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RACCONTO

Adamo Bencivenga
LA CAPITALE DEL TEMPO
Il mio ultimo reportage
Nel Musée du Temps, tra gli orologi
antichi e lo scorrere del tempo, la vedo! Un colpo di fulmine! A 62
anni, credevo non potessi più emozionarmi, ma il suo sorriso
risveglia un desiderio che pensavo sepolto per sempre...

Il treno sferraglia
dolcemente mentre attraverso le colline della Franca
Contea, diretto a Besançon. Guardo il paesaggio scorrere
lento come in fin dei conti era stata la mia vita.
Mi chiamo Alessandro Tommasi, ho sessantadue anni,
una carriera da giornalista alle spalle e un taccuino
pieno di ricordi. Ho scritto di guerre in Medio Oriente,
terremoti in Asia, rivoluzioni in Sud America. Ho
intervistato capi di stato e mendicanti, principesse
senza corona e regine di bordelli, ma sempre con la
stessa curiosità e il desiderio di andare oltre
l’apparenza e la formalità.
Ma ora sono stanco.
La redazione mi ha affidato questo ultimo reportage, un
omaggio alla mia carriera: raccontare Besançon, la
capitale del tempo. Un viaggio tranquillo. Non potevo
chiedere di meglio per chiudere. Voglio lasciare ai
lettori un ritratto indimenticabile di questa città e
dello scorrere del tempo, poi mi ritirerò nella mia casa
a Roma, con la terrazza che guarda sui tetti rossi al
tramonto, una pensione dorata e una relazione con Clara,
che da due anni si trascina senza scintille. Sono vedovo
da tempo, non cerco più l’amore, solo pace.
Il
giornale, come premio, mi ha offerto un soggiorno in un
hotel a cinque stelle, l’Hôtel de Paris, nel cuore di
Besançon. È un lusso che ho accettato e mi concedo senza
rimorsi. Scendo dal treno, l’aria è fresca, il Doubs
scintilla sotto il sole. La città mi accoglie con le sue
facciate settecentesche e il profumo di Comté che
aleggia dai bistrot. Decido di fare un giro e passeggio
per il quartiere Battant, tra vicoli che odorano di vino
e storia, e mi perdo nella bellezza della Cittadella di
Vauban, un gioiello UNESCO. Ma è al Musée du Temps, il
museo dell’orologio, che mi sto dirigendo senza sapere
come cambierà la mia vita.
Sono qui per
documentare la storia dell’orologeria. Il Musée du
Temps, ospitato nel suggestivo Palais Granvelle,
intreccia storia, arte e orologeria in un viaggio
affascinante attraverso il tempo. Le sue collezioni
uniche, che includono orologi antichi e strumenti
scientifici, raccontano l’evoluzione della misurazione
temporale con eleganza e precisione. L’atmosfera
rinascimentale del palazzo si fonde con l’esposizione
moderna, creando un’esperienza culturale immersiva e
memorabile.
Curioso passo attraverso diverse
stanze quando la vedo! Un miraggio di capelli biondi che
cadono a onde morbide, occhi verdi che sembrano laghi
baltici, labbra rosse come ciliegie mature. Mi fermo
quasi ipnotizzato. È giovane, forse vent’anni, bella da
morire. Porta un tailleur blu, credo sia un’assistente,
ma sono i dettagli che mi sconvolgono: magra, alta, la
gonna corta che accarezza le sue gambe lunghe fasciate
da soffio di calza nera, i suoi tacchi che risuonano sul
pavimento ad ogni passo… La sua sensualità è un’arma, e
io sono disarmato!
Non so cosa mi stia
succedendo: “Alla mia età.” Mi dico, ma la seguo
ugualmente, non posso non avvicinarla. Ora rallenta, i
suoi passi risuonano più leggeri nel grande salone, come
un metronomo che scandisce un tempo. Il Palais
Granvelle, con i suoi soffitti affrescati e le pareti
che raccontano storie di secoli passati, sembra quasi un
palcoscenico creato per lei. Mi avvicino, e con il fiato
in gola e un sorriso timido le rivolgo la parola.
“Mademoiselle.” Dico. Lei si volta, i suoi occhi verdi
mi scrutano con una curiosità gentile.
