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Adamo Bencivenga
CHIODO SCHIACCIA CHIODO
Joe, consumato dal sospetto scopre la verità sul tradimento di sua moglie Lisa in un motel. La sua gelosia lo spinge verso Rebecca, la sua segretaria.
la sua rivincita, la sua nuova partita da giocare, il suo chiodo schiaccia chiodo...




 
Joe schiacciò la sigaretta sul pavimento della cucina sotto la sua scarpa, lasciando che il mozzicone ancora rovente si diffondesse in una macchia grigia, un piccolo marchio di possesso su una casa che non sentiva più sua. Il posacenere sul tavolo traboccava da giorni, una montagna di cenere e filtri che odorava di notti insonni e silenzi. Tre mesi. Tre mesi di fumo che gli scivolava nei polmoni come un’amante dimenticata, calda e familiare, che tornava a reclamare il suo spazio tra le costole. Aspirava profondamente, cercando di riempire il vuoto che la nicotina non poteva toccare. Ogni boccata era un sospiro trattenuto, un tentativo di calmare il battito che gli martellava nelle tempie, ma il desiderio restava lì, pulsante, come un’erezione mai soddisfatta.

Il telefono vibrò sul tavolo con un ronzio secco. Era lei Lisa, sua moglie. “Joe, scusa, farò tardi.” La voce di lei scivolò nell’orecchio, piatta, priva di calore, come se leggesse un copione scritto. “Puoi andare a prendere i ragazzi a scuola? Portali dalla nonna, per favore. E… poi, passa in lavanderia, le tue camicie sono pronte.” Nessuna carezza nella voce, nessun “ti penso”, solo ordini secchi, come unghie taglienti che graffiano senza lasciare traccia. Joe strinse il telefono fino a sentire le nocche sbiancare. “Certo.” Mormorò nel vuoto, ma la linea era già morta.

Riagganciò, il silenzio gli riempì la bocca come il fumo amaro delle sue Pall Mall. Non era sorpreso. Era lunedì, e ogni lunedì da tre mesi era lo stesso rituale: la voce di Lisa che scivolava via. Non era solo il fumo che gli bruciava la gola. Erano tre mesi che non affondava nel calore di lei, che non sentiva la curva morbida del suo seno ancora giovane. Tre mesi che dormivano schiena contro schiena con il corpo di Lisa impalpabile che scivolava via come granelli di sabbia calda tra le dita.

Ogni mattina, nello specchio appannato del bagno, incontrava un estraneo: capelli più grigi che gli incorniciavano il viso come cenere, occhiaie profonde e il peso di un desiderio che gli gonfiava il petto e altrove, un’erezione mattutina che si spegneva sola contro il lavandino freddo. Sospettava di lei. Non voleva ammetterlo, ma il pensiero si insinuava nella sua mente come una lama appuntita immaginando le sue labbra morbide che si aprivano al piacere di un altro maschio, forse più eretto del suo. Non poteva fare a meno di pensarci...

Lei da tre mesi parlava del professor Mark Davis come di un profumo nuovo che le si era appiccicato addosso: “Un collega brillante.” Diceva la sera a cena, e la parola “brillante” le faceva brillare gli occhi, un lampo che Joe non vedeva più da mesi. “Divorziato da poco, sai...” Joe annuiva, ma dentro ripeteva il suo mantra: “I divorziati sono i più pericolosi”. Il bicchiere di vino nelle sue mani tremava mentre il liquido rosso gli scivolava sulla lingua, acido, caldo, un morso che gli scendeva nello stomaco e poi più in basso, tra le cosce, dove il desiderio si mescolava alla rabbia.

Se lo immaginava questo Mark: camicia bianca stirata che aderiva al torace, il colletto aperto quel tanto da lasciar intravedere la pelle ancora abbronzata, il sorriso lento che prometteva di sapere esattamente dove mettere le mani. Immaginava Lisa che rideva alle sue battute, quella risata che un tempo riservava a lui quando le sussurrava oscenità nell’orecchio mentre la scopava contro il muro della cucina.

