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ROMANZO BREVE
Quarta Parte

 
 
Adamo Bencivenga
L'AMORE AL TEMPO
DELLE AGENZIE MATRIMONIALI

 

 


 
I miei dubbi
Dopo aver sbattuto la porta di casa di Adele, passai giorni tormentato da una rabbia che si mescolava a un desiderio che non riuscivo a soffocare. Il suo volto, il suo desiderio represso, la sua confessione mi perseguitavano. Non volevo più tornare in agenzia e pregavo Dio che Adele non mi chiamasse. Solo così pensavo avrei potuto chiudere quella parentesi e l’illusione di trovare la mia anima gemella dentro un’agenzia matrimoniale.

Passai serate in completa solitudine sempre però addormentandomi con il dubbio che mi stessi comportando come un piccolo uomo ferito nell’onore tanto da non vedere l’onestà di Adele e la profondità dei suoi sentimenti. Del resto mi aveva detto a chiare lettere che aveva provato qualcosa per me e quel qualcosa di indefinito l’aveva portata a calpestare per gelosia la sua professionalità e che l’incontro con Claudia era dettato dalla sua vanità come donna, un alter ego tramite il quale provare fino in fondo senza esporsi quel riscontro che la faceva sentire di nuovo donna e desiderata.
Ma poi però il suo rifiuto di avermi, il vorrei ma non posso, vanificava ogni cosa con il triste risultato finale che mi vedeva lì, ancora solo, in attesa di chissà cosa e senza una compagna.

Morale della favola, una settimana dopo mi ritrovai davanti alla targa d’ottone di “Cuore d’Oro”. Certo dovevo saldare il conto ancora aperto e mi ripetevo che volevo chiudere con lei e l’agenzia. Certo era solo un’illusione perché quando la vidi, seduta alla scrivania con un’aria più fragile del solito, la mia determinazione svanì immediatamente.
“Giovanni!” Esclamò alzandosi. “Tu mi sorprendi sempre!”
“Non credevo che sarei tornato, ma non posso lasciarti vincere così. Non dopo quello che mi hai fatto.”

Il dialogo era un campo minato. Adele si scusò ancora: “Come te lo devo dire che ho sbagliato, Giovanni. Mi sono lasciata trasportare dal mio egoismo. Ma voglio rimediare. Dammi una possibilità, non come titolare di un’agenzia, ma come… amica e se posso ancora come qualcuno che conta per me.”
“E cosa sei per me, Adele?” Chiedo, avvicinandomi. “Un’amica? Una guida? Una madre? O qualcosa che non hai il coraggio di ammettere?”
Lei distolse lo sguardo, tormentando le due fedi che portava all’anulare sinistro. Ma prima che parlasse aggiunsi: “Lo so sono intempestivo, sconveniente e inopportuno, del resto sono solo un ragazzo che ha fretta e alle volte mi comporto come un bambino a cui hanno sottratto il suo giocattolo!”
“Tu sei speciale invece, ma noi non possiamo essere ciò che vuoi, Giovanni. Lo sai. Ma posso aiutarti a trovare ciò che meriti. Con onestà, questa volta. Ti prego, fidati di me.”

C’era un calore nuovo nella sua voce, un misto di autorità materna e di possibilità. Mentre mi sedevo davanti a lei ero già sicuro che avrei accettato un nuovo patto: lei, la mia guida di un viaggio per capire cosa volevo davvero. “Niente trucchi e niente barriere questa volta. Niente madre e figlio, ma amici e confidenti. Tu e io.”
“Tu e io…” Sospirò cercando di afferrare fino in fondo il significato di quella frase.

Il magnetismo travolgente e il senso materno
Il nostro rapporto diventò un gioco sempre più pericoloso, un filo teso sopra il Tevere, dove ogni passo rischiava di farci cadere. Coperti dietro il velo comodo dell’amicizia, ci vedevamo spesso per lunghe passeggiate: un caffè a Campo de’ Fiori, una panchina sotto le magnolie di Villa Borghese, una passeggiata notturna vicino a Ponte Milvio. Dopo le reciproche confessioni Adele era diversa, più libera, meno prigioniera del suo ruolo e dei suoi tailleur. Mi raccontava di Vittorio, del dolore di averlo perso, della forza che aveva trovato nel crescere due figli da sola. Io le confidavo le mie paure, il senso di inadeguatezza, il bisogno di un amore che mi ancorasse. Le sue risate, il suo modo di posarmi una mano sul braccio quando mi ascoltava, erano gesti materni, ma carichi di un’intimità che mi faceva tremare e pensare che ormai era diventata una figura troppo importante.

