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Adamo Bencivenga
LA ROULETTE RUSSA DI VIVIANA
Al tempo avevo sedici anni, i capelli castani raccolti in una coda e un viso sempre imbronciato che nascondeva un’inquietudine che non riuscivo a spiegarmi. Un giorno lessi su Telegram: "Sesso senza protezioni con coetanei sconosciuti, perdi se resti incinta!"



 
Al tempo avevo sedici anni, i capelli castani raccolti in una coda e un viso sempre imbronciato che nascondeva un’inquietudine che non riuscivo a spiegarmi. Vivevo in un piccolo paese del Nord Italia, uno di quei posti dove tutti si conoscono e le giornate sembrano scorrere sempre uguali: scuola, pettegolezzi e lo schermo del mio smartphone che mi teneva compagnia quando tutto il resto sembrava soffocarmi.

Ogni volta che mi guardavo allo specchio, vedevo una ragazza che non mi piaceva: il naso troppo grande, gli occhi che sembravano sempre stanchi, la pelle che non era mai liscia come quella delle altre. Mi sentivo brutta, sbagliata. Non ero come le ragazze della mia scuola, quelle con i capelli sempre perfetti e i sorrisi che attiravano tutti gli sguardi. Loro erano il branco, il gruppo che dettava le regole, che decideva chi era dentro e chi era fuori. E io ero fuori, sempre. Anche a scuola, quando camminavo nei corridoi con la testa bassa, stringendo i libri al petto come uno scudo. Era come se fossi trasparente, un’ombra che passava senza lasciare traccia.

A casa, le cose non erano molto diverse. Abitavo in un piccolo appartamento al secondo piano di una palazzina grigia. Mio padre lavorava come operaio in una fabbrica di mobili a qualche chilometro dal paese. Tornava a casa stanco, con le mani ruvide e lo sguardo perso, e si sedeva davanti alla TV senza dire molto. Non era cattivo, ma era come se il suo mondo finisse dove iniziava il suo turno in fabbrica. Mi voleva bene, credo, ma non sapeva come dirmelo. Ogni tanto mi chiedeva “Com’è andata a scuola?” Ma non ascoltava davvero la risposta. Era come se parlasse per abitudine, non per interesse.

Mia madre faceva la commessa in un negozio di abbigliamento in centro, e passava le giornate a lamentarsi di tutto: del lavoro, del paese, di me. “Viviana, sistemati quella coda, sembri una selvaggia.” Mi diceva, oppure “Non passare tutto il giorno su quel telefono, trovati qualcosa da fare.” Ma non mi chiedeva mai cosa mi passasse per la testa, cosa mi facesse sentire così vuota e arrabbiata col mondo. Era sempre troppo occupata a cercare di tenere insieme la sua vita. Con papà litigavano spesso e i loro argomenti preferiti erano i soldi e quella figlia che passava troppo tempo chiusa nella sua cameretta e con le cuffie nelle orecchie per non ascoltare le loro eterne discussioni.

“Vivi, ma tu che vuoi fare da grande?” Mi chiedevo spesso non sapendo cosa rispondere. Come potevo pensare al futuro quando il presente mi sembrava una gabbia? Eppure la mia famiglia non era terribile, almeno non diversa dalle altre, ma era come se fossimo tutti su binari diversi, incapaci di incontrarci davvero.

Ogni giorno, quel senso di non appartenenza, di sentirmi fuori posto, si insinuava più a fondo. Mi guardavo allo specchio e vedevo una ragazza che non meritava attenzione, che non aveva nulla di speciale da offrire. Le altre avevano qualcosa – un sorriso perfetto, una battuta pronta, un modo di muoversi che attirava tutti – mentre io mi sentivo solo un errore, un’aggiunta sbagliata al quadro. Quando scorrevo Instagram o TikTok, vedevo ragazze che sembravano avere tutto: amici, risate, vite che brillavano. Io non avevo niente di tutto questo. Il mio telefono era pieno di chat silenziose, di gruppi in cui non scrivevo mai per paura di essere criticata. Insomma mi sentivo inutile, come se la mia esistenza non contasse per nessuno.

Quando è arrivata quella chat su Telegram, quando ho letto di quella “Sfida estrema”, una parte di me ha pensato che forse lì, in quel gioco assurdo, avrei trovato qualcosa. Qualcosa che mi facesse sentire viva, importante, anche solo per un momento. Non lo dissi mai a nessuno. Come potevo spiegare che stavo cercando di riempire un vuoto che nemmeno io capivo?

