Tommaso, è un avvocato, ha 35
anni e ci vediamo da due mesi. È fantastico, bello,
simpatico, socievole, ma ha il difetto di rimandare e
non si decide mai. Gli chiedo se stiamo insieme, e lui
resta vago. Non capisco, sai? È come se mi nascondesse
qualcosa. Mi piace, ma sto iniziando a stufarmi. Tu che
dici, continuo o lascio perdere?”
Aurora
ascoltava ogni parola, paralizzata. Il nome, l’età, i
luoghi: tutto coincideva. Era come se qualcuno le stesse
raccontando la sua vita, ma da un’altra prospettiva. Si
chiese quanti Tommasi avvocati di 35 anni ci potessero
mai essere a Roma, alla fine decise di non scendere alla
sua fermata, ascoltando fino alla fine nella speranza
che un piccolo indizio le facesse capire che non fossi
io.
Quando Ginevra chiuse la telefonata, Aurora,
con il cuore in gola, si voltò verso di lei. “Scusami,
non volevo origliare.” Disse, con la voce tremante. “Mi
chiamo Aurora e sto da tre anni insieme a un Tommaso,
avvocato, 35 anni e non vorrei che fosse la stessa
persona…” Il silenzio che seguì fu assordante.
Ginevra la guardò, sbiancò, e per un attimo nessuna
delle due seppe cosa dire. Qualche altro particolare
tipo l’indirizzo dello studio, il nome di qualche mio
amico e la rabbia esplose.
Le due sentendosi
vittime dello stesso carnefice, si coalizzarono e a quel
punto non rimase loro che chiamarmi insieme, urlandomi
contro al telefono. “Farabutto! Come hai potuto?” Gridò
Aurora. “Non ti voglio più vedere!” Aggiunse Ginevra,
prima di riattaccare. Non riuscii a dire una parola. Ero
frastornato dalla crudeltà del destino e mai avrei
immaginato che potessero incontrarsi così, per puro caso
dentro una banale metropolitana.
Ginevra sparì
dalla mia vita, non rispondendo più ai miei messaggi.
Aurora, dopo giorni di silenzio e le mie insistenti
richieste, accettò di vedermi. Ci incontrammo in un bar,
lo stesso dove ci eravamo dati il primo bacio. Le
raccontai tutto, cercando di fare breccia sulla sua
comprensione. “Aurora, ho sbagliato. Non volevo ferirti.
Mi sentivo sotto pressione, il matrimonio, la casa… ho
cercato una via di fuga. È stato un errore, e non
succederà più.” Lei mi ascoltava senza dire nulla e
il suo sguardo rimase per tutto il tempo glaciale.
“Tommaso, non è solo il tradimento. È che non hai mai
preso in seria considerazione il nostro rapporto ed ora
non posso vivere con qualcuno di cui non mi fido più.”
Poi si alzò lasciandomi lì con il caffè ormai freddo.
Morale della favola ho perso entrambe. Ginevra non
mi ha più voluto parlare, e Aurora ha chiuso la nostra
storia. È stata una lezione durissima, ma non
necessaria. Ora sono passati circa due anni, sto con
Francesca da quattro mesi, una collega che ho conosciuto
in Pretura, stiamo bene insieme. Tutto fila a gonfie
vele, solo mezzora fa mi ha chiamato per un apericena a
casa sua, ma mentre stavo al telefono con lei non mi
sono reso conto di aver accettato alla stessa ora un
invito per un aperitivo da parte di una cliente che
desidera una consulenza su un contratto di lavoro… |
Questo racconto pur
basato su fatti di cronaca è opera di pura
fantasia. Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e qualsiasi
somiglianza con fatti, scenari e persone è del
tutto casuale.
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TUTTI I
RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
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