Chiedo a
caso un’informazione in francese. Lei ride e tiene
subito a precisare: “Sono lituana.” Poi con una voce
morbida, che sembra portare con sé il vento del Nord, mi
dice: “Mi chiamo Eglė.” Quel nome mi colpisce come un
fulmine, un suono antico e mitologico. Le spiego che
sono un giornalista, che sto scrivendo un reportage sul
museo, sulle sue meraviglie meccaniche che catturano il
tempo. Le chiedo se può accompagnarmi, se può
raccontarmi qualcosa di questo luogo che sembra pulsare
di vita propria.
Eglė sorride, un sorriso che è
allo stesso tempo cortesia e distanza, e scuote la
testa. “Al momento sono impegnata.” Dice, con un tono
che non ammette repliche, ma che lascia un qualcosa di
sospeso nell’aria. Poi si allontana, il suo corpo che
fluttua su quei tacchi impossibili, come se danzasse su
un filo invisibile. La seguo con gli occhi, incapace di
distoglierli, mentre la sua figura si perde tra le ombre
delle sale, tra gli ingranaggi dorati degli orologi e i
riflessi dei vetri antichi.
La visita al museo
diventa un’esperienza frammentata. Ogni pendolo che
oscilla, ogni quadrante intarsiato, sembra parlare di
lei, di quel nome che mi risuona nella testa come
un’eco. Cerco di concentrarmi sul reportage, annoto
dettagli sul Grande Orologio Astronomico, sulla
collezione di orologi da tasca del XVIII secolo, ma la
mia mente torna sempre a Eglė. Chi è? Un’assistente
precaria, ha detto, ma il suo portamento, il modo in cui
si muoveva tra le sale, sembrava quello di una persona
fuori posto. Finisco il giro, ma non riesco a scrollarmi
di dosso la sensazione che lei sia più di un incontro
casuale, che sia un frammento di una storia più grande.
Finita la visita cerco di ritracciarla, torno al
bancone dell’ingresso ma quando chiedo di lei al
personale, nessuno sembra conoscerla. “Eglė? Una
lituana?” Ripete l’addetto, aggrottando la fronte mentre
sfoglia un registro. Chiedo di guardare meglio.”
Descrivo il suo aspetto, i capelli biondi, il tailleur
blu scuro, quei tacchi che sembravano sfidare la
gravità. “Non abbiamo nessuna assistente con quel nome
qui.” L’uomo scuote la testa, allarga le braccia con
un’espressione sconsolata. “Mi dispiace, signore. Non
c’è nessuna Eglė tra il personale, né fisso né precario.
Forse ha confuso il nome.”
Scendo di corsa le
scale di pietra del Palais Granvelle, diretto verso
l’uscita, il rumore dei miei passi rimbomba nel
silenzio. Fuori, l’aria fresca di Besançon mi colpisce
il viso, ma non riesce a schiarirmi le idee. È possibile
che mi sia immaginato tutto? No, era reale, il suo
profumo, il modo in cui ha pronunciato il suo nome, la
sensazione che mi ha lasciato addosso. Eppure, il museo
sembra averla inghiottita, come uno dei suoi orologi che
segnano ore che non esistono.
Mi guardo intorno,
la cerco tra i visi delle ragazze che escono dal museo.
Niente, guardo verso la strada e finalmente la vedo. È
seduta su una panchina fuori dal museo, sembra una
farfalla. Mi avvicino a passo lento come se avessi
timore che da un momento all’altro possa volare e
sfuggirmi di nuovo. Lei però mi sorride e dice:
“L’aspettavo…” Quella frase mi inorgoglisce, mi siedo
accanto a lei. Le dico che ho chiesto di lei alla
Direzione del museo, ma che nessuno la conosce. Lei fa
un’espressione malinconica: “Sono una delle tante
stagiste invisibili, ho solo un permesso di soggiorno
per motivi di studio e non potrei lavorare qui e loro
non vogliono grattacapi.”
Le chiedo da quanto
tempo è qui in Francia. Lei risponde senza guardarmi
negli occhi. “Sono qui da due settimane, ma il mio
desiderio è rimanerci finché non imparo bene la lingua.”
Mentre parla, la guardo, la sua dolcezza mi disarma. Poi
tutto ad un tratto alza gli occhi e mi fissa, rimane un
attimo in silenzio e poi dice: “Sai, adoro gli uomini
come te!” Sorpreso chiedo sorridendo: “Cosa ho di
speciale?” Lei abbassa di nuovo lo sguardo: “Sei un uomo
adulto e gli uomini della tua età mi fanno sentire
protetta, grande. Non ho mai amato i miei coetanei, sono
troppo superficiali ed egoisti.”
Vorrei
confermare ogni sua parola, ma mi trattengo: “Non ti
senti amata?” Lei ci pensa un attimo e risponde: “Ti
faccio una confidenza. Il mio ultimo fidanzato, un amico
di famiglia, aveva più o meno la tua età. Con lui mi
sentivo… viva.” Ogni parola di quella frase è un amo che
mi cattura. Sono affascinato, quasi perso, pur
sentendomi ridicolo per la tanta differenza. Faccio un
rapido calcolo, di certo più di quaranta! Ma non riesco
a smettere di guardarla: il modo in cui si sistema i
capelli, il movimento delle sue gambe, la curva delle
sue labbra con quel rossetto rosso ciliegia. È un colpo
di fulmine, lo so, qualcosa che non provavo da decenni.
Chiedo a raffica: “Lo hai amato? Sei delusa? Come ti ci
sei trovata?” Lei scuote la testa e taglia corto: “Era
una storia che non poteva continuare…”
Mi rendo
conto che non ne vuole parlare, allora le chiedo del suo
paese e lei mi parla della sua famiglia a Vilnius, mi
racconta di sua nonna, che intreccia ghirlande di fiori
selvatici, e di suo fratello, che suona il pianoforte in
una piccola scuola di musica. Ogni parola sembra
dipingere un quadro, e io, Alessandro, un giornalista
attempato, con i capelli ormai grigi e una vita di
storie scritte sulle spalle, mi scopro a pendere dalle
sue labbra, come se fossi un ragazzo al primo
batticuore.
Senza pensarci, spinto da un impulso
che non so spiegare, decido di mettermi in gioco e le
propongo di rivederci e cenare insieme, le parole che mi
sfuggono come un respiro trattenuto troppo a lungo. Lei
mi guarda, i suoi occhi verdi brillano di una luce
antica, ma declina l’invito con un sorriso enigmatico,
un sorriso che sembra custodire segreti più vecchi di
lei. “Devo tornare a casa.” Dice, senza spiegare, come
se “casa” fosse un luogo oltre la mia portata, un altro
tempo, un altro mondo. Insisto, con una sfacciataggine
che non riconosco in me stesso, e le chiedo se ci sia
qualche possibilità di rivederci il giorno dopo o quando
vuole lei. Eglė ci pensa, il suo sguardo si perde per un
istante verso le vetrate del museo, poi si volta e, con
un cenno quasi impercettibile, mi dà appuntamento per il
giorno dopo, nel parco pubblico vicino al Doubs.
Torno nella mia stanza d’albergo e passo la notte
insonne, il cuore che batte come un orologio fuori
tempo. Il profumo di Eglė mi perseguita. “Alessandro,
cosa ti sta succedendo?” Mi chiedo, fissando il soffitto
scuro, sapendo già la risposta, ma temendola allo stesso
tempo. Ho più di sessant’anni, un’età in cui si dovrebbe
aver imparato a domare i desideri, a guardare il mondo
con la calma di chi ha già vissuto mille vite. Eppure,
questa ragazza di vent’anni, con la sua grazia eterea e
il suo nome che sa di leggenda, ha risvegliato in me
qualcosa che credevo sepolto: un’urgenza, un’emozione,
una fame di vita che non sentivo da decenni. È possibile
innamorarsi così, a prima vista, quando gli anni pesano
come libri su uno scaffale? È follia o è il tempo stesso
che si prende gioco di me, qui, nel cuore di un museo
che venera il suo scorrere?
Ripenso al suo volto,
alla curva delicata delle sue labbra quando ha
pronunciato il suo nome, Eglė, come se fosse un
incantesimo. Non è solo la sua giovinezza a stregarmi. È
qualcosa di più profondo, una sorta di connessione che
non so spiegare, come se in lei vedessi un riflesso di
ciò che ero, di ciò che avrei potuto essere. Io, che
ho passato la vita a inseguire storie, a catalogare
momenti, mi ritrovo a desiderare di essere parte della
sua, anche solo per un istante. Ma poi mi fermo, il peso
della realtà mi schiaccia: cosa può vedere una ragazza
come lei in un uomo come me, con le rughe che raccontano
più storie di quante io abbia mai scritto? È un
capriccio, mi dico, un’illusione nata dalla magia di
questo luogo, dove il tempo sembra piegarsi e confondere
i confini tra ciò che è possibile e ciò che è sogno.
La sua frase mi martella la mente: “Sai, adoro gli
uomini come te!” Mi illudo. E se fosse vero? E se ci
fosse la possibilità di una nuova vita? Non so se saprò
in grado di proteggerla, sono sincero, non riuscirei a
provare per lei un sentimento solo paterno. Lo sento,
c’è qualcosa in me che mi sconvolge e allora mi dico di
lasciar perdere. Eppure non riesco a smettere di pensare
al nostro appuntamento. Il parco vicino al Doubs, con i
suoi sentieri ombreggiati e il suono dell’acqua che
scorre, mi sembra già un luogo fuori dal tempo, un posto
dove forse, per un momento, potrò dimenticare gli anni
che ci separano.
La mattina dopo mi vesto con
cura, scegliendo una camicia che mi fa sentire meno
fuori posto, meno intruso nel suo mondo. Ma dentro di
me, la domanda continua a girare, come un ingranaggio
inceppato: come è possibile innamorarsi così, a prima
vista, di una ragazza che potrebbe essere mia nipote?
Forse è proprio il contrasto tra la mia vita, ormai
piena di ricordi, e la sua, che sembra ancora tutta da
scrivere, a rendere questa attrazione così potente. O
forse, come il Musée du Temps mi ha insegnato, l’amore
non segue le regole degli orologi, ma si muove su un
ritmo tutto suo, imprevedibile e inarrestabile.
Mentre esco dall’albergo, diretto verso il parco, porto
con me la mia macchina fotografica, il taccuino, e un
cuore che non sa se sperare o temere. Eglė, con il suo
nome di regina serpente, è già un mistero che non sono
sicuro di voler risolvere. Ma so che, qualunque cosa
accada, questo incontro mi ha ricordato che il tempo,
per quanto lo misuriamo, non smette mai di sorprenderci.
Mi inoltro nel parco pubblico vicino al Doubs,
seguendo a memoria le indicazioni di Eglė, con il cuore
che batte come un orologio fuori sincronia. I sentieri
si snodano tra querce secolari. Mi guardo intorno,
cercando la sua figura familiare, quei tacchi
impossibili, i suoi capelli che ondeggiano come un
pendolo. Ma Eglė non c’è. Mi fermo sotto un grande
tiglio. Aspetto, un’ora, poi due, il tempo che si dilata
come un’illusione in questo luogo che sembra sospeso tra
realtà e fantasia. Impaziente mi alzo. Cammino avanti e
indietro lungo il sentiero, i miei passi che
scricchiolano sulla ghiaia, scrutando ogni angolo, ogni
ombra, sperando di vederla apparire da dietro un albero
o lungo il ponte che attraversa il Doubs.
Mi
siedo di nuovo su una panchina di legno, fredda e umida,
fissando il punto dove il sentiero si perde nella
foschia. Mi rialzo, incapace di stare fermo, il cuore
che si stringe a ogni minuto che passa. Niente. Eglė non
si c’è. Cerco di giustificare quell’assenza, di
costruirle una storia che tenga a bada la delusione che
mi cresce dentro. Forse un contrattempo, un imprevisto
al museo, un impegno familiare che l’ha trattenuta. “Non
poteva avvisarmi.” Mi dico, mentre controllo il telefono
per la centesima volta, sapendo bene che non mi ha mai
dato un numero, un contatto, nulla che mi permetta di
raggiungerla. Solo quel nome, Eglė, e un appuntamento
che ora sembra un miraggio.
Il lavoro al museo,
penso, tornando con la mente al Palais Granvelle. “Ah,
già, il museo…” Mormoro tra me, come se quella fosse la
soluzione. Decido di tornare lì, spinto da un misto di
speranza e ostinazione, come un detective che insegue un
indizio sfuggente. Attraverso la città con passo
veloce, il taccuino che sbatte nella tasca del mio
cappotto, la macchina fotografica che dondola al collo
come un peso morto. Entro, mi avvicino al bancone, e
chiedo di Eglė. La giovane donna dietro il banco, con un
badge che recita “Claire”, mi guarda con un’espressione
confusa. “Eglė? Non abbiamo nessuna Eglė qui, mi spiace
signore.” Dice, controllando un computer. Insisto,
descrivo di nuovo il suo aspetto. Chiedo di verificare
ancora, ma lei scuote la testa. “Mi dispiace, signore,
nessuno con quel nome lavora qui, né ora né mai. Forse
si è confuso con un visitatore.”
Le sue parole mi
colpiscono come un pugno. Confuso? Io, Alessandro, che
ho passato una vita a ricostruire storie da frammenti,
potrei essermi inventato tutto? Ripenso al nostro
incontro, al suo viso, la sua espressione, a quando mi
ha dato l’appuntamento. Tutto reale, cavolo! Ne sono
certo, eppure il museo sembra negare la sua esistenza.
La cerco in giro per bistrot, torno al Doubs, la
cerco il giorno dopo, folle di desiderio, frugando ogni
angolo di Besançon: i vicoli di Saint Jean, i bistrot
lungo il fiume, la Rodia, persino il club Famous. Alla
fine disperato torno di nuovo al museo, chiedo di nuovo
alla stessa impiegata, lei mi riconosce e mi consegna
una bustina rosa. Leggo il biglietto: “Non cercarmi, né
ora né mai. Eglė.” Un tonfo al cuore, ma cos’è tutto
questo, mi sembra una caccia al tesoro, mi sento preso
in giro, ma non demordo. Sarei già dovuto ripartire
per Roma, chiamo la redazione, mi invento una scusa,
dico che c’è un evento importante, che bisogno ancora di
qualche giorno per completare il reportage.
Inizia a piovere, forte, sembra che tutte le nubi
d’Europa si siano concentrate qui, ma non rimango in
albergo, la cerco senza uno straccio di indizio. Ripasso
parola per parola i suoi discorsi alla ricerca di un
frammento, niente, intanto giro finché due giorni dopo,
sotto un cielo grigio che piange ancora pioggia
insistente, la vedo. È seduta ai tavolini all’aperto di
un bistrot proprio di fronte al mio hotel, un angolo di
Besançon dove il profumo di caffè si mescola all’umidità
dell’aria. Eglė è lì, sola, avvolta in un
impermeabile verde scuro, i capelli raccolti sotto il
cappuccio. Sorseggia un caffè, lo sguardo perso, ma il
mio dramma non è il suo. Lei è tranquilla, anzi mi vede
e mi sorride con la sua aria eterea.
Mi
avvicino, i passi incerti sul selciato bagnato. “Eglė.”
Dico, la voce che trema come se pronunciassi un
incantesimo. Lei continua a sorridere come se il mondo
fuori non la riguardasse. Gira lentamente il suo
cucchiaino che tintinna contro la tazza. “Tutto bene?”
Mi dice, ma nei suoi occhi verdi, colgo un lampo di
calcolo, un’ombra che scompare troppo in fretta per
essere decifrata. “Perché sei sparita? Perché quel
biglietto? Perché sei qui ora?” Chiedo, il tono più
implorante di quanto vorrei. Lei mi guarda, e il suo
sorriso, lento e disarmante, è come una porta che si
apre su un mistero ancora più grande. “Non pensavo mi
trovassi.” Risponde. “Ero… confusa.” Quella parola,
“confusa,” suona come un enigma avvolto in seta, e mi
avvolge, mi cattura, come se ogni sillaba fosse scelta
con cura per tenermi sospeso tra speranza e incertezza.
Mi siedo. Vorrei stringerla tra le mie braccia,
ma lei è sfuggente, mi parla di una ragazza del Benin
che ha conosciuto qui in città, di un amico lituano che
è tornato a Vilnius, ma ogni dettaglio sembra un
tassello di un puzzle che non riesco a comporre. Chi è
veramente Eglė? Una semplice assistente di museo, come
aveva detto, o qualcosa di più? Una figura sfuggente che
gioca con il tempo come gli orologi del Palais
Granvelle? E perché si è fatta ritrovare, proprio qui,
proprio ora, davanti al mio hotel, come se sapesse che
l’avrei vista? È stata una coincidenza, o un calcolo
preciso, un invito a inseguirla ancora in questo gioco
di ombre?
Ma davanti a lei mi accorgo di essere
indifeso, non riesco a essere duro, a carpirle una
verità che non conosco. Le chiedo se c’è la possibilità
di passare una giornata insieme, non domani, ma oggi! Mi
dice che ora non può, senza dirmi altro. Le chiedo un
contatto, uno straccio di indirizzo dove rintracciarla,
ma lei è sfuggente. Allora le propongo di vederci il
pomeriggio stesso nella mia stanza d’albergo, spinto da
un desiderio che non so più se appartiene al cuore, alla
follia o a chissà cosa. Lei esita, il suo sguardo che si
perde per un istante verso il bicchiere d’acqua sul
tavolo, come se stesse soppesando un segreto che non può
condividere. Poi, con un cenno quasi impercettibile,
accetta. “Non sparire di nuovo.” Dico, cercando di
scherzare, ma la mia voce tradisce un’urgenza che mi fa
sentire vulnerabile. Lei sorride, quel sorriso pieno di
mistero che sembra contenere mille risposte e nessuna, e
si alza.
Torno in hotel, la mente che vortica di
domande senza risposta. Chi è Eglė, davvero? Il suo
accento lituano, il modo in cui parla della sua vita,
sembra autentico, eppure ogni parola è come un velo che
nasconde più di quanto riveli. Perché ha lasciato quel
biglietto, “Non cercarmi più…” per poi farsi trovare
qui, come se mi stesse attirando in un labirinto? È un
gioco, una sfida, o forse una storia che lei stessa non
controlla? Mentre la pioggia continua a cadere, mi
preparo per il nostro incontro. Ma dentro di me, le
domande si accumulano come granelli di sabbia in una
clessidra. Cosa ha in mente Eglė? Vuole che la trovi,
che continui a cercarla, o sta guidandomi verso una
verità che non sono pronto ad affrontare? Non lo so, e
forse non voglio saperlo. Perché in questo momento, con
il suo nome che mi brucia nella mente, Eglė è l’unica
storia che voglio continuare a scrivere.
Ma poi
mi convinco che in effetti il suo comportamento
sfuggente è normale, lei è una ragazzina che vuole
vivere la sua vita nella propria dimensione. Non prova
niente per me, non ha sentimento, nessuna ragione, ma
solo la voglia di vivere la sua libertà. Sono io che
sono strano, sono io che mi sono messo in testa qualcosa
che tutti giudicherebbero perlomeno insensato. Mi faccio
una doccia, mi preparo, ma dubito fortemente che venga.
E invece la piccola lituana mi sorprende ancora.
Alle cinque in punto, entra nella mia suite. È
un’apparizione, un’irruzione di pura seduzione, un sogno
che si materializza sotto le luci soffuse della stanza.
La sua gonnellina, scandalosamente corta, è un lembo di
seta nera che danza appena sopra le cosce. Le calze
autoreggenti gridano un peccato che non chiede perdono.
I tacchi a spillo, tredici centimetri di audacia,
risuonano sul parquet. La camicetta trasparente, un velo
di chiffon che aderisce alla sua pelle come una carezza,
lascia intravedere il suo meraviglioso seno.
A 62
anni, credevo di aver visto tutto, amato e desiderato
qualsiasi forma femminile, ma Eglė è qualcosa di
celestiale. È una forza primordiale, che sfida il tempo
e la logica. Si muove come su un palcoscenico, ogni
passo un’esibizione, ogni gesto un invito. Si avvicina,
il suo profumo è dolce e inebriante. Poi si allontana,
girandosi appena, lasciando che il profilo del suo corpo
si stagli contro la luce ambrata della lampada.
“Guardami.” dice.
Inebetito la guardo, anzi la
divoro: “Sei uno spettacolo.” Riesco a dire, la voce
incrinata da un desiderio che mi strappa l’anima. Lei
sorride. Sa di aver vinto. Sa di avermi in pugno. “Ora
sono tutta per te.” Risponde, piegandosi appena verso di
me. Ora tutto mi appare più chiaro, nei suoi movimenti
c’è una strategia ben precisa, nulla è lasciato al caso,
e tutti questi giorni ad inseguirla avevano un preciso
scopo. Farsi desiderare! “Mi volevi così, no? La tua
bimba… la tua fantasia… eccomi qui.” Ogni parola è un
colpo, un’onda che mi travolge. A 62 anni, il cuore
batte come se ne avessi 20, e il mondo si riduce a lei,
a questo momento, a questa stanza.
Mi alzo dal
divano, le gambe pesanti non per l’età, ma per
l’intensità di ciò che sento. Lei si avvicina di nuovo,
i tacchi che affondano nella moquette. Le sue dita,
lunghe e delicate, sfiorano il mio petto, un tocco
leggero che brucia attraverso la camicia. “Non sei
stanco di aspettarmi, vero?” Sussurra, il suo respiro
caldo contro il mio collo.
È troppo perfetta,
troppo eterea, come una musa scappata da un dipinto.
Ci baciamo, e il mondo svanisce. Le sue labbra sono
morbide, calde, ma anche esperte. Il bacio è lento,
quasi esitante all’inizio, come se stesse assaporando
ogni secondo, poi si fa più intenso, più urgente. Le mie
mani trovano la sua vita, la seta della gonna scivola
sotto le dita. Lei preme contro di me, il suo corpo
giovane e sodo contro il mio, e il contrasto mi fa quasi
tremare: la sua giovinezza, la sua audacia, contro la
mia esperienza, il mio desiderio che si è affinato con
gli anni.
“Sei mio.” Il suo filo di fiato mi
riempie la bocca. “E io sono tua.” Aggiunge, con una
risata giocosa, che mi fa perdere ogni senso di
controllo. La stanza si dissolve, il soffitto, le
pareti, il tempo, tutto svanisce. C’è solo lei, il suo
respiro, il suo profumo, il ritmo del suo corpo che si
muove scivolando contro il mio, come una danza, un
invito silenzioso a perdermi in lei.
Facciamo
l’amore, e il suo corpo è un fuoco che mi consuma. Mi
invita dentro di lei con gesti esperti, apre il suo
paradiso senza alcun pudore, consapevole che nulla al
mondo avrebbe più valore, neanche la vita, figuriamoci
la morte. Come una regina che usa il suo suddito si
mette sopra di me, pretendendo la sua dose di maschio e
offrendomi la sua droga di femmina, ma l’emozione è
troppa, la guardo, la stringo forte per i fianchi, lei
si muove come una farfalla, cerco di resistere, ma in
meno di due minuti, cedo al piacere, travolto. Lei ride,
dolce, senza giudicarmi.
Dopo, mentre siamo
ancora avvinghiati, mi guarda con gli occhi lucidi. Mi
dice, quasi piangendo. “Ora posso spiegarti…” Le
rispondo che non ho bisogno di alcuna spiegazione, mi
basta solo che sia qui. Ma lei insiste: “Non sono una
stagista, al museo, ero lì per caso, quando mi hai
incontrata… Voglio dirti tutto di me.” La osservo, la
sua tenerezza infantile mi commuove. Faccio per parlare,
ma lei mi chiude delicatamente la bocca con la mano.
“Sono qui in Francia con mia madre, lei è molto malata e
si deve operare urgentemente. Siamo in contatto con un
medico famoso che potrebbe farla ricoverare.” Prende la
sua borsa e mi fa vedere delle carte, poi mi mostra una
foto sfocata di una donna malata. “Ho bisogno di un
favore.” Sussurra. “Entro oggi devo mandargli mille
euro, almeno per accelerare i tempi di accettazione.” Le
sue mani tremano, la stringo a me. Le dico che non deve
preoccuparsi, che ci sono io, che da ora in poi può fare
affidamento su di me. Non esito, prendo il telefono, mi
faccio dettare l’iban e faccio il bonifico. Lei mi
riempie di baci e sussurra: “Ti amo…” E io sono al
settimo cielo. Ora la vedo più calma, affettuosa si
struscia a me come un gattino. Sono estasiato dalla sua
dolcezza. Mi dice: “Non sai quanto mi hai fatto felice!”
Ma la gioia è solo la mia penso, mai avrei potuto
sperare di incontrare un angelo! Ringrazio il destino e
penso se davvero meriti tutto questo! La coccolo
rimaniamo ancora mezzora abbracciati e a quel punto le
chiedo di restare la notte, ma lei rifiuta, senza
spiegare. “Domani.” Promette. “Stiamo tutto il giorno
insieme, te lo giuro!” Ci diamo appuntamento nella
suite.
Ma il giorno dopo, Eglė non viene. Aspetto
ore, invano. Aspetto per tre giorni. Quando finalmente
ho deciso di ripartire per Roma, la vedo dalla mia
finestra in albergo seduta nello stesso bistrot. Con il
cuore gonfio scendo di corsa. Sta piangendo. Appena mi
vede si alza e mi abbraccia forte. “Mia madre è morta
durante l’intervento.” Singhiozza. “Non ce l’ha fatta!
Sono disperata…” Si lascia andare, la stringo a me e la
faccio sedere. “Amore calmati, è la vita, dimmi solo se
ha sofferto.” Le chiedo, ma lei è già oltre. “Devo
organizzarmi per rispedire la salma a Vilnius. Ho
bisogno di soldi.” Le dico che non ci sono problemi. Lei
mi fissa con i suoi occhioni piangenti: “Davvero mi
aiuteresti ancora?” Annuisco. E lei: “Ti prometto che da
domani staremo insieme e se vuoi per sempre, ti seguirò
ovunque amore mio. Io non torno a Vilnius, lì non ho più
niente che mi trattiene, voglio dimenticare, vengo con
te in Italia.” Prendo il portafogli e le do tutti i
contatti che posseggo, circa duemila euro, poi col
telefono le faccio un bonifico di altri duemila euro
sullo stesso iban.
Mi dispiace per sua madre, ma
dentro sento una gioia incredibile. Poi si alza e mi
bacia. È un bacio lungo, intenso e interminabile. Lì
davanti a tutti, tra un sessantaduenne ed una ragazzina!
Ma Eglė non è una ragazzina, lei è la mia donna, la mia
vita! “Aspettami tesoro.” Mi dice. “Dammi solo
ventiquattro ore e sarò tua per sempre.” La guardo
allontanarsi con il cuore leggero e pieno di speranza.
Ma Eglė non torna, né il giorno dopo, né mai.
Aspetto giorni e per una settimana il suo telefono
risulta spento, il museo non la conosce, tutta Besançon
non ha traccia di lei e la mia Eglė, giorno dopo giorno,
diventa un fantasma…
Sul treno di ritorno per
Roma, sto fissando il paesaggio che scorre, ma io sono
rimasto lì, ancorato al quel sogno che non poteva essere
diverso da un sogno. Lo so, quasi rido di me stesso, oh
sì certo lo so come è andata. È tutto chiaro, così
dannatamente chiaro fin dall’inizio. Non poteva che
andare così. E quel sorriso... Dio, quel sorriso. Era
come se mi dicesse: “Lo sai che non è vero, ma vuoi
crederci, no?”. E io ci ho creduto. O almeno, ho voluto
crederci. Che stupido! Eppure, non riesco a provare
rimpianto.
Anche se ora, mentre il treno
sferraglia verso Roma, sento il peso della delusione, ma
non è lei, non proprio. È il sogno. Il sogno di essere
qualcun altro, di essere desiderato, di essere
importante, anche solo per un istante. Ho sperato che
dietro quel sorriso ci fosse qualcosa di vero, qualcosa
che non si compra con cinquemila euro. Ma non è colpa
sua, no. È il destino, il mio destino. Era scritto che
dovesse andare così, che mi lasciassi incantare, che mi
lasciassi consumare. Lo sapevo, fin dall’inizio, e sono
andato avanti lo stesso.
Ogni tanto, chiudo gli
occhi, ripenso a quei due minuti dentro il suo corpo
giovane che si muoveva sopra il mio, e rivedo il suo
viso, il suo seno che mi reclamava, il suo profumo che
mi avvolgeva e mi ripeto che ne è valsa la pena, anche
solo per quel frammento di eternità.
Durante il
viaggio scrivo il reportage su Besançon, la capitale del
tempo. Parlo delle sue mura, del Doubs, del Comté, della
Cittadella. Ma tra le righe, c’è lei, Eglė. Un orologio
che ha fermato il mio tempo, per sempre.
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Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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