E poi c’era quel magnetismo che ci attirava come calamite, contro ogni logica razionale. Era nei momenti rubati: quando le passavo un libro, un cucchiaino, una caramella e le nostre dita si sfioravano, quando i nostri sguardi si incatenavano in un silenzio che parlava da solo. Una sera, dopo una cena in una trattoria a Trastevere a pochi passi dalla libreria di Claudia. Mi disse: “Ma davvero ti piaceva?” E poi: “Perché l’hai baciata? E cosa hai sentito?” Oh sì era un misto di gelosia velata e lo stupore che sarebbe potuto succedere ancora, ma non con Claudia.
In quel momento ci penetrammo con gli occhi. E nei suoi vidi un abisso in cui desideravo perdermi. Lei scostando la bottiglia sul tavolo si avvicinò e poi chiudendo gli occhi rimase in attesa di quel bacio che tanto avevo desiderato!
Entrambi tremanti prememmo appena le labbra per il timore che un nonnulla avesse potuto vanificare quella dolcezza.
Quando ci separammo notai un leggero rossore sul suo viso.
“Scusa, non so cosa mi abbia preso. Non possiamo. È un errore, Giovanni.”
“Ma tu vuoi sbagliare quanto me, vero?” Replicai, convinto che a quel punto avesse bisogno solo di una piccola spinta.

Fuori la serata era piacevole. Lei camminava a debita distanza da me: “Sei giovane, hai una vita davanti… non voglio rubarti il futuro…” Riprese come se fosse la coda di un lungo discorso iniziato nel ristorante. Avvertivo un forte senso materno, una voglia smisurata di guidarmi. Ero allo stesso tempo commosso e ferito. Era come se mi vedesse come un figlio da salvare, ma sentivo che c’era qualcosa di più. Quel bacio aveva acceso un fuoco difficile da spegnere. Tutti e due ne eravamo persuasi, anche se non ne parlammo più.

Gli incontri successivi erano una danza di desiderio e sottintesi. In agenzia, mentre sfogliavamo il registro delle pretendenti e sceglievamo le più belle, per assurdo le nostre mani si cercavano, e una volta, in un momento di follia, ci ritrovammo contro la parete, i corpi premuti l’uno contro l’altro, le sue labbra sulle mie, il suo profumo che mi inebriava, la stoffa leggera del suo vestito che obbediva alle mie mani. Ma era stata lei dopo un attimo a fermarsi, ansimando e posandomi una mano sul cuore. “Basta, Giovanni. Non possiamo farci questo. Siamo crudeli con noi stessi!” Ma entrambi sapevamo che non sarebbe finita lì. Che giorno dopo giorno stavamo accorciando le distanze, guadagnando terreno e creando quel picco spazio in cui abbandonarci.
Ogni incontro diventava una battaglia di posizione tra ciò che volevamo e ciò che sapevamo essere giusto. Ed in mezzo a tutto questo Adele rimaneva la mia guida, mi consigliava come affrontare gli incontri che organizzava per me, mi spronava a essere sincero con me stesso e con le fanciulle che incontravo. Ma era anche la donna che mi faceva perdere il sonno, che mi faceva desiderare di mandare tutto all’aria per un altro bacio, un altro abbraccio.

Nel frattempo, continuava a presentarmi donne. C’è stata Elena, una pianista di 30 anni, che mi affascinava ma era troppo distante emotivamente; poi Marta, una bibliotecaria di 32 anni, gentile, ma senza quel fuoco che cercavo. Ogni volta, tornavo da Adele per raccontarle, per dirle i miei pensieri intimi e profondi, e le nostre conversazioni si tingevano di una gelosia nascosta, ma anche di una complicità che ci consumava minuto dopo minuto. Lei mi ascoltava, mi guidava, ma a volte coglievo un tremore nella sua voce, un’ombra nei suoi occhi, come se ogni donna che mi presentava fosse un passo lontano da lei, come se fosse quella giusta che avrebbe interrotto per sempre il nostro gioco.

L’incontro con Sofia e il culmine della passione
Dopo mesi di questa danza ambigua, ma coinvolgente e piena di magia, Adele mi presentò Sofia, una maestra elementare di 34 anni. Mi disse: “Vedrai che è quella giusta, lo sento. È entrata ieri per la prima volta in agenzia, e parlandoci ho subito pensato che fosse adatta a te. Anche lei nutre dubbi come te su questi incontri attraverso una agenzia matrimoniale, ma è profonda, sensibile e intelligente, doti che difficilmente si trovano in una sola persona.”

