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RACCONTO
 
 
Adamo Bencivenga
LA CAPITALE DEL TEMPO
Il mio ultimo reportage
Nel Musée du Temps, tra gli orologi antichi e lo scorrere del tempo, la vedo! Un colpo di fulmine! A 62 anni, credevo non potessi più emozionarmi, ma il suo sorriso risveglia un desiderio che pensavo sepolto per sempre...

 

 


 
Il treno sferraglia dolcemente mentre attraverso le colline della Franca Contea, diretto a Besançon. Guardo il paesaggio scorrere lento come in fin dei conti era stata la mia vita.

Mi chiamo Alessandro Tommasi, ho sessantadue anni, una carriera da giornalista alle spalle e un taccuino pieno di ricordi. Ho scritto di guerre in Medio Oriente, terremoti in Asia, rivoluzioni in Sud America. Ho intervistato capi di stato e mendicanti, principesse senza corona e regine di bordelli, ma sempre con la stessa curiosità e il desiderio di andare oltre l’apparenza e la formalità.

Ma ora sono stanco. La redazione mi ha affidato questo ultimo reportage, un omaggio alla mia carriera: raccontare Besançon, la capitale del tempo. Un viaggio tranquillo. Non potevo chiedere di meglio per chiudere. Voglio lasciare ai lettori un ritratto indimenticabile di questa città e dello scorrere del tempo, poi mi ritirerò nella mia casa a Roma, con la terrazza che guarda sui tetti rossi al tramonto, una pensione dorata e una relazione con Clara, che da due anni si trascina senza scintille. Sono vedovo da tempo, non cerco più l’amore, solo pace.

Il giornale, come premio, mi ha offerto un soggiorno in un hotel a cinque stelle, l’Hôtel de Paris, nel cuore di Besançon. È un lusso che ho accettato e mi concedo senza rimorsi. Scendo dal treno, l’aria è fresca, il Doubs scintilla sotto il sole. La città mi accoglie con le sue facciate settecentesche e il profumo di Comté che aleggia dai bistrot. Decido di fare un giro e passeggio per il quartiere Battant, tra vicoli che odorano di vino e storia, e mi perdo nella bellezza della Cittadella di Vauban, un gioiello UNESCO. Ma è al Musée du Temps, il museo dell’orologio, che mi sto dirigendo senza sapere come cambierà la mia vita.

Sono qui per documentare la storia dell’orologeria. Il Musée du Temps, ospitato nel suggestivo Palais Granvelle, intreccia storia, arte e orologeria in un viaggio affascinante attraverso il tempo. Le sue collezioni uniche, che includono orologi antichi e strumenti scientifici, raccontano l’evoluzione della misurazione temporale con eleganza e precisione. L’atmosfera rinascimentale del palazzo si fonde con l’esposizione moderna, creando un’esperienza culturale immersiva e memorabile.

Curioso passo attraverso diverse stanze quando la vedo! Un miraggio di capelli biondi che cadono a onde morbide, occhi verdi che sembrano laghi baltici, labbra rosse come ciliegie mature. Mi fermo quasi ipnotizzato. È giovane, forse vent’anni, bella da morire. Porta un tailleur blu, credo sia un’assistente, ma sono i dettagli che mi sconvolgono: magra, alta, la gonna corta che accarezza le sue gambe lunghe fasciate da soffio di calza nera, i suoi tacchi che risuonano sul pavimento ad ogni passo… La sua sensualità è un’arma, e io sono disarmato!

Non so cosa mi stia succedendo: “Alla mia età.” Mi dico, ma la seguo ugualmente, non posso non avvicinarla. Ora rallenta, i suoi passi risuonano più leggeri nel grande salone, come un metronomo che scandisce un tempo. Il Palais Granvelle, con i suoi soffitti affrescati e le pareti che raccontano storie di secoli passati, sembra quasi un palcoscenico creato per lei. Mi avvicino, e con il fiato in gola e un sorriso timido le rivolgo la parola. “Mademoiselle.” Dico. Lei si volta, i suoi occhi verdi mi scrutano con una curiosità gentile.

Chiedo a caso un’informazione in francese. Lei ride e tiene subito a precisare: “Sono lituana.” Poi con una voce morbida, che sembra portare con sé il vento del Nord, mi dice: “Mi chiamo Eglė.” Quel nome mi colpisce come un fulmine, un suono antico e mitologico.
Le spiego che sono un giornalista, che sto scrivendo un reportage sul museo, sulle sue meraviglie meccaniche che catturano il tempo. Le chiedo se può accompagnarmi, se può raccontarmi qualcosa di questo luogo che sembra pulsare di vita propria.

Eglė sorride, un sorriso che è allo stesso tempo cortesia e distanza, e scuote la testa. “Al momento sono impegnata.” Dice, con un tono che non ammette repliche, ma che lascia un qualcosa di sospeso nell’aria. Poi si allontana, il suo corpo che fluttua su quei tacchi impossibili, come se danzasse su un filo invisibile. La seguo con gli occhi, incapace di distoglierli, mentre la sua figura si perde tra le ombre delle sale, tra gli ingranaggi dorati degli orologi e i riflessi dei vetri antichi.

La visita al museo diventa un’esperienza frammentata. Ogni pendolo che oscilla, ogni quadrante intarsiato, sembra parlare di lei, di quel nome che mi risuona nella testa come un’eco. Cerco di concentrarmi sul reportage, annoto dettagli sul Grande Orologio Astronomico, sulla collezione di orologi da tasca del XVIII secolo, ma la mia mente torna sempre a Eglė. Chi è? Un’assistente precaria, ha detto, ma il suo portamento, il modo in cui si muoveva tra le sale, sembrava quello di una persona fuori posto. Finisco il giro, ma non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che lei sia più di un incontro casuale, che sia un frammento di una storia più grande.

Finita la visita cerco di ritracciarla, torno al bancone dell’ingresso ma quando chiedo di lei al personale, nessuno sembra conoscerla. “Eglė? Una lituana?” Ripete l’addetto, aggrottando la fronte mentre sfoglia un registro. Chