CERCA NEL SITO   CONTATTI   COOKIEPOLICY 
 
 
RACCONTO
 
 
Adamo Bencivenga
STORIA DI ORDINARIA INFEDELTA'
Sotto un cielo bolognese di nubi sfilacciate, Tommaso, sessantaduenne commercialista, si trova intrappolato tra i silenzi di un matrimonio ormai spento con Ginevra e l’inaspettata passione per Alice, una restauratrice d’arte conosciuta per caso. La loro storia, intrecciata tra le vie di Bologna, lo costringe a confrontarsi con il peso delle scelte non fatte e il desiderio di ritrovare se stesso. Riuscirà a scegliere tra il conforto della routine e il fuoco di una nuova vita?
 


 

 
Il cielo sopra Bologna era un cupo collage di nubi sfilacciate, come se anche l’autunno si fosse stancato di splendere. Tommaso si aggiustò il nodo della cravatta, mentre il prete parlava di eterno e di promesse indissolubili. Trent’anni fa, in una chiesa come quella, aveva guardato Ginevra negli occhi, lei con quel velo bianco che le scivolava sulle spalle abbronzate, e aveva creduto che il loro amore sarebbe stato qualcosa di unico, solido ed eterno come una fortezza inespugnabile.

Ora, a sessantadue anni, si ritrovava a contare le crepe di quella fortezza, seduto al tavolo della cucina, con il caffè che si freddava nella tazza e il silenzio di Ginevra che pesava come un macigno più delle parole dette.
Non ricordava il momento esatto in cui il loro matrimonio era diventato un’architettura di consuetudini, un edificio di stanze vuote dove si incrociavano come ombre. La loro figlia, ormai grande e indipendente, aveva portato via con sé il rumore della casa, il gioco e la leggerezza, lasciando solo il ticchettio dell’orologio a parete in cucina e il fruscio delle pagine dei libri di moda di Ginevra.

Ormai da anni sua moglie si era rifugiata nel suo mondo di stoffe colorate, curando le sue creazioni con una devozione che Tommaso non vedeva più nei suoi occhi quando lo guardava. Lui, invece, si era perso nei fascicoli del suo studio di commercialista, nelle riunioni interminabili, nelle serate al bar con colleghi che parlavano di calcio e politica per non parlare di sé. Ma la verità era che, senza intimità, senza quel fuoco che un tempo li aveva scaldati, erano diventati due isole separate da un mare di silenzi.


******


Poi era arrivata Alice, come un temporale d’estate. Era successo in una libreria di Via de’ Musei, tra gli scaffali polverosi dove il profumo della carta vecchia si mescolava a quello del caffè del bar accanto. Era un pomeriggio di fine settembre, con Bologna che si preparava ad accogliere un imminente acquazzone di grandine e foglie. Tommaso, con il suo impermeabile un po’ stropicciato e gli occhiali che gli scivolavano sul naso, si era fermato davanti a una sezione di libri per bambini, cercando un’edizione illustrata di fiabe per la nipotina. Non era a suo agio: i colori vivaci delle copertine gli sembravano un mondo lontano e troppo infantili, e il suo sguardo vagava incerto, quasi imbarazzato.

Alice era entrata in quel momento, portando con sé una folata di vento che aveva fatto frusciare le pagine di un libro aperto sul tavolo. Aveva una sciarpa rossa avvolta con noncuranza intorno al collo e un paio di stivaletti che ticchettavano leggeri sul pavimento di legno. Non era giovanissima – forse sui trentacinque anni oppure quaranta, ma sprigionava un’energia che sembrava accendere l’aria intorno. Si era diretta con decisione verso lo scaffale di narrativa italiana, e il caso aveva voluto che la sua mano e quella di Tommaso si posassero contemporaneamente su una copia sgualcita de “Le cosmicomiche” di Italo Calvino.

“Le piace Calvino?” Aveva chiesto lei, con un tono che non era né curioso né invadente. Lui, colto di sorpresa, aveva alzato lo sguardo e si era trovato davanti due occhi verdi, vivaci, che lo studiavano con interesse. “Non proprio.” Aveva risposto, con un mezzo sorriso che tradiva il suo disagio. “Cioè, sì, ma non sono qui per me. È per mia nipote… un regalo.”

Alice aveva sorriso: “Un regalo, eh? Ma questo non è propriamente per bambini.” Aveva detto, indicando il libro. “Però… ha ragione… Calvino sa parlare a tutte le età. Magari lo legga anche lei, potrebbe sorprenderla.” C’era una leggerezza nella sua voce, ma anche una punta di sfida, come se lo stesse invitando a uscire dalla sua zona di comfort e confrontarsi con altri mondi. Tommaso, che di solito si sentiva a suo agio solo tra i numeri e i bilanci, si era trovato a rispondere senza pensarci troppo: “Forse lo farò. Ma solo se mi consiglia anche qualcos’altro.”

Da lì, la conversazione era scivolata via leggera. Avevano parlato di libri, di Bologna, di come il profumo della carta vecchia fosse una delle poche cose capaci di fermare il tempo. Alice aveva un modo di parlare che era allo stesso tempo diretto ed evocativo. Si presentò dicendo di essere una restauratrice d’arte, di come le sue giornate fossero fatte di pennelli, tele e silenzi. Tommaso, quasi senza accorgersene, si era lasciato andare, raccontandole di quando, da ragazzo, sognava di viaggiare per il mondo invece di finire intrappolato dietro una scrivania. Non era abituato a parlare di sé, ma con lei le parole uscivano facili, come se si fossero conosciuti da sempre.

Quando il proprietario della libreria, scusandosi, annunciò che stava per chiudere, si erano resi conto che il pomeriggio era volato. Uscirono con i libri in mano appena acquistati e davanti alla vetrina Alice sistemandosi la sciarpa gli propose: “C’è un bar qui vicino. Fanno un caffè che sa di casa. Ti va?” Il passaggio al “tu” era stato naturale, come se il “lei” fosse un intralcio di cui si erano liberati senza bisogno di dirlo. Tommaso aveva esitato un istante, il pensiero di Ginevra, della cucina silenziosa, della tazza di caffè freddo gli aveva attraversato la mente, ma poi aveva annuito. “Va bene. Un caffè.”

Al bar, tra il tintinnio delle tazze e il brusio degli altri clienti, il caffè si era trasformato in un bicchiere di vino rosso, un Sangiovese che aveva scaldato l’atmosfera. Alice raccontava aneddoti sul suo lavoro, ridendo di come una volta avesse passato ore a restaurare un dipinto solo per scoprire che era un falso. Tommaso si era sorpreso a ridere, a fare domande, a sentirsi vivo in un modo che aveva dimenticato. Non c’era stato nulla di esplicito, nessun gesto che superasse il confine di una conversazione tra perfetti sconosciuti, ma quando si erano salutati, scambiandosi i numeri di telefono Tommaso aveva sentito un trasporto che non provava da anni. E mentre tornava a casa sotto quel cielo di nubi sfilacciate, si era chiesto se fosse possibile, alla sua età, ricominciare a credere in qualcosa.


******

Due giorni dopo, il telefono di Tommaso squillò mentre era nel suo studio, circondato da pile di documenti e dal ronzio monotono della stampante. Era un mercoledì pomeriggio, e la luce grigia di Bologna filtrava appena attraverso la finestra. Sul display comparve un numero sconosciuto, pensò al solito spam, ma qualcosa gli disse di rispondere. La voce di Alice, allegra e leggermente rauca, lo colse di sorpresa: “Allora, hai letto Calvino o sei ancora fermo alle fiabe per tua nipote?” Tommaso sorrise, sentendo il cuore accelerare come non gli capitava da anni. Durante quei due giorni aveva pensato molto a lei, ma la sua pigrizia secolare lo aveva consigliato di non fare il primo passo ed affidarsi al destino.

Rimasero al telefono per una ventina di minuti, parlando del più e del meno. Lei raccontò con estremo trasporto di un dipinto che stava restaurando, un paesaggio del Settecento con un cielo che le ricordava Bologna in autunno. Lui si lasciò sfuggire un aneddoto su una cliente che aveva insistito per dedurre dal reddito il costo di un cappotto firmato. La conversazione scorreva leggera, senza forzature, ma con una corrente sotterranea che entrambi percepivano. Poi, quasi per caso, Alice disse: “Sai, dovresti vedere il mio laboratorio. È un caos, ma ha una sua magia. Se passi, ti offro un caffè… o magari un altro bicchiere di vino.” Poi dopo un attimo di silenzio aveva aggiunto: “E magari, se non ti crea disturbo possiamo anche cenare insieme…” Tommaso esitò, ma solo per un istante. “Domani?” Propose. “Domani.” Confermò lei, e lui poté quasi vedere il suo sorriso attraverso il telefono.

Quella sera, Tommaso tornò a casa pensieroso, sentiva dentro di sé un forte senso di colpa. Sua moglie Ginevra era in salotto, china su una rivista di moda, le dita che sfogliavano le pagine con un ritmo lento, quasi ipnotico. “Devo andare a una cena di lavoro domani.” Disse lui, cercando di mantenere la voce neutra mentre si versava nel calice un dito di Albana fresco. “Un cliente importante… vogliono discutere di un investimento.” La scusa gli uscì a fatica, come se ogni parola fosse un mattone che aggiungeva al muro di silenzi tra loro. Ginevra alzò lo sguardo, lo fissò per un secondo, poi annuì senza chiedere dettagli. “Va bene.” Disse, tornando alla sua rivista. Tommaso si sentì sollevato, ma anche più pesante, come se quella bugia fosse un tradimento già conclamato.


******

Il giorno dopo, nel tardo pomeriggio, Tommaso si presentò al laboratorio di Alice, un piccolo spazio in Via delle Belle Arti, incastrato tra un negozio di antiquariato e una bottega di ceramiche. L’aria odorava di legno vecchio, e le pareti erano coperte di tele, pennelli e bozze di dipinti. Alice lo accolse con un grembiule macchiato di pittura, i capelli raccolti in una crocchia e quel sorriso che sembrava accendere ogni cosa. Gli mostrò il suo lavoro, spiegando con passione come riportava alla luce i colori di un quadro dimenticato. Tommaso, che di arte sapeva poco, si trovò a pendere dalle sue parole, affascinato non tanto dal processo quanto dall’entusiasmo di lei.

Davanti alla macchinetta dell’espresso, mentre Alice preparava le due tazzine lui le chiese: “Non sei sposata, vero?” Lo disse quasi senza pensarci. Alice rise, scuotendo la testa. “No, mai stata. Troppo innamorata del mio caos per condividerlo con qualcuno… almeno finora.” Lo disse con leggerezza, ma il suo sguardo si fermò su di lui un po’ più a lungo del necessario, e Tommaso sentì un calore salirgli al petto proprio mentre Alice gli rivolse la stessa domanda: “E tu invece lo sei vero?” Lui rise: “Sono un marito, un padre e un nonno…” Lei giocando disse: “Sei tutte queste cose insieme?” Risero.

Parlarono ancora e quando decisero di andare Alice disse: “Beh, converrai che non posso venire vestita così!” Indicando con un gesto il grembiule sgualcito e le mani ancora sporche di residui di vernice. La sua voce aveva un tono leggero, ma nei suoi occhi verdi brillava una scintilla di determinazione. “Dammi dieci minuti.” Aggiunse, posando con cura il pennello sul tavolo. Poi, con un movimento rapido e deciso, si voltò e scomparve dietro una porta di legno sbiadito in fondo al laboratorio.

Oltre quella porta, si trovava un piccolo spazio che Alice aveva trasformato in un regno personale: un minuscolo camerino improvvisato, con uno specchio appeso al muro, una sedia di vimini e un appendiabiti dove teneva qualche cambio d’abito per le giornate più lunghe. Si tolse il grembiule con un gesto fluido, lasciandolo cadere sulla sedia, e sciolse la crocchia, lasciando che i capelli le ricadessero sulle spalle. Poi, con la sicurezza di chi sa esattamente cosa vuole, scelse un abito nero che aveva tenuto lì per occasioni come questa. Era un vestito semplice, ma elegante, con una scollatura discreta e una gonna che le accarezzava le gambe, sottolineando la sua figura senza risultare eccessivo. Si infilò un paio di décolleté dal tacco alto, che aggiungevano un tocco di raffinatezza.
Davanti allo specchio ripassò sulle sue labbra un velo di rossetto rosso scuro. Un rapido tocco di profumo completò la trasformazione. Guardandosi allo specchio, sorrise soddisfatta.

Quando, dopo esattamente dieci minuti, la porta si riaprì, Alice fece il suo ingresso nel laboratorio con una presenza completamente diversa. Il vestito nero le aderiva con grazia e la sua figura sembrava irradiare una sensualità discreta, ma innegabile, come se il laboratorio stesso, con i suoi colori e odori, si fosse inchinato alla sua metamorfosi. Si fermò a pochi passi da lui, con un sorriso che diceva tutto senza bisogno di parole. “Allora, che ne dici? Posso venire a cena così?” Chiese, con un tono che oscillava tra il giocoso e il seducente. Tommaso sorpreso da tanta eleganza disse semplicemente: “Sei meravigliosa.”
In strada dopo qualche passo Alice disse: “Conosco un posto perfetto. Non troppo elegante, ma con un’anima.” Aveva scelto l’Osteria Bottega, un locale caldo e accogliente in Via Santa Caterina, con pareti di mattoni a vista e tovaglie a quadretti. Seduti a un tavolo d’angolo, ordinarono tagliatelle al ragù e un bicchiere di Pignoletto, parlando di tutto e di niente: dei vicoli di Bologna, dei film di Fellini, di come Alice avesse sognato da ragazza di vivere a Parigi, ma non avesse mai lasciato l’Italia. Tommaso si sentiva come se stesse riscoprendo una versione di sé che aveva dimenticato: non più solo il commercialista stanco, ma un uomo capace di ridere, di ascoltare, di desiderare. “Alice, tu sei magica, era da tempo che non mi sentivo così bene.” Lei sorridendo rispose: “Non è merito mio Tommaso, forse avevi solo voglia di staccare la spina.”

Ci fu una pausa, un momento di silenzio in cui il tintinnio delle posate e il brusio degli altri tavoli sembravano lontani. Alice, con la sua solita delicatezza, ma con un’ombra di curiosità negli occhi, posò il bicchiere e chiese, quasi sottovoce: “E tu, Tommaso? Come vanno le cose con tua moglie?” La domanda non era invadente, ma diretta, come se volesse davvero capire chi fosse l’uomo seduto di fronte a lei.
Tommaso abbassò lo sguardo per un istante, rigirando il bicchiere tra le dita. Poi, con un sospiro, alzò gli occhi e rispose: “Siamo in una fase di stallo, sai? È come essere in mezzo a un guado: non sei più sulla riva da cui sei partito, ma non hai ancora raggiunto l’altra. Ci rispettiamo, ma… è come se ci fossimo abituati a una routine che ci tiene insieme, ma non ci fa più vibrare.” Fece una pausa, cercando le parole giuste. “Non fraintendermi, le voglio bene. Ma a volte sento che sto invecchiando senza vivere davvero, capisci? Ho voglia di provare cose nuove, di sentire di nuovo quel fuoco dentro e di non lasciarmi scivolare in una vita che scorre solo per inerzia.”

Alice lo ascoltava in silenzio, con un’espressione che non giudicava, ma accoglieva ogni parola. I suoi occhi, attenti e profondi, sembravano vedere oltre le parole, come se riuscisse a cogliere il peso di quel desiderio inespresso. Poi, con un sorriso appena accennato, disse: “Sai, Tommaso, a volte penso che invecchiare non sia questione di anni, ma di quanto smettiamo di emozionarci e sorprenderci. Forse stasera è un piccolo passo, no? Una serata diversa per ricordarti che sei ancora capace di desiderare.” Le sue parole, leggere, ma cariche di significato, rimasero sospese tra loro, mentre il cameriere portava via i piatti e la notte bolognese, fuori dalla vetrina, sembrava promettere altre possibilità.

Dopo cena, uscirono nel fresco della sera. Le strade di Bologna erano illuminate da lampioni che gettavano riflessi dorati sui sanpietrini. Camminarono senza una meta precisa, sfiorandosi le mani ogni tanto, finché si fermarono sotto il portico di Via Saragozza. Alice si voltò verso di lui, i capelli mossi dalla brezza, e disse con un sorriso: “Sai, non pensavo che un commercialista potesse essere così interessante.” Tommaso rise, ma prima che potesse rispondere, lei si alzò sulle punte e lo baciò. Fu un bacio breve, morbido, ma carico di passione che lo fece vacillare. Per un istante, il suo mondo, Ginevra, la fortezza in rovina del suo matrimonio, il ticchettio dell’orologio, svanirono. C’era solo Alice, il suo calore, e la sensazione di essere, finalmente, vivo.

Ripresero a camminare sotto i portici, l’aria fresca di Bologna pizzicava la pelle, ma il calore del bacio bruciava ancora sulle labbra di Tommaso. Alice, sorridendo maliziosamente, si fermò di colpo, rovistò per un attimo nella sua borsa e poi, portandosi una mano alla fronte, disse: “Dannazione. Ho dimenticato il mio taccuino nel laboratorio. È una bozza importante, non posso lasciarla lì.” Era evidente che fosse una scusa e Tommaso non si lasciò scappare l’occasione. “Ti accompagno.” Si offrì. Non voleva che quella serata finisse, non ancora. Alice lo guardò, mordendosi il labbro inferiore per un istante. “Sicuro? Ti faccio fare tardi…” Ma il suo tono diceva che non stava davvero cercando di dissuaderlo. “Andiamo.” Rispose lui prendendola sottobraccio.


*****

Il laboratorio in Via delle Belle Arti era a pochi minuti a piedi, ma il tragitto sembrò durare un’eternità, carico di una tensione che nessuno dei due nominava. Quando arrivarono, la strada era deserta, avvolta dal silenzio della notte. Alice aprì la porta e l’odore dei colori li accolse come un abbraccio. “Niente luci.” Sussurrò lei, chiudendo la porta alle loro spalle. “Se accendo, qualcuno potrebbe ficcare il naso dalla vetrina. E poi… il buio ha il suo fascino, no?” La sua voce era un filo di mistero, bassa e invitante, e Tommaso sentì un brivido corrergli lungo la schiena.

Quell’oscurità, spezzata solo da qualche riflesso della luce dei lampioni che filtrava attraverso le tende. creava ombre che sembravano muoversi come spettri. Alice si spostò con sicurezza, come se conoscesse a memoria ogni angolo di quel caos, e Tommaso la seguì, guidato più dal suono dei suoi passi leggeri che dalla vista. “Dove hai detto che è questo taccuino?” Chiese lui cercando di mantenere un’apparenza di normalità. Lei rise piano. “Oh, da qualche parte… qui intorno.” Rispose, voltandosi appena. La sua sagoma era appena visibile, ma il contorno dei suoi capelli mossi e della sciarpa rossa ancora avvolta al collo lo attirava come una calamita.

Si fermarono vicino a una parete. Lei disse sorridendo: “Dovrebbe essere da questa parti…” E vicino a una grande tela incompiuta Alice si voltò, così vicina che Tommaso poteva sentire il calore del suo corpo. “Sai.” Mormorò lei. “Forse il taccuino può aspettare.” La sua mano trovò quella di lui nel buio, le dita si intrecciarono lente e desiderose. “Alice…” iniziò Tommaso, ma la voce gli si spezzò quando lei si avvicinò ancora, il suo respiro caldo contro la sua bocca. “Dimmi.” Sussurrò lei, la bocca a un soffio dalla sua. “Vuoi che ci fermiamo?”
“No.” Rispose lui e in un istante le sue mani furono su di lei, attirandola contro di sé. Il loro secondo bacio fu diverso, non più esitante, ma un’esplosione di desiderio represso che li travolse. Le labbra di Alice erano morbide, caldissime, e si muovevano contro le sue con una passione che sembrava voler consumare ogni pensiero razionale. “Dio, Tommaso.” Gemette piano contro la sua bocca. “Mi fai impazzire.” Le sue mani gli scivolarono sotto il cappotto, afferrando la camicia, tirandolo più vicino, come se volesse fondersi con lui.

Appoggiati alla parete con la tela alle loro spalle che tremava leggermente, si persero l’uno nell’altra. Le mani di Tommaso scesero lungo i fianchi di lei, sentendo la curva morbida sotto il tessuto del vestito. Lei era un fuoco, ogni tocco un’ustione che lo spingeva oltre il confine della ragione. “Toccami. Stringimi” Sussurrò lei, guidandogli la mano sotto la gonna, dove la pelle era bollente ed umida. “Voglio sentirti, Tommaso… ora.” Lui non resistette, non poteva. Ogni pensiero di Ginevra, della sua vita ordinata si dissolse nel buio di quel laboratorio, sostituito dal ritmo frenetico del loro respiro.

Fecero l’amore lì, in piedi, contro la parete, i corpi che si cercavano con una disperazione che era insieme dolce e selvaggia. Alice si aggrappava a lui, le unghie che affondavano nella sua schiena attraverso la camicia, i suoi gemiti soffocati contro il suo collo mentre si muovevano insieme. “Sei così… vivo.” Ansimò lei, le parole spezzate dal ritmo dei loro corpi. Tommaso sentiva il cuore battere, ogni sensazione amplificata: il calore di lei che lo avvolgeva, il profumo della sua pelle, il modo in cui si abbandonava completamente, senza riserve. Era come se il mondo si fosse ridotto a loro due, a quel momento, a quella danza frenetica nel buio.

Lei gemendo confessò: “Ti ho desiderato sin dal primo momento, in quella libreria. Se me lo avessi chiesto avremmo fatto l’amore tra quegli scaffali.” Lui rise e rispose: “Ed io in quei due giorni prima di rivederti ti ho pensato così tanto che non ho resistito a immaginare come fosse l’amore tra noi.” Lei al culmine del piacere disse: “E com’è? Dimmelo Tommaso, dai fretta ti prego…” Ma un attimo dopo arrivò come un uragano l’esplosione dei loro sensi e fu come un’onda che li travolse entrambi.
Alice gridò, le sue gambe tremanti strette a morsa intorno ai fianchi di Tommaso, mentre lui si lasciò andare con un gemito roco, la testa appoggiata alla sua spalla, il respiro affannoso.
Per un istante, rimasero lì, immobili, avvinghiati, il silenzio rotto solo dal loro ansimare. Poi lei rise e gli sfiorò la guancia con le labbra. “Non so se troveremo mai quel taccuino… sai?” Disse, la voce ancora velata di desiderio. Tommaso sorrise, il cuore ancora in tumulto, e la strinse più forte. “Non mi importa.” Rispose, e per la prima volta in tanti anni, si sentì come se fosse esattamente dove voleva essere.

Poi lei chiese come fosse andata confidando: “Sai erano mesi che…” Lui invece ringraziò il taccuino ammettendo che se fosse stato per lui chissà quanto tempo ancora sarebbe passato. Si baciarono ancora e tra quei fiati caldi lui disse: “Alice sei stata splendida.” Lei sorridendo rispose: “Lo sai che non mi basta, mi devi dire che sono stata unica!” Aggiungendo subito dopo: “Dimmi che sono la tua donna…” Lui la fissò intensamente: “Alice, credimi, sei molto di più!”


******

Andarono avanti per mesi e ogni giorno Tommaso si sentiva sempre più coinvolto. Non c’era giorno che non passava nel suo laboratorio, anche solo per salutarla o prendere un caffè insieme e piano piano si rese conto che quella donna era tutto ciò che Ginevra non era più: viva, curiosa, sensuale, calda, giocosa, leggera e desiderosa di essere al centro dei suoi pensieri. Con lei si sentiva di nuovo giovane, non il commercialista stanco e grigio con le tempie brizzolate, ma l’uomo che aveva ancora storie da raccontare, desideri da confessare e soprattutto voglia di buon umore e ridere per un nonnulla.

Gli incontri clandestini, prima furtivi e carichi di adrenalina, si erano trasformati in qualcosa di più profondo. Non era solo il sesso – anche se quello, con Alice, era come riscoprire un linguaggio dimenticato – ma il modo in cui lei lo ascoltava, lo guardava, lo faceva sentire vivo. Le loro serate si allungavano in cene rubate, in passeggiate lungo il portico di San Luca, in confessioni sussurrate a lume di candela. “Con te.” Le aveva detto una volta. “Mi sembra di respirare di nuovo.”

Ma a casa, con Ginevra, tutto continuava come un copione già scritto. Si incrociavano la mattina, si scambiavano frasi di circostanza: “Hai dormito bene?” oppure: “C’è del pane fresco” oppure “C’è del latte in frigo?” Niente di più separandosi subito dopo, lei verso la sua sartoria, lui verso lo studio o verso Alice. Beh sì, anche se Ginevra non faceva domande, anche se nella sua testa era giusto tradirla, era comunque una storia che gli pesava. Anzi ora con quel segreto e con quella via di uscita a portata di mano non viveva affatto giorni leggeri.

Ed allora volontariamente aveva iniziato a lasciare tracce, quasi per sfida, quasi per disperazione o semplicemente per pigrizia perché mai avrebbe preso l’iniziativa di confessare quel tradimento. Volutamente lasciò in giro in bella mostra sul mobile dell’ingresso una ricevuta di un ristorante con cena per due, poi dimenticò in tasca un portachiavi che Alice gli aveva regato e, non contento, più di una volta chiamò Alice da casa con Ginevra nella stanza accanto. Apparentemente i suoi sforzi furono vani, ma una volta, Ginevra, parlando di una sua amica sposata che sospettava avesse una relazione con un altro uomo, aveva detto con un sorriso amaro: “Sai, Tommaso, una sbandata può capitare, anzi la ritengo anche giusta dopo tanti anni di matrimonio. Basta però che non faccia rumore.” Lui aveva annuito, senza rispondere, ma quelle parole gli si erano conficcate dentro come schegge.

Si chiese se fosse quello il passo della rottura definitiva. Quella fu la prima volta ci pensò davvero. Insomma doveva sentirsi libero, correre tra le braccia di Alice, ma libero non era. Però di una cosa di convinse, sapeva che Ginevra sapeva. Lo vedeva nel modo in cui lei evitava i suoi occhi, nel modo in cui le sue mani si stringevano un po’ troppo forte attorno alla tazza di tè. Ma non diceva mai nulla direttamente, e quell’indifferenza era un coltello a doppia lama. Era sua moglie che lo stava lasciando libero o esattamente il contrario? Chiedendosi fin dove arrivasse quel guinzaglio.

Alice, invece, insisteva, con quella dolce ostinazione che lo faceva innamorare ancora di più. “Tommaso, quando ci mostreremo al mondo? Non voglio essere un segreto per sempre.” Ormai erano passati circa sei mesi dal loro primo incontro, ma lui, ogni volta, trovava una scusa, un “non è il momento”, mentre dentro di sé combatteva con il senso di colpa e la paura di distruggere tutto ciò che aveva costruito con Ginevra, anche se quel tutto era ormai solo un’eco. Lui stava bene con Alice, la considerava la sua donna e l’unica al mondo che lo aveva reso uomo, ma dentro di sé c’era una forza sconosciuta, una resistenza che non lo faceva decidere.


*******

Una sera tornando a casa Tommaso si fermò sulla soglia, il cappotto ancora addosso, la chiave dell’auto stretta in mano come un’ancora che lo teneva legato al mondo esterno. La luce fioca della lampada da tavolo disegnava un’ombra inquieta sul volto di Ginevra, seduta in poltrona, immobile come una statua di cera. Non c’era nulla di casuale in quella scena: il silenzio della casa, il bicchiere di anisette che rifletteva un bagliore ambrato, il modo in cui le sue dita sottili stringevano lo stelo del bicchiere, come se fosse l’unica cosa a tenerla legata. Bologna, fuori, sembrava trattenere il fiato, avvolta in una notte densa, senza stelle, come se anche la città si fosse arresa alla gravità di quel momento.

“Sai, Tommaso…” La voce di Ginevra era un sussurro, ma aveva la forza di un macigno che rotola giù da una collina. “Da parte mia non c’è alcun risentimento. Non mi importa più di chi sei quando non sei qui. Ti do la possibilità di scegliere senza fingere più. Da domani in poi, puoi passare la tua vita insieme a chi vuoi.” Fece una pausa, i suoi occhi fissi su un punto indefinito oltre la finestra, poi accostò le labbra al bicchiere di anisette, il gesto lento, quasi rituale. “Ora o mai più.”

Quelle parole lo colpirono come un pugno nello stomaco. Non era rabbia, non era accusa. Era qualcosa di peggio: un’indifferenza che non si era mai aspettato da lei, la donna con cui aveva condiviso trent’anni di vita, una figlia, un mutuo, sogni che si erano sbriciolati come biscotti secchi lasciati troppo a lungo in dispensa. Aprì la bocca per rispondere, ma la voce gli si incastrò in gola, soffocata dal peso di tutto ciò che non aveva mai detto, di tutto ciò che aveva lasciato marcire in silenzio.

Si tolse il cappotto, lo posò sullo schienale di una sedia e si sedette di fronte a lei, al tavolo di legno che avevano comprato insieme in un mercatino a Modena, quando ancora ridevano per sciocchezze e progettavano viaggi che non avrebbero mai fatto. Il silenzio tra loro era una presenza fisica, un terzo ospite che occupava lo spazio e rendeva l’aria pesante, quasi irrespirabile. Fuori, il rumore lontano di un motorino spezzò per un istante l’immobilità della notte, ma dentro quella stanza il tempo sembrava essersi fermato.

Ginevra non lo guardava. I suoi occhi, di un castano caldo che un tempo lo faceva sentire a casa, erano velati da una stanchezza che non aveva nulla a che fare con il sonno. Era la stanchezza di chi aveva smesso di combattere. Tommaso si chiese quando fosse successo, quando il loro matrimonio si fosse trasformato in quella danza di cortesie vuote e silenzi carichi di significati non detti. Forse era stato il giorno in cui aveva smesso di chiederle com’era andata in sartoria, o quando lei aveva iniziato a preparare la cena senza più chiedergli cosa preferisse. O forse, più semplicemente, era stato il lento accumularsi di giorni, mesi, anni, in cui avevano smesso di vedersi davvero.

“Non è così semplice.” Mormorò infine. “Non è solo una questione di scegliere.” Ginevra alzò lo sguardo, finalmente, e in quel movimento c’era una dolcezza amara, come se stesse guardando un estraneo che un tempo aveva conosciuto bene. “Lo so.” Rispose con una voce calma, quasi materna. “Non è mai semplice. Ma io non sono più disposta a vivere in questa finzione. Non per te, non per me, non per nostra figlia.” Fece una pausa, sorseggiò l’anisette, e il lieve tintinnio del bicchiere che tornava sul tavolo fu l’unico suono per un lungo momento. “Non ti sto chiedendo di scegliere tra me e lei, Tommaso. Ti sto chiedendo di scegliere te stesso.”

Quelle parole lo spiazzarono. Si era aspettato un ultimatum, un’esplosione di rabbia, magari lacrime, piatti in frantumi. Invece, Ginevra gli stava offrendo una libertà che non era sicuro di volere, una libertà che gli sembrava più una condanna. Pensò ad Alice, al suo sorriso che lo faceva sentire vivo, alla sua voce che lo chiamava “Tommy” con una leggerezza che lo liberava dal peso degli anni. Con Alice, il mondo sembrava più grande, più colorato, come se ogni giorno potesse essere un nuovo inizio. Ma poi c’era Ginevra, il suo odore di stoffe e filo da cucito, le sue mani che avevano creato non solo vestiti, ma anche rammendato i momenti più difficili della loro vita insieme. C’era la casa, con le sue crepe nei muri e i ricordi incastrati in ogni angolo: la stanza della loro figlia, ormai vuota, ma perfettamente intatta, il divano dove si erano addormentati guardando film di serie B, la cucina dove avevano litigato e fatto pace mille volte compreso l’amore.

“E tu?” Chiese Tommaso quasi senza volerlo. “Tu cosa scegli?” Ginevra sorrise, un sorriso quasi impercettibile, ma carico di una forza che lo fece sentire piccolo. “Sei sempre il solito, tu fai scegliere gli altri e non scegli mai. Provo compassione per la tua amante…” Poi fissandolo aggiunse: “Comunque io scelgo di non avere più paura. Di non chiedermi ogni giorno cosa fai, dove sei, con chi sei. È passato tanto tempo e non me ne sono accorta, ma ora voglio essere libera anch’io.”

Quelle parole gli crollarono addosso come un soffitto che cede, confermandogli in maniera certa quanto non fosse lui a tenere in mano il guinzaglio. Era Ginevra che, con la sua pazienza, il suo silenzio, la sua capacità di aspettare, lo aveva tenuto legato. E ora, con quella calma devastante, lo stava lasciando andare. Non era una resa, era una liberazione. Ma non la sua.

Pensò ad Alice, al suo “quando ci mostreremo al mondo?”, alla sua ostinazione dolce che lo faceva sentire desiderato, necessario. Ma in quel momento, seduto di fronte a Ginevra, si chiese se quella necessità fosse reale o solo un’illusione, un modo per riempire il vuoto che lui stesso aveva scavato. Alice era un fuoco che lo scaldava, ma Ginevra era la casa in cui quel fuoco poteva bruciare senza consumarsi del tutto. Eppure, quella casa, lo vedeva ora, era piena di spifferi, di stanze chiuse, di ricordi che pesavano come macigni.

“Non so cosa fare.” Ammise scuotendo la testa, e quella confessione gli costò più di quanto avrebbe mai immaginato. Si sentiva nudo, vulnerabile, un uomo di mezza età che aveva creduto di poter riscrivere la sua storia senza pagarne il prezzo.

Ginevra posò il bicchiere, si alzò lentamente e si avvicinò alla finestra “Non devi decidere stasera.” Disse, senza voltarsi. “Ma non puoi continuare a vivere in due mondi, Tommaso. Non è giusto per nessuno. Né per me, né per lei, né per te.”
Si voltò, e per un istante i loro occhi si incontrarono davvero, come non succedeva da anni. In quello sguardo, Tommaso vide tutto: la ragazza che aveva conosciuto a vent’anni, la madre di sua figlia, la donna che aveva sopportato i suoi silenzi, le sue assenze, le sue bugie. Vide anche il dolore, ma non c’era rancore. Solo una stanchezza infinita, e una determinazione che lo spaventò.

“Domani.” Disse Ginevra. “Domani decidi. O resti, e resti davvero. O te ne vai, e lo fai sul serio.” Tommaso non rispose. Rimase seduto, le mani intrecciate sul tavolo, mentre Ginevra spegneva la lampada e la stanza piombava in un buio che sembrava inghiottire tutto. Fuori, Bologna continuava a dormire, indifferente, sotto un cielo senza stelle. E lui, per la prima volta, si rese conto che il vuoto che aveva sempre temuto non era fuori di lui, ma dentro, e che nessuna scelta, né Alice né Ginevra, avrebbe potuto colmarlo.










Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.


© All rights reserved Adamo Bencivenga
LEGGI GLI ALTRI RACCONTI


© Tutti i diritti riservati
Il presente racconto è tutelato dai diritti d'autore.
L'utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma, senza il consenso dell'autore



 








 
Tutte le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi autori. Qualora l'autore ritenesse improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione verrà ritirata immediatamente. (All images and materials are copyright protected and are the property of their respective authors.and are the property of their respective authors.If the author deems improper use, they will be deleted from our site upon notification.) Scrivi a liberaeva@libero.it

 COOKIE POLICY



TORNA SU (TOP)

LiberaEva Magazine Tutti i diritti Riservati
  Contatti