Senza alcun entusiasmo la incontrai e mi resi subito conto che Sofia non aveva l’eleganza di Adele, non era bella come Adele, non era affasciante come Adele, ma aveva un calore che mi colpì subito. Mentre la guardavo mi ripromisi di non fare paragoni e che doveva giudicarla per quello che era. Aveva i capelli castani leggermente mossi, occhi nocciola che brillavano quando rideva, e un modo di parlare che mi faceva sentire a casa. Il nostro primo incontro avvenne vicino alla filiale dove lavoravo, ai Tre Scalini, un bar a Piazza Navona, e per la prima volta mi sentii leggero. Sofia amava i bambini, le storie semplici, i tramonti sul Gianicolo. Non sognava avventure lontane, ma una vita piena di piccoli momenti.

Ben presto con lei intravidi un futuro possibile. Uscimmo insieme più volte, sempre organizzate da Adele, una passeggiata al Pincio, una serata al cinema a vedere Otto e mezzo, una domenica a curiosare tra le bancarelle di Porta Portese. Ogni incontro mi avvicinava a lei, ma Adele era ancora lì, un’ossessione che non mi lasciava. Una sera, dopo un appuntamento con Sofia, passai in agenzia. La trovai sola e stanca. Mi chiese senza alcun trasporto: “Come sta andando con Sofia?”
“Così così.” Risposi per non urtare la sua sensibilità, ma in cuor mio sapevo che era quella giusta, ma ero anche consapevole che una parola, una sola parola di Adele, mi avrebbe fatto cambiare idea rapidamente. Così ripresi: “Adele, non ce la faccio più. Tu mi guidi, mi spingi verso altre donne, ma sei tu che voglio. Dimmi chiaramente che non provi niente per me, dimmi che è tutto nella mia testa.”

Lei si alzò venendo verso di me. “Giovanni, non è nella tua testa.” E prima che io potessi rispondere, mi abbracciò. Era un abbraccio comprensivo, ma anche travolgente. I nostri corpi si fusero, le sue mani tra i miei capelli, le mie che le cinsero la vita. Ci baciammo, un bacio simile a un’onda, che ci travolse e ci annegò nel mare dei nostri desideri repressi per tanto tempo. Cademmo sul piccolo divano, i suoi sospiri che si mescolavano ai miei, i nostri corpi persi in un magnetismo che non aveva più regole. Ma fu lei a fermarsi, di nuovo, ancora.
“Non possiamo, amore mio.” Disse, e quella parola “amore”, era simile ad una punta di un coltello affilato. “Io sono solo la tua guida…”
E fu in quel momento che le risposi: “No Adele, non serve più! Tu hai fatto tanto per me, ma ora posso camminare da solo. Sofia mi piace, sarà lei da donna che sposerò, ma tu sei e rimani la donna della mia vita. Ti voglio Adele, ti desidero.”

Adele piangeva e rideva sollevata da quel peso, un misto di follia e benessere. Ci baciammo ancora e questa volta, in quella saletta successe davvero. Avvinti su quel piccolo divano, si lasciammo andare sprigionando tutte le nostre emozioni covate a lungo sotto la cenere di tante parole non dette. Non era un atto fisico, ma un’esplosione di sentimenti cha mai ci saremmo confessati.

I baci di Adele ormai liberi erano un misto di fame e abbandono, come se volesse divorarmi, ma al tempo stesso liberarsi da tante scorie passate. Ogni carezza, ogni respiro ci invitava ad andare oltre in quel mare che entrambi avevamo temuto e desiderato. Libera di mostrare tutta la sua femminilità lasciò cadere la maschera della donna matura che si era imposta. In quel momento, non era più la madre simbolica, la consigliera, la titolare che mi procurava altre donne, ma una donna che voleva qualcosa per sé e si abbandonava all’amore così come il suo corpo dettava. “Ti amo, Giovanni!” Disse senza più freni ed io in quel momento vidi in lei il simbolo di tutto ciò che avevo cercato: una connessione profonda, un’intimità che andasse oltre il piacere fisico, una passione che mi facesse sentire vivo. Eppure, in fondo al mio cuore, avvertivo una fitta: sapevo che quel “ti amo” non era una promessa per la vita, perché fragile, perché impossibile e destinato a sgretolarsi sotto il peso della realtà. Ma in quell’istante, desideravo solo averla ed il resto del mondo poteva aspettare.

Quella saletta divenne un universo a parte. I nostri respiri, che si mescolavano affannati, correvano verso un traguardo che entrambi temevamo di raggiungere. “Davvero mi vuoi Giovanni? Giura che non sono troppo vecchia per te!” Ed io giuravo, esplorando ogni brivido del suo corpo come fosse una reverenza sacra. La stoffa leggera del suo vestito si piegava sotto le mie dita, seguivo le sue curve di donna matura ed ogni tocco era una scoperta, ogni gemito di Adele un suono che si incideva nella mia memoria.