E poi la mente di Joe scivolava più in là, oltre il confine del lecito: il motel sulla statale, l’insegna al neon a forma di cuore che pulsava rosa e viola, come un clitoride luminoso. Ci andavano loro, prima del matrimonio e prima che arrivassero i figli, quando Lisa si strusciava contro di lui ancora prima di entrare in stanza, le mani già sotto la sua cintura, la bocca affamata. Ora si immaginava Mark al suo posto: le dita di lui che slacciavano la camicetta di seta, i bottoni che saltavano lenti, uno a uno, la stoffa che scivolava giù dalle spalle, il reggiseno di pizzo nero di lei, la calza velata che Joe le vedeva indossare da mesi, con cura e malizia, la mattina davanti allo specchio.

Ecco sì, immaginava Mark baciarle il collo, proprio dove Lisa si scioglieva, la lingua che tracciava la linea fino al bordo del seno, succhiando piano, facendola inarcare. Lisa con le cosce spalancate sul letto sfatto, le mutandine di lato, il sesso lucido e gonfio, Mark che affondava in lei con un colpo secco facendola urlare come una gatta in calore. E poi quelle lenzuola del motel che sapevano di muffa, di disinfettante e di sperma vecchio, ma Lisa non se ne curava: si aggrappava alla schiena di Mark, le unghie che lasciavano solchi rossi, i talloni piantati nei suoi fianchi, spingendolo più a fondo, più forte, fino a far tremare il letto contro il muro.

Joe lì in cucina immaginava tutto sentendo il cigolio delle molle, i sospiri di lei che diventavano gemiti, poi urla, poi il nome di Mark pronunciato come una preghiera oscena. Ma nonostante rivivesse ogni giorno quella scena, non ne era certo e ogni giorno si prometteva di andare a controllare. Lo avrebbe fatto, certo, ma ogni giorno rimandava e preferiva scendere in cantina. L’aria lì era densa, odorava di polvere e di vecchio desiderio, di scatoloni dimenticati e di lenzuola mai lavate. L’armadietto delle scarpe era lì, in fondo, accanto alla scatola degli attrezzi che non toccava da anni.

Infilò la mano dietro le vecchie sneakers di suo figlio Luca e trovò la rivista. Patinata, lucida come pelle bagnata, la copertina calda sotto i polpastrelli. La donna in copertina lo fissava, nuda con le tette grandi, le labbra socchiuse e il capezzolo turgido come un invito. Sfogliò una pagina, due: cosce spalancate, dita che scivolavano tra le pieghe lucide, un gemito stampato in silenzio. Sfogliò ancora le pagine alla ricerca di un volto più somigliante a Lisa. Quelle donne erano la sua misera rivincita, ma non erano Lisa. Non avevano la curva morbida del suo seno, non avevano le sue labbra umide quando lui la leccava fino a farla tremare.

Provò a toccarsi, ad eccitarsi, ma non era la stessa cosa, allora scosse la testa e arrotolò la rivista rimettendola al suo posto. Risalì e il silenzio della sala da pranzo lo colpì come un pugno. Si sedette sul divano, una sigaretta tra le dita, il filtro già umido della sua saliva. Aspirò, il fumo che gli scivolava in bocca come una lingua calda, poi saliva in spirali lente verso il soffitto, disegnando corpi nudi nell’aria. Pensava a Lisa. A come lo guardava un tempo, gli occhi socchiusi, la bocca aperta, mentre lui la scopava sul tavolo della cucina, le gambe di lei avvinghiate ai suoi fianchi.

Ora si sentiva invisibile, un’ombra che lei attraversava senza toccare. Forse era già successo. Forse Mark era già dentro di lei, in quel motel, nella stanza 12 con il cazzo duro di lui che affondava lento, profondo, facendola gemere. Prese il telefono, le dita che tremavano appena. Scrisse un messaggio: “Lisa dobbiamo parlare, stasera…” Il messaggio partì con un suono secco, come un colpo di reni contro il muro, e lui rimase lì, il fumo che gli velava gli occhi, il desiderio e la rabbia che gli si mescolavano nel sangue come vino e nicotina.