Tutto è iniziato con un messaggio anonimo, un link, e poi un invito: Sex roulette. Sei abbastanza coraggiosa? All’inizio avevo riso, pensando fosse uno scherzo. Ma la curiosità, quella morsa che mi stringeva lo stomaco quando vedevo le mie compagne di classe vantarsi di essere “senza paura”, mi aveva spinta a rispondere. Ci sto, avevo scritto, senza pensarci troppo. Del resto era solo un gioco o forse anche un modo per essere qualcuno, per non essere più solo la ragazza silenziosa che nessuno notava.

L’appuntamento era stato fissato in una villa abbandonata alla periferia del paese, un rudere con le finestre rotte nascosto da rovi ed erbacce che i ragazzi usavano per feste clandestine. Ci arrivai a piedi, sotto un cielo che si stava tingendo di viola scuro e il cuore in gola. Ogni passo mi pesava, come se stessi camminando verso un precipizio, ma allo stesso tempo c’era un fuoco ribelle dentro di me, un misto di paura e adrenalina che mi spingeva avanti. Era paura, sì, ma anche un’eccitazione che non sapevo spiegare: la sensazione di stare facendo qualcosa di proibito, di essere finalmente al centro di qualcosa, anche se quel qualcosa mi faceva tremare le gambe. Sentivo lo stomaco stretto in una morsa, le mani sudate che stringevano il telefono nella tasca della felpa. Una parte di me gridava di tornare indietro, di cancellare tutto, ma un’altra parte, più forte, mi sussurrava: Non essere debole.

Gli organizzatori della “Sfida estrema” erano stati chiari nelle istruzioni inviate su Telegram. “Vieni con il volto coperto.” Avevano scritto. “Maschere, sciarpe, qualsiasi cosa. Nessuno deve sapere chi sei. E indossa qualcosa di scuro, che non dia nell’occhio. Niente che possa farti riconoscere.” Avevano aggiunto un’ultima regola, quasi come un avvertimento: “Mi raccomando, gonna corta e senza mutandine, se non segui le indicazioni, sei fuori.”

Io avevo passato ore a fissare il mio armadio, incerta su cosa scegliere. Alla fine, avevo preso una sciarpa nera, di quelle che mia madre usava anni prima, e me l’ero avvolta intorno alla parte inferiore del viso, lasciando scoperti solo gli occhi. Mi sembrava di essere in un film, una di quelle storie di spionaggio o di ribellione, ma il tremore nelle mie dita mi ricordava che non era finzione. Per il resto, avevo optato per una felpa oversize e una mini nera.

Mentre mi avvicinavo al rudere, il vento freddo mi pizzicava gli occhi, e ogni rumore mi faceva sobbalzare. Mi chiedevo se fossi davvero pronta, se quel gioco valesse il rischio. Ma poi pensavo al vuoto che sentivo ogni giorno, a casa, a scuola, ovunque. Pensavo a mio padre che non mi guardava mai davvero, a mia madre che mi rimproverava senza ascoltarmi. Quel vuoto mi spingeva avanti, più della paura.

La villa si stagliava davanti a me, una sagoma scura contro il cielo ormai quasi nero. Vedevo già qualche figura muoversi nell’ombra, sagome mascherate come me, silenziose. Il mio cuore batteva così forte che pensavo lo sentissero tutti. Ero terrorizzata, ma non potevo tornare indietro. Non volevo essere quella che si tirava indietro, quella che nessuno avrebbe mai notato. Mi chiesi se qualche altra mia amica avesse accettato l’invito e così, con la sciarpa che mi pizzicava il mento e il respiro corto, varcai l’ingresso della villa, pronta a giocare a quella insolita roulette.

La luce della luna filtrava tra le finestre rotte, illuminando un gruppo di una decina di ragazzi e ragazze, tutti con il volto coperto da maschere o sciarpe. Nessuno parlava. L’aria era densa di tensione. Una ragazza, che sembrava essere l’organizzatrice, con una mascherina glitterata aveva spiegato le regole. Con voce decisa aveva detto: “Sesso senza protezione. Tutti con tutti. Chi rimane incinta… perde.” Ho sentito un brivido, ma non era più il momento di tirarmi indietro, pensai mentre il gruppo si sparpagliava nella penombra.

I momenti successivi erano stati un vortice confuso. Corpi, risate nervose, il fruscio di vestiti che cadevano. Osservando le altre ragazze, per non essere da meno, mi ero lasciata andare. In quel momento non pensavo alle conseguenze. Era come se il mondo reale fosse svanito, lasciando spazio solo al gioco, alla roulette, al rischio.