Adele era un groviglio di emozioni. Mentre si abbandonava al piacere, una parte di lei continuava a combattere. Sentiva il peso della sua età, della sua storia, del ruolo che si era costruita. “Non dovremmo…” Ma le sue mani non si fermarono, continuando a stringermi come se fossi l’unico ancoraggio in un mare in tempesta. Era lacerata tra il desiderio di vivere quell’amore e la consapevolezza che non ci sarebbe stato altro tra noi. Eppure, il suo corpo non le obbediva più: ogni mio bacio la trascinava più a fondo, facendola sentire desiderata, viva, come non si sentiva da anni.

La mia ossessione era lì in carne ed ossa e ogni volta che lei si abbandonava, mi sentivo più forte, più uomo e indispensabile a quel piacere, ma nel contempo sapevo che, per quanto la desiderassi, non avrei mai potuto possederla completamente. Adele aveva già vissuto, e la sua vita era troppo segnata per appartenermi del tutto. E questo la percepivo come un’arma a doppio taglio che mi faceva osare ancora di più.

Ero dentro di lei, la sentivo cedere, non c’era più forza in lei che potesse resistere, non c’era resistenza che avesse più forza, era lì tra le mie braccia, senza alcuna intenzione di sottrarsi, come se l’assenza fosse anch’essa un’intenzione. Eravamo fusi, un’unica figura senza più forme, non c’ero io, non c’era lei, come un blocco unico, un gruppo marmoreo nelle mani di un artista, il punto preciso dove la luce e l’ombra non erano più luce ed ombra. La sollevavo e lei si faceva sollevare, non aveva più peso e come una piuma danzava nell’aria oscillando con le sue gambe divaricate, aperta e accogliente, luce ed ombra, un chiaroscuro netto senza sfumature. Lei la conchiglia ed io la sua perla. Scivolammo sul tappeto, Adele che mi implorava di resistere ed io ne ero attratto, calamitato, perso come una risacca che tornava al suo mare. Ci promettemmo amore, vita, eternità, coscienti che fossero solo parole adatte al momento, perché domani sarebbe stato un altro giorno, o tra un’ora un’altra ora. Comunque la chiamai, a cadenza la chiamai, gridai il suo nome. Adele! Adeeeleee. Allungando le “e” come se non ci fosse che lei, come se dopo lei ci fosse ancora lei. Le chiesi: “È amore?” “Assolutamente no!” Rispose. “È qualcosa di più che non so spiegare.”

Quando raggiungemmo il culmine, fu come se il mondo si frantumasse e si ricompattasse in un istante. I nostri corpi, sudati e avvinti, con il viso di Adele, nascosto nell’incavo del mio collo. Lei si lasciò sfuggire un singhiozzo, ed io la strinsi forte, come se quel gesto potesse impedirle di tornare alla realtà. In quel silenzio non c’era bisogno di parlare: ci capivamo, ci sentivamo, ci appartenevamo, anche se solo per quel momento.

La realtà tornò a bussare troppo presto. Adele si scostò leggermente, il viso arrossato, gli occhi lucidi. “Giovanni…” Iniziò, ma la interruppi posandole un dito sulle labbra. “Non dire niente. Non ora.” Non volevo che quel momento fosse spezzato da rimpianti. Ma Adele, mi prese la mano e la strinse. “Non possiamo continuare così. Lo sai. Io… io non sono la donna che può darti un futuro.”
Non mi arresi. “Non mi importa del futuro, Adele. Mi importa di questo. Di noi. Di quello che sento quando sono con te.” Adele mi guardò, e per un momento sembrò sul punto di cedere di nuovo, di buttarsi tra le mie braccia e lasciarsi andare ancora. Ma poi si alzò, sistemandosi il vestito con estrema cura, come se volesse ricostruire la barriera che avevano abbattuto.

Quell’amore, così intenso e totalizzante, era destinato a rimanere un fuoco che bruciava, ma non scaldava. Per Adele ero la promessa di una giovinezza che non poteva più reclamare, una nuova vita che non poteva costruire con me e un desiderio che la faceva sentire viva, ma anche colpevole. Per me, Adele era l’ideale, la donna che mi completava. Ogni bacio, ogni tocco, era stato un atto di ribellione contro il destino, ma anche un lasciapassare all’impossibilità.

Nei giorni successivi, il nostro rapporto cambiò. Gli incontri si fecero più rari, i nostri sguardi più cauti. Adele tornò a essere la guida, la consigliera. Come le avevo promesso continuai a vedere Sofia, e ogni passo verso di lei era un passo lontano da Adele. Ma in fondo al mio cuore, sapevo che nessuna donna avrebbe mai potuto eguagliare il fascino di Adele e l’intensità di quell’amore, impossibile ma indimenticabile.
Non ci dicemmo altro e tutto rimase sospeso tra noi come un filo teso sopra il Tevere, pronto a spezzarsi, ma eterno nella sua fragilità.

L’amore sospeso
Nei giorni successivi, Adele si ritirò nel suo mondo, tornando a una professionalità quasi dolorosa. Mi organizzò altri incontri con Sofia, così assidui che compresi perfettamente il suo messaggio: stava cercando di salvarci entrambi. Sofia, con la sua semplicità, il suo calore, rappresentava ciò che potevo avere e soprattutto ciò che potevo costruire. Lo avevo promesso a me stesso e ad Adele per cui iniziai la mia relazione con Sofia, e giorno dopo giorno scoprii che il suo amore era davvero un rifugio sincero ed appagante. Non era la passione che provavo per Adele, ma un sentimento che cresceva, solido, reale. Stavo prendendo la mia strada e il primo passo fu quello di comunicare ad Adele la nostra decisione di fidanzarci ufficialmente.
Lei seduta alla sua solita scrivania, disse: “Sono felice per te, Giovanni. Hai trovato ciò che cercavi.”
“Grazie a te, Adele.” Risposi e prima di andarmene, aggiunsi: “Non ti dimenticherò mai.”
Lei sorrise: “Nemmeno io, Giovanni. Vai, ora. Davvero, credimi, ti auguro tutta la felicità di questo mondo. Te la meriti.”
Così dicendo si alzò dalla sua scrivania e ci abbracciammo. Sentii il suo cuore battere all’impazzata, ma a quel punto non c’era spazio per alcun ripensamento e lo ignorai.

Il fidanzamento
Sofia mi fece conoscere i suoi genitori ed io, una domenica a pranzo, la invitai a casa di mia madre. Mia madre per l’occasione indossò il vestito a fiori della festa e fu subito entusiasta di Sofia, poi quando seppe le sue intenzioni di mettere su famiglia le diede immediatamente del tu chiamandola addirittura figlia mia. Beh in un certo senso dare quel piacere a mia madre mi inorgogliva e pensai davvero di aver imboccato la strada giusta.

Quella promessa non ci fece perdere tempo e dopo l’anello di fidanzamento e un weekend romantico a Venezia iniziammo a cercare casa abbandonando i nostri rispettivi rifugi da single. La trovammo velocemente nella zona di San Lorenzo vicino dove vivevano i genitori di Sofia. Quello fu un periodo divertente e pieno di entusiasmo girando per negozi e mercatini per arredare il nostro nido.
Ogni tanto sentivo Adele, lei era impegnatissima in quel periodo, perché insieme ad un socio, amico di suo figlio, stava aprendo una succursale in una zona residenziale a Roma nord. Stava facendo le cose in grande stile, perché ciò che stava nascendo non era una vera e propria agenzia matrimoniale, ma una struttura moderna a due piani con tanto di piscina, foresteria, salottini e sale hobby, pronti ad accogliere i clienti fuori città anche per la notte e quindi espandere il proprio raggio d’azione. Comunque trovammo il tempo di vederci per un caffè in centro.

Erano passati alcuni mesi e lei era sempre più bella e affascinante. Notando una luce diversa nei suoi occhi e soprattutto la sua gonna leggermente più corta e le sue calze nere velatissime con la cucitura dietro ad un tratto scherzando le chiesi se nel frattempo avesse avuto modo di tradirmi. Lei rise, ma non mi rispose. “A parte gli scherzi Giovanni, per saldare la nostra amicizia ho pensato di farti una proposta che ti sorprenderà…” Un attimo di pausa e poi disse: “Vuoi che ti faccia da testimone di nozze? Che ne pensi?” Rimasi letteralmente sbalordito! Ovviamente accettai, alzandomi dalla sedia e facendole un baciamano sontuoso dicendo: “Sofia sarà contenta, in fin dei conti senza di te non avremmo mai potuto incontrarci.” Poi al ritorno verso casa pensai a quella proposta: “Adele con quel gesto voleva definitivamente dimenticare quello che c’era stato tra noi?”

Il matrimonio
Il giorno del matrimonio, a San Giovanni in Laterano, Sofia attraversò la navata centrale in abito bianco sottobraccio a suo padre. Era meravigliosa e il colore dell’abito sottolineava il suo candore. “Ti dispiace Giovanni, se aspettiamo la prima notte di nozze?” Mi aveva detto una sera a casa mia quando decidemmo di trascorrere la nostra prima notte insieme. No, non mi dispiaceva affatto soprattutto perché sentivo quanto per lei avesse un valore fondamentale.
Adele alla mia destra indossava uno splendido abito lilla e un cappello dello stesso colore, era meravigliosa anche se i suoi occhi tradivano una sofferenza che solo io vedevo. “Sii felice, Giovanni.” Sussurrò, posandomi una mano sul braccio e guardando Sofia che avanzava tra le due file di invitati. “Te lo meriti.”
“E tu?” Chiesi con la voce bassa per non farmi sentire dall’altro testimone: “Sarai felice senza di me?”
Lei abbassò lo sguardo e senza guardarmi disse: “Non sono mai stata senza di te…”

Fu una cerimonia brevissima e Sofia, ignara di tutto, dopo il fatidico sì, abbracciò Adele con grande trasporto ringraziandola, ed io mi sentii un traditore, ma mai avrei potuto spezzare quel nostro tacito legame.
Durante il pranzo, in una villa sull’Appia Antica, Adele in un momento di brindisi ed euforia quando tutti gli invitati erano concentrati sulla sposa, mi chiese: “Cambierà qualcosa tra noi?” La sua espressione era quasi una supplica come se temesse di rimanere da sola. La guardai, in quel momento avrei voluto stringerla forte a me e dissi: “Amore, non cambierà nulla!”

Una settimana dopo al ritorno del nostro viaggio di nozze a Capri, Adele fu il mio primo pensiero e l’andai a trovare dopo il lavoro. Ma non era in agenzia, un suo collaboratore mi disse che stava poco bene, chiesi di fare una telefonata. Lei rispose immediatamente e dopo circa un’ora ero nel suo appartamento. Mi accolse in camicia da notte, nera trasparente. Era magnifica. Ci baciammo immediatamente e facemmo l’amore nel suo letto. “Sai…” Mi disse ancora distesi sul letto. “Ora che sei sposato, mi sento più libera. I sensi di colpa sono scomparsi ed ora mi rendo conto che il mio egoismo non potrà più condizionare la tua vita!”
Quella non fu l’unica volta che feci l’amore con lei dopo sposato. Ed ogni volta Adele si informava sul mio stato d’animo e se per caso mi sentissi pentito o avessi qualche spina nel cuore. Ed io rispondevo che l’amore con lei era qualcosa che andava oltre il mio rapporto con Sofia. No, no, non sentivo alcun tormento perché Adele era qualcosa di più di un’amante o di una rivale, lei era il sogno che non avevo potuto realizzare e non era possibile chiedere ad un uomo di non continuare a sognare.

L’estate del 1970
Negli anni successivi Adele rimase una presenza costante nella mia vita, senza che Sofia nutrisse alcun dubbio su quel rapporto speciale. Adele da donna esperta ci sapeva fare e in presenza di mia moglie non ebbe mai alcun cedimento. Certo sì, durante le cene e nei weekend passati insieme i nostri sguardi si incrociavano, ma tra sottintesi e desideri rimanevamo comunque e sempre a distanza di sicurezza. Erano solo dei momenti rubati dove con un solo sguardo ci comunicavamo il nostro grande affetto.

Dopo tre anni, Sofia mi fece uno splendido regalo, nacque nostro figlio, Luca, e Adele divenne la sua madrina. Nell’estate del 1970, andammo in vacanza a Ostia, ed Adele ci raggiunse per una settimana. Disteso in spiaggia accanto a Sofia, la vedevo, giocare e ridere con Luca, costruendo castelli di sabbia. Sofia rideva, inconsapevole, ma io ero travolto, mi colpiva il suo spirito materno, e pensavo per quale motivo preferisse passare il tempo con noi anziché dedicarsi alla sua vita: “Mi amava così tanto?

Una sera, mentre Sofia metteva a letto Luca, ci ritrovammo soli sulla terrazza della pensione con il mare che sussurrava sotto di noi. “Sei felice, Giovanni?” Mi chiese.
“Con Sofia, sì.” Dissi. “Ma mi manca qualcosa…” Un attimo di silenzio e poi aggiunsi sottovoce: “Non smetto di desiderarti, Adele. Ogni giorno, ogni momento.”
“Non dirlo.” Sussurrò, avvicinandosi. Le nostre mani si sfiorarono, e per un istante sperai che quel mare ci travolgesse ancora. Ma lei si ritrasse, posandomi una mano sul viso. “Io voglio proteggerti, sempre. Anche da me.”