Attese, nessuna risposta, e allora come un vecchio giocatore che sente il sangue scaldarsi al River, quella quinta e ultima carta, Joe sentì un brivido freddo. Non era una mano qualunque: era la mano, il momento in cui il bluff si rompe o si vince tutto. Tre mesi di rilanci invisibili, di sorrisi tesi, di “sto bene” detti con la bocca, ma non con gli occhi. Aveva imparato sui tavoli verdi che un sorriso troppo largo nasconde spesso un full di assi, e che il vero uomo non aspetta: alza, rilancia, vede, spinge.

E allora infilò il giubbotto di pelle e decise di uscire di casa. La macchina tossì, poi ringhiò viva. Sterzò nella Nazionale, il traffico delle sei che si gonfiava come vene turgide, clacson che pulsavano come respiri affannati, luci rosse che lampeggiavano nel crepuscolo come capezzoli sotto una camicia bagnata. Trenta minuti. Trenta minuti per arrivare al motel sul mare, quel buco di piacere con le finestre aperte sulle onde, l’insegna al neon che sfarfallava HEARTBREAK MOTEL in un rosa malato.

Un tempo era stato il loro nido: lui la scopava da dietro contro il vetro appannato e il mare di fronte che sbatteva sotto di loro come un secondo corpo. Ora, nella sua testa, era diventato il tavolo da gioco di Mark. Immaginava già le carte: Lisa sdraiata sul letto, le cosce aperte come la porta di una chiesa la domenica, Mark sopra di lei con il cazzo duro, lento, preciso, che affondava nel posto che un tempo era solo suo. Ogni colpo un rilancio. Ogni gemito di lei un punto al poker. Joe strinse il volante, il motore rombava, il cuore anche. Stava andando a vedere. E se il bluff era vero, avrebbe alzato di più. Molto di più.

Sterzando tra le auto, Joe tornò ai suoi tavoli verdi: il feltro umido di birra, il sudore che gli colava lungo le tempie quando bluffava con una coppia di due, il battito lento del polso che tradiva la debolezza dell’avversario come gli occhi di Lisa che scivolavano via a colazione, come se guardarlo fosse una mano persa in anticipo.

“Sei paranoico, Joe!” Si ripeteva, ma il poker gli aveva insegnato che la paranoia è solo intuizione e Mark probabilmente aveva un ego grosso come un full di assi, nascosto dietro occhiali di tartaruga e battute colte. Joe lo vedeva: le dita di lui che slacciavano il primo bottone di Lisa, poi il secondo, la lingua che tracciava la linea della clavicola fino al bordo del reggiseno, succhiando piano, facendola tremare. Lisa che si mordeva il labbro, lo stesso labbro che Joe aveva morso mille volte, mentre Mark affondava nel suo taglio umido e voglioso con la calma di chi sa di avere la mano vincente. “Scopami adesso!” Diceva lei, con la stessa enfasi di quando Joe la sbatteva contro il frigorifero.

Arrivò al motel. Parcheggiò in fondo, inghiottito tra due SUV lucidi, spense il motore e lasciò che il silenzio gli entrasse nelle ossa. Le onde sotto il costone si rompevano sugli scogli con un ritmo carnoso. Aspettò. Dieci minuti. Quindici forse. Il telefono vibrò sul sedile: “Joe, ho visto il messaggio solo ora. Parliamo domani, ok? Sono esausta.”

Esausta. La parola gli scivolò sulla lingua come sperma freddo. Lui non rispose. Spalancò la portiera, l’aria salata gli invase i polmoni, salmastra e densa come il sapore della figa di Lisa dopo l’amore. Si avvicinò alla stanza 12, si accucciò dietro un cespuglio umido. Poi la vide. La monovolume rossa, familiare, come il gemito di lei quando lui la prendeva da dietro. Parcheggiò. Lisa scese: capelli sciolti che le accarezzavano le spalle, camicetta sbottonata quel tanto da mostrare il bordo di pizzo nero del reggiseno, gonna al ginocchio che si tendeva sulle cosce mentre camminava, tacchi alti che battevano l’asfalto come colpi di reni.