C’era qualcosa di elettrico, una scarica che mi attraversava le vene, un misto di terrore e liberazione. Ogni respiro era corto, affannato, come se stessi correndo, anche se ero ferma, nascosta dietro la mia sciarpa nera e la felpa. Le altre ragazze, con i volti coperti si muovevano come ombre, sicure di sé, o almeno così sembrava. Non volevo essere l’unica a esitare, l’unica a mostrarmi debole. Così, mi ero lasciata andare, come se stessi tuffandomi in un’acqua gelida, senza sapere se sarei riemersa.

Quando un ragazzo si avvicinò, nascosto da un cappuccio scuro, e mi afferrò con le braccia, non opposi resistenza. Mi distesi immediatamente a terra, sul pavimento freddo e sporco della villa. In quel momento, sentii quasi un senso di libertà, la voglia di contare. Non era piacere, non era desiderio; era qualcosa di più crudo, più primordiale. Era come se, per la prima volta, non dovessi giustificarmi. Il suo tocco, deciso, mi fece quasi dimenticare chi fossi. Non pensavo al rischio, alle malattie, alla possibilità di una gravidanza. Non pensavo a niente. La mia mente era un vortice, un caos di sensazioni: il freddo del pavimento contro la schiena, il calore del suo respiro vicino al mio collo e quel sesso con uno sconosciuto senza alcun pretesto. Era come se fossi fuori dal mio corpo e mi osservassi dall’alto.

Eppure, sotto quella libertà apparente, c’era un nodo che non si scioglieva. Una voce, flebile, in fondo alla mia testa, che mi gridava di fermarmi e scappare. Ma la ignoravo, la soffocavo, perché fermarmi avrebbe significato perdere. Il ragazzo si allontanò, sostituito da un altro, e poi un altro ancora, in un turbine che mi inghiottiva. Non li guardavo negli occhi. Non volevo vedere, non volevo sapere. Volevo solo continuare a girare nella roulette, sperando che il proiettile non fosse per me.

Quando tutto finì, mi rialzai, le gambe tremanti, la sciarpa ancora stretta intorno al viso. Il cuore batteva più lento ora, ma il vuoto dentro di me era più grande, più pesante. La libertà che avevo provato era svanita, lasciando solo un senso di sporco che non aveva a che fare con la polvere sul pavimento. Mi guardai intorno, le altre figure mascherate che si ricomponevano in silenzio, e mi chiesi se anche loro sentissero quello che sentivo io. Non dissi nulla. Mi limitai a stringermi nella felpa e a uscire dalla villa, con il freddo della notte che mi mordeva la pelle e il peso di quello che avevo fatto che iniziava a premere, come una crepa che si allarga piano piano.

Passarono le settimane. Ogni tanto, in bagno, controllavo il calendario sul telefono, contando i giorni. Quando il ritardo arrivò, il panico mi travolse. Non potevo dirlo a nessuno, né ai miei genitori, né alle mie amiche. La chat su Telegram era sparita, come se non fosse mai esistita. Gli altri partecipanti erano fantasmi, irraggiungibili.

Comprai un test di gravidanza in una farmacia fuori paese. Lo feci di nascosto, chiudendomi in bagno. Quando la linea rosa apparve, mi sentii come se il mondo mi fosse crollato addosso. "Ho perso", pensai, ma purtroppo non era un gioco. Immediatamente cercai di capire cosa fare. La pillola del giorno dopo non era un’opzione, era passato troppo tempo. L’unica strada sembrava l’aborto, ma l’idea mi terrorizzava. Non era solo la paura dell’intervento o delle conseguenze fisiche; era il peso di dover affrontare tutto da sola, senza sapere nemmeno chi fosse il padre.

Le immagini di quella notte mi tornavano in mente come frammenti di un incubo: volti mascherati, risate, il senso di essere fuori dal mio corpo. “Perché l’ho fatto?” Mi chiedevo. Il giorno dopo mi confidai con l’unica mia amica che sapevo che non mi avrebbe giudicata. Marta, mi ascoltò in silenzio, gli occhi pieni di lacrime. “Perché l’hai fatto, Vivi?” Mi chiese ma io non avevo una risposta. Forse per noia, forse per sentirmi viva, forse per dimostrare di non essere invisibile. Ma ora mi sentivo più sola che mai.

Con l’aiuto di Marta, trovai una clinica a un’ora di distanza. Lì, una dottoressa gentile mi spiegò tutto: i rischi, le procedure, cosa aspettarsi dopo. Annuii, ma dentro mi sentivo come se stessi tradendo una parte di me stessa.