Eravamo amanti certo, ma finora avevamo avuto le nostre regole rigide, i nostri momenti intimi erano avvenuti a distanze siderali da Sofia, ma quella notte mentre tutti dormivano, preso da una follia incontrollata andai nella sua stanza. Bussai, lei aprì la porta ed io dissi: “Ti voglio, cavolo!” Lei non disse nulla e un momento dopo i nostri corpi si cercarono, le sue labbra sul mio collo, le mie mani che la stringevano come se fosse l’ultima volta. Era un’intimità disperata, un atto che era amore, rimpianto, ossessione e perdizione. “Non finirà mai, vero?” Sussurrò lei. “Non deve!” Risposi e quelle frasi furono più di un giuramento.

La gelosia e la verità eterna
Passarono gli anni, ma il fuoco che ci legava non si spense mai. Adele era ancora una presenza costante nella mia vita: alle feste di compleanno di Luca, con i suoi regali sempre azzeccati e quel sorriso che nascondeva più di un segreto. Alle cene di Natale, seduta al tavolo con noi, accettata da Sofia come un’amica di famiglia, quasi una sorella. Eppure, ogni suo tocco leggero sulla mia spalla, ogni sguardo che si soffermava un istante di troppo, era una scintilla che accendeva in me un desiderio mai sopito.
Sofia, con la sua dolcezza, non sembrava accorgersene, o forse preferiva non vedere. Io, invece, vivevo in bilico, sospeso tra la famiglia che avevo costruito e il ricordo di un amore che non riuscivo a lasciar andare.

Era l’inizio del 1975 quando tutto cambiò. Una mattina di marzo, grigia e umida, passeggiavo lungo Via Nazionale. La città si stava svegliando: i bar profumavano di cornetti appena sfornati e le saracinesche si alzavano rumorosamente. Fu allora che la vidi. Adele camminava sottobraccio a un uomo sulla sessantina, distinto, con i capelli brizzolati e un cappotto di lana scura. Ridevano, le loro mani intrecciate in un gesto così naturale che mi colpì come un pugno. Lui le disse qualcosa all’orecchio, e lei abbassò lo sguardo, sorridendo. Non mi videro, e io rimasi fermo, incapace di muovermi, mentre il mondo intorno a me si dissolveva.

Scoprii in seguito, tramite un’amica comune, che avevo conosciuto nell’agenzia, che si chiamava Enrico, un professore universitario di letteratura, vedovo, gentile e colto. Una persona che, a detta di tutti, la trattava con rispetto. Ma quella notizia, invece di placarmi, accese in me una gelosia feroce, un fuoco che mi divorava dall’interno. Perché non me l’aveva detto? Perché aveva scelto lui? E, soprattutto, perché sentivo che Adele, nonostante tutto, era ancora mia? Quella consapevolezza mi tormentava, insinuandosi nelle mie giornate, nei miei silenzi.
Anche Sofia lo notò. La sera, mentre sparecchiava la tavola, mi chiedeva: “Giovanni, che succede? Sembri lontano.” Io rispondevo con un “Niente, sono solo stanco…” Ma il mio tono tradiva l’inquietudine. Il mio equilibrio, già fragile, stava crollando.

Non potevo più tacere. Con la scusa di un regalo per il compleanno di Luca, un trenino di legno che sapevo gli sarebbe piaciuto, decisi di andare all’agenzia. Era un pomeriggio piovoso, le strade di Roma luccicavano sotto le luci dei lampioni. L’agenzia era la stessa di sempre: la vetrina con le foto sbiadite di coppie sorridenti, il campanello che tintinnava all’ingresso, l’odore di carta e inchiostro. Adele era sola, seduta alla scrivania, intenta a sfogliare un registro. Indossava lo stesso abito del nostro primo incontro, un tailleur che le scivolava morbido sui fianchi, come un ricordo che non voleva svanire. Quando mi vide, il suo viso si illuminò, ma c’era una sfumatura di sorpresa nei suoi occhi.
“Giovanni, che piacere! È per Luca, vero?” Disse, alzandosi.
Non risposi subito. Le gambe mi tremavano, il cuore batteva così forte che temevo potesse sentirlo. Mi avvicinai alla scrivania, le mani infilate nelle tasche del cappotto per nascondere il nervosismo. “Chi è lui?” Sbottai, senza preamboli. La mia voce era più dura di quanto volessi.
Lei inclinò la testa, confusa. “Lui chi?”
“L’uomo con cui ti ho visto. Su Via Nazionale. Il professore.” La parola mi uscì come un’accusa.

Adele abbassò lo sguardo, poi lo rialzò, e nei suoi occhi lessi una dolcezza che mi disarmò. “Si chiama Enrico.” Disse piano. “È un uomo gentile, colto. Mi rispetta, mi fa sentire… al sicuro. Ci frequentiamo da tre mesi.”
“Tre mesi?” Ripetei, quasi incredulo. “E non me l’hai detto? È una cosa seria, allora? Che intenzioni hai?” La mia voce si incrinava, tradendo la gelosia che mi consumava.
“Giovanni, calmati.” Disse lei, posando una mano sul bordo della scrivania. “Non lo so, davvero. Stiamo costruendo qualcosa, passo dopo passo. Non è una promessa, è… un tentativo. Chi vivrà vedrà.”
Quelle parole, così semplici, mi ferirono più di un rifiuto. Persi il controllo. “Perché lui sì e io no?” Esclamai, avanzando di un passo. “Dimmi che non lo ami, dimmi che non è come noi! Dimmi che non è niente in confronto a quello che c’è stato tra noi!”
Adele mi fissò, sorpresa, quasi spaventata dal tono delle mie parole. “Giovanni, sei geloso?” Chiese, con un filo di voce. “Dopo tutto questo tempo?”
“Sì, dannazione!” Gridai, incapace di trattenermi. “Sono geloso di te, dell’aria che respiri, di ogni istante che passi con lui! Non sopporto l’idea di te con un altro, non dopo tutto quello che c’è stato. È inconcepibile, Adele. Dimmi, sei ancora mia?” Adele non rispose ed io urlando; “Ci hai fatto l’amore?”

Il silenzio che seguì fu pesante, rotto solo dal ticchettio della pioggia contro la vetrina. Adele si alzò lentamente, venendo verso di me. I suoi occhi erano lucidi, ma la sua voce era ferma. “Lui non è te.” Disse, scandendo ogni parola. “Enrico è compagnia, è stabilità, è un modo per non sentirmi sola. Ma tu…” Si fermò, cercando le parole. “Tu sei il fuoco che non si spegne, Giovanni. Non lo capisci? Sei nei miei pensieri, nei miei ricordi, in ogni angolo di questa città. Due amanti come noi non si lasciano mai, nonostante le difficoltà, nonostante il mondo, nonostante tutto.”
Le sue parole mi colpirono come una promessa eterna, ma anche come un addio. Ci guardammo, immobili, a pochi centimetri l’uno dall’altra. Il suo profumo, lo stesso di quella sera sul divano di velluto, mi avvolse, e per un istante fui tentato di cancellare la distanza tra noi. Allungai una mano verso il suo viso, la mia bocca si avvicinò alla sua, ma lei si ritrasse, posando una mano sul mio petto. “No, Giovanni.” Sussurrò, con gli occhi pieni di lacrime. “Vai da Sofia, da Luca. Sono loro che hanno bisogno di te. Porta con te questo: non ti ho mai lasciato, e non lo farò mai.”

Uscii dall’agenzia senza dire una parola, il cuore in frantumi. Roma, fuori, era ancora lì, indifferente al mio dolore. La pioggia cadeva leggera, le luci dei lampioni si riflettevano sulle pozzanghere, e il rumore dei clacson si mescolava al brusio della città. Camminai a lungo, senza meta, lungo il Lungotevere, passando davanti al palazzo dove Adele mi aveva dato quel bacio sulla guancia, anni prima. Ogni angolo di Roma sembrava portare il suo nome: il ristorante dove le avevo confidato che sognavo una donna come lei, l’agenzia con le sue proposte di ragazze improbabili, il divano di velluto dove ci eravamo amati per la prima volta. Era tutto lì, inciso nella mia memoria, come una storia che non potevo cancellare.

Tornai a casa tardi. Sofia mi accolse con il suo sorriso caldo, come sempre, e Luca mi corse incontro, stringendomi le gambe. “Papà, dove sei stato?” Chiese, con la sua voce allegra. Lo presi in braccio, lo strinsi forte, e per un istante il peso sul mio cuore si alleggerì. Sofia mi guardò, senza fare domande, e mi sfiorò la mano. Loro avevano bisogno di me, e quella consapevolezza mi riempì quasi tutto il cuore.
Quasi, sì. Perché una piccola parte di me apparteneva ancora ad Adele. Sarebbe rimasta per sempre sul Lungotevere, in quel bacio rubato, in quelle serate di confidenze e risate, in quella prima volta che ci eravamo persi l’uno nell’altra. Era un amore che non poteva essere vissuto, ma che non sarebbe mai morto. E mentre Roma continuava a brillare fuori dalla finestra, con le sue luci e il suo caos, capii che Adele aveva ragione: due amanti come noi non si sarebbero mai lasciati, mai, nonostante tutto.



FINE








Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.


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