Mark era accanto a lei, mano nella mano, dita intrecciate con la naturalezza di chi ha già affondato dentro quel corpo più volte. Un gesto intimo, possessivo, come se la stanza 12 fosse solo l’ennesima mano di una partita già vinta. Sparirono oltre la porta. Il battente si chiuse con un clic secco, definitivo. Joe sentì il tavolo da poker traballare su una gamba rotta. Non urlò. Non corse. Rimase lì, mani in tasca, il cazzo duro come dopo un orgasmo negato. Aveva visto le carte: non era un bluff. Era un full house contro la sua coppia servita.

Tre mesi di cenere, di sospetti, di notti in cui il letto era troppo grande e il suo cazzo troppo duro contro il lenzuolo. Ora la verità era lì, nuda e cruda come Lisa sotto un altro uomo. Accese la sigaretta con un gesto lento, il filtro tra le labbra umide, il fuoco che gli scaldava la punta delle dita. Aspirò profondamente, il fumo che gli riempiva i polmoni come un orgasmo trattenuto, poi lo lasciò uscire in un sospiro lungo, guardando il mare nero inghiottire la luna come una bocca affamata. Il gioco era finito, ma lui non era ancora fuori dal torneo.

Tornò in macchina, strinse il volante fino a far scricchiolare le ossa delle dita. Compose il numero di Lisa. Uno squillo. Due. Tre. A vuoto. Ogni tu-tu un ago che gli trafiggeva il petto, scendeva più in basso, tra le cosce, gli faceva gonfiare il sesso nei jeans. Non era eccitazione, ma il suo ego di maschio! Immaginava il telefono di Lisa nella stanza 12, accanto alla borsa aperta lasciata sul pavimento per la fretta. Le lenzuola lise, impregnate di disinfettante e di sesso che ora accoglievano lei e Mark.

Lisa urlava. Sempre. Non era una donna da sussurri o sospiri discreti; era un’eruzione, un’onda che travolgeva tutto. Joe ricordava ogni grido: il modo in cui lei gli afferrava i capelli, tirava forte, gli graffiava la schiena fino a far sanguinare, si abbandonava come se il piacere fosse una resa totale. “Sì, Joe, più forte, scopami! Fammi sentire una troia affamata!” Urlava, le cosce spalancate, il sesso lucido e gonfio, il clitoride turgido sotto la lingua di lui, fino a farla tremare, fino a farla venire con un urlo che squarciava la notte.

Ora quel fuoco bruciava nella stanza 12, Lisa era inarcata sul letto, i capelli sparsi sul cuscino, le cosce spalancate, la voglia di essere riempita. Mark affondava in lei con colpi profondi, precisi come chi sa di come farsi una donna e farla godere, come un re assoluto, come un padrone: dentro, fuori, dentro, fino a farla contorcere. “Sì, Mark, ancora, non smettere!” E Joe, fuori, con il telefono che squillava nel vuoto, il cazzo duro e il cuore in frantumi, a immaginare ogni spinta, ogni gemito, ogni contrazione di lei.

E Mark lì dentro al suo posto che ubbidiva, ignaro che stava solo prendendo in prestito un corpo: Lisa non sarebbe mai stata sua, mai totalmente, perché Lisa apparteneva solo a se stessa, al suo piacere, alla sua fame. Uno squallido amore infedele, pensò Joe, ma il pensiero non lo consolava. Era ipocrisia, sì, ma anche bisogno, fame, qualcosa che lui non riusciva più a darle. Da quanto tempo non si toccavano? Tre mesi, maledetti tre mesi. Lisa si rifugiava nella stanchezza, nei mal di testa, nelle scuse che all’inizio Joe aveva accettato come carezze, poi sopportato come schiaffi, infine odiato come coltellate. A letto si voltavano le spalle, separati da un abisso di cuscini freddi e silenzi pesanti. Lui aveva provato a parlarle, a toccarla, a sfiorarle la schiena nuda con la punta delle dita, a riaccendere qualcosa. Ma lei si irrigidiva, si chiudeva, come una carta che non vuoi giocare.

E ora eccola lì, a urlare per un altro, a lasciarsi andare in un motel con vista mare, le onde che sbattevano sotto la finestra come una scopata. Mentre lui marciva in macchina, il telefono che squillava nel vuoto, ogni tu-tu un colpo di reni. Chiuse il telefono. Il silenzio del parcheggio lo avvolse come una coperta umida. Accese un’altra sigaretta, la aspirò profondamente, lasciando che il fumo gli bruciasse i polmoni, gli scendesse nello stomaco, gli gonfiasse il basso ventre. Non era solo gelosia. Era di più. Era la consapevolezza che qualcosa con Lisa non funzionava più. Lisa non era solo sua moglie: era il suo centro di gravità, il punto dove il suo cazzo trovava casa, dove il suo cuore batteva in sincrono con il suo clitoride. E ora quel centro si era spostato, lontano, in un letto che non era il loro, sotto un altro uomo.

Gettò il mozzicone dal finestrino: una scintilla arancione che danzò un istante sull’asfalto bagnato. Non sarebbe entrato. Non avrebbe fatto una scenata. Non era quel tipo di uomo. Ma tornare a casa era come infilarsi di nuovo dentro un letto già usato da un altro. Mise in moto e guidò via dal motel. Le luci al neon si rimpicciolirono nello specchietto.

Non sapeva dove andare, ma fermarsi era perdere. Il gioco non era finito, ma lui aveva ancora una carta da giocare. E la sua carta si chiamava Rebecca. Un chiodo schiaccia chiodo, e Rebecca era quel chiodo: affilato, caldo, pronto a conficcarsi nella carne viva del tradimento. Gli venne in mente lei in tutto il suo splendore. Non c’era mai stato nulla di carnale tra loro, solo attesa e disponibilità, tensione elettrica nei sorrisi di cortesia, nei caffè offerti con un dito che sfiorava il suo troppo a lungo. Ma ora, ripensandoci, vedeva tutto: quel frammento della sua calza color carne, proprio sopra le ginocchia, quando Rebecca si sedeva alla scrivania e la gonna si alzava di un centimetro, solo un centimetro, abbastanza per far intravedere la trama rinforzata, il bordo liscio che saliva lungo la coscia come un invito sussurrato.

La vedeva, sì. La trama sottile alle dita dei piedi, al tallone, quando si toglieva le décolleté, appoggiando i piedi nudi sulla moquette dell’ufficio, le dita che si contraevano appena, la pelle pallida, la rete di nylon che catturava la luce come una ragnatela bagnata. Quel dettaglio gli evocava l’odore di resina calda nei boschi di conifere oltre Denver. Rebecca non era Lisa. Non urlava. Non graffiava. Ma era lì, ogni giorno, con quel frammento di calza, quel sorriso trattenuto, quel “capo” pronunciato con la lingua appena sulla punta dei denti. E ora, mentre guidava nel buio, Joe capì: non era più un gioco di sguardi. Era carne, la sua rivincita.

Rebecca non era più un pensiero: era la sua rinascita, il non sentirsi cornuto, il rifugio dove il tradimento di Lisa si dissolveva come fumo in una stanza chiusa. Più di una modella nuda su un calendario da officina, più di un corpo comprato in un vicolo, quella calza color carne era il suo mare privato di perversioni, un oceano caldo dove galleggiare senza catene e senza giudizi.

Avevano cominciato tre mesi prima, ai primi rifiuti di Lisa. Lui si era rifugiato in quel gioco come in uno sfogo alla domenica quando stringeva la sciarpa del cuore e urlava “Figlio di puttana!” all’avversario invisibile. Tra loro solo parole. Mai una cena, mai una mano, mai una trasgressione. Solo fiches di carta, leggere e senza valore. Ma stasera quelle parole pesavano come piombo, perché Lisa stava scopando con un altro Perché lui era ufficialmente un cornuto!

Il gioco era nato per caso. Joe era rimasto in ufficio fino a tardi, i piedi sulla scrivania, lo sguardo perso nel soffitto. Rebecca era entrata con una pila di fatture, la gonna stretta che le aderiva alle cosce come una seconda pelle, trasparente quel tanto da far intravedere le stringhe del reggicalze. Lui, senza pensarci, aveva detto:
“Se fossi un colore, saresti grigio perla.” Lei aveva riso, sorpresa, un suono basso di gola, poi aveva ribattuto:
“E tu saresti il blu delle tute da lavoro, capo.” Da lì era partito tutto. Un gioco di parole, di dettagli, di confini mai oltrepassati. Regole non scritte. Solo dettagli: un bottone slacciato, un fermaglio diverso, la riga della calza.
Niente appuntamenti, niente cene, niente mani. Solo sottintesi, promesse, respiri trattenuti al telefono.
Lui chiedeva. Lei rispondeva. Sempre.

Era diventato il loro rituale, un rosario laico recitato in due stanze separate da una porta chiusa. Joe entrava nel suo ufficio, la chiave che girava nella toppa come un clic di sicurezza, poi alzava il ricevitore:
“Oggi?” Chiedeva senza dire altro. Dall’altra parte, Rebecca si sedeva. Accavallava le gambe con lentezza calcolata, la gonna che saliva di quel centimetro fatale, il fruscio del nylon come una carta sfogliata.
“Gonna nera, spacchetto laterale. Calze velate, rinforzo sul tallone. Scarpe basse, nere.” Lui annuiva nel buio, come se potesse vederla, come se il telefono fosse una finestra aperta sulla sua carne.

“E sopra?” “Camicia bianca, terzo bottone aperto. Reggiseno beige.” Non era desiderio crudo. Era precisione. Era controllo. Ogni parola una fiche impilata con cura, un chip che lui poteva contare, muovere, usare per sentirsi ancora padrone del tavolo. A casa Lisa era un check di silenzi. Con Rebecca invece ogni dettaglio era una mano vincente e nei giorni migliori, lei alzava la posta:
“Oggi niente reggiseno, capo.” Joe sentiva il sangue scendergli lento tra le cosce.
“Non mi dire che porti il reggicalze?” Lei non si sbilanciava, ma il silenzio era già un invito.
“Cena?” rilanciava lui, la voce bassa. Lei sorrideva.
“Ricordati la regola numero tre, capo.”
“E se la infrangessimo?”
“Allora non sarebbe più il nostro gioco.”
A quel punto lui riattaccava con un “Ti richiamo” e lei, come da copione, non rispondeva, non aveva mai risposto.

Il telefono rimaneva muto, ma l’aria vibrava ancora del fruscio di quella gonna, del tintinnio immaginario di un fermaglio, del calore di una coscia appena sfiorata. Ogni volta si erano fermati a un soffio dal bordo, a un battito dal punto definitivo. Ogni volta aveva funzionato proprio perché non era successo nulla: solo parole, solo dettagli, solo il fruscio di una calza immaginata. Ma ora quei dettagli erano chip nascosti pronti a essere sbattuti sul tavolo verde. E il momento era arrivato.

Joe guidava nel traffico, radio spenta, finestrino socchiuso: l’aria di ottobre gli entrava fredda, tagliente, come una lingua di Rebecca che gli lambiva il collo. Pensava a lei, solo a lei: la scrivania ordinata, le penne allineate come fiches, il modo lento in cui si sistemava una ciocca dietro l’orecchio quando rispondeva al telefono, un gesto che gli faceva immaginare la sua bocca socchiusa, il respiro caldo contro il microfono.

Lisa era sparita dalla sua mente e Rebecca era la sua ancora di precisione, un pensiero che lo teneva a galla mentre la nave affondava. Arrivò al parcheggio dell’ufficio, spense il motore. Rimase lì, immobile, a fissare il vuoto. Il pensiero di avere qualcosa da nascondere, un piccolo segreto da custodire, gli faceva scorrere il sangue più veloce. Nello specchietto retrovisore non era più il marito tradito, il cornuto, il padre che non era andato a prendere i figli a scuola: era un uomo con un’arma segreta, un asso nella manica fatto di calze color carne, trame rinforzate, un bottone slacciato che prometteva tutto e non chiedeva nulla.

Quel frammento di Rebecca gli scivolava nelle vene come benzina. Non era colpa: era carburante puro, caldo, che gli accendeva il basso ventre. Compose il numero, il pollice che premeva i tasti con la stessa lentezza di chi conta le fiches prima del rilancio. Lei rispose al secondo squillo, la voce svenevole, bassa, come seta bagnata.
“Ciao, sono Joe. Novità?”
“Nessuna, capo. Nessun appuntamento. Lisa non ha chiamato.”
Un silenzio breve, denso, poi la voce di Rebecca si fece più morbida, un sussurro che gli sfiorò l’orecchio come la punta di una lingua.
“Come stai, capo?”
“Sopravvivo.”
Un respiro.
“E tu… come sei vestita oggi?” Un risolino basso, complice, che gli fece contrarre il cazzo.
“Gonna grigia, camicetta bianca. Calze color carne con la riga dietro, tacco 10…”
Joe chiuse gli occhi un secondo. Immaginò la riga dritta, perfetta, che saliva lungo la coscia fino a scomparire sotto la gonna, il bordo del reggicalze che spuntava appena, il tacco che batteva piano sul pavimento come un battito cardiaco.
“Cena stasera?”
“Sai che non posso. Ordini del capo: niente cene a meno che non succeda qualcosa.”
“Regole vecchie Rebecca…” Mormorò lui.

Rebecca sapeva tutto.
Sapeva di Lisa, dei silenzi, dei “mal di testa” che erano coltellate.
Sapeva del motel, del professore, del timore che Joe portava in tasca come un segreto.
Avevano stabilito la regola: niente, nulla, nessun tradimento finché i timori non fossero diventati reali.
Una barriera di carta, sottile come il bordo di una calza, ma questa volta dal tono della voce di lui Rebecca capì: il pomeriggio era diverso.
Si guardò nello schermo nero del pc, il riflesso delle sue labbra pallide. Un rossetto più scuro, pensò, sarebbe stato perfetto. Poi disse, piano.
“È successo qualcosa di importante? Stai andando al motel?”
Joe si vergognò. Aveva già visto. Da mezz’ora portava le corna come un marchio caldo sulla fronte.
“Sto andando…” Mentì, la voce che gli tremava appena.
“Allora chiamami quando sarai lì… Pensi che sia già successo?”
“Penso che il tuo abbigliamento sia molto adatto per una serata da chiodo schiaccia chiodo.”
Rebecca nascose la contentezza dietro un respiro trattenuto.
Accavallò le gambe lentamente, la riga della calza che si tendeva come una corda d’arco. Sperava, con tutta se stessa, che Lisa fosse in quel motel, nuda, urlante, che godeva a farsi chiamare troia dal bel professore, esattamente come avrebbe desiderato che Joe chiamasse lei.
Perché solo allora il gioco sarebbe finito e un altro sarebbe iniziato.

Lei non disse altro e Joe riattaccò con un clic secco, come la sicura di una pistola. Silenzio. Lasciò passare il tempo giusto per il tragitto fino al motel e verificare ciò che già sapeva.
Intanto immaginò Rebecca nel bagno dell’ufficio, davanti allo specchio con il rossetto rosso scuro che scivolava lento sulle labbra, un colore da puttana d’alta classe. Poi l’armadio, la scatola nascosta dietro le cartelle: il reggicalze nero di pizzo, i gancetti di metallo che allacciavano la calza color carne.

Joe capì, in quel momento, che il gioco era cambiato. Non era più un passatempo di parole e dettagli. Non era più un gioco innocuo. Rebecca era la sua via di fuga, la mano che poteva vincere o perdere tutto. Il suo chiodo schiaccia chiodo! Con il punto già in mano l’avrebbe richiamata. Del resto sapeva già cosa stava succedendo nella stanza 12.

Attese ancora qualche minuto poi compose il numero. Uno squillo. E per la prima volta Rebecca rispose.







Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.

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