Mi chiedevo: E se stessi sbagliando? Pensavo al bambino, a quella vita che non aveva chiesto di essere lì, che non aveva nessuna colpa. Era solo un gioco, una roulette stupida, e ora c’era un essere innocente che avrebbe pagato il prezzo della mia incoscienza. Mi sentivo egoista, come se stessi scegliendo la via più facile per me stessa, per cancellare un errore e tornare alla mia vita come se nulla fosse successo. Ma poi mi guardavo allo specchio, vedevo i miei sedici anni, la coda disordinata, gli occhi gonfi di lacrime, e pensavo: Come posso essere una madre? Come posso crescere un figlio nato da un gioco, senza sapere nemmeno chi sia il padre?

La vergogna mi schiacciava. Non era solo per quello che avevo fatto, ma per quello che avrei dovuto fare. Pensavo ai miei genitori. “Se avessero saputo?” Mi avrebbero guardata come se fossi un’estranea, una delusione. Come potevo spiegare che avevo fatto una cosa così stupida? E un giorno, come avrei potuto guardare negli occhi un bambino e dirgli che era nato per una scommessa, per un gioco sul pavimento in una villa abbandonata? L’idea di portare avanti la gravidanza, di affrontare tutto quello che sarebbe venuto dopo, mi sembrava una montagna troppo alta da scalare. Non ero pronta. Non lo sarei mai stata.

Il giorno dell’intervento, durante il viaggio in autobus verso la clinica, stringevo la mano di Marta così forte da farle male. Non parlammo molto; non ce n’era bisogno. Dentro di me, però, i pensieri non si fermavano. Mi chiedevo se stessi facendo la cosa giusta, se fossi un mostro per voler mettere fine a quella vita che non aveva ancora avuto la possibilità di iniziare. Ma poi pensavo alla mia vita, a come sarebbe cambiata, a come non avrei potuto offrire nulla a quel bambino se non un’adolescente spaventata e un segreto che mi avrebbe divorata. Era una scelta che dovevo fare, anche se ogni fibra di me tremava al pensiero.

La dottoressa mi chiese se fossi sicura, e io annuii, anche se dentro di me non lo ero affatto. Non era sicurezza; era disperazione. Era la consapevolezza che non avevo altra scelta, non se volevo proteggermi, non se volevo evitare che la mia famiglia scoprisse tutto, che il mio errore diventasse il centro della mia vita. Quando mi sdraiai sul lettino, con le luci forti che mi bruciavano gli occhi, sentii una lacrima scivolarmi lungo la guancia. Non era per il dolore fisico. Era per quel bambino che non avrebbe mai conosciuto il mondo, per me stessa, per la Viviana che si era persa in quella villa e che forse non sarebbe mai tornata indietro. Chiusi gli occhi e lasciai che accadesse, sapendo che, qualunque cosa fosse successa dopo, quel momento mi avrebbe segnata per sempre.

L’aborto fu rapido, ma il vuoto che lasciò durò molto più a lungo. Tornata a casa, cancellai Telegram dal telefono. Non partecipai mai più a nessuna sfida. Passavo le sere a scrivere su un quaderno, cercando di dare un senso a quello che era successo. Scrissi di come il bisogno di essere vista mi avesse spinta a giocare con la mia vita, di come il coraggio che cercavo fosse solo una maschera per nascondere la paura di non essere importante.

Un giorno, mentre camminavo verso scuola, vidi un gruppo di ragazze ridere davanti a un telefono, parlando di una nuova “sfida”. Sentii un brivido familiare, un’eco di quella Viviana che, mesi prima, avrebbe voluto unirsi a loro, attirata dal richiamo dell’adrenalina e del bisogno di essere vista. Ma quel brivido si spense subito.

Scossi la testa. Non ero più quella ragazza, la sedicenne che cercava di colmare il vuoto con un gioco pericoloso, che pensava che il coraggio fosse rischiare tutto per un momento di gloria.
Ogni mattina, mentre mi sistemavo i capelli in quella coda disordinata che mia madre criticava, vedevo una Viviana che non era perfetta, ma che era viva. Le mie imperfezioni – la mia impulsività, il mio bisogno di attenzione, il mio errore – non erano qualcosa da cancellare. Erano il segno che avevo toccato il fondo e avevo scelto di risalire. Non avevo bisogno di essere la ragazza che tutti ammiravano, quella che partecipava alle sfide per sentirsi importante.

Certo, la roulette mi aveva spezzata, ma mi aveva anche insegnato qualcosa: il vero coraggio non era rischiare tutto per un gioco, ma scegliere di vivere, accettando le mie cicatrici e imparando ad amare le mie imperfezioni.







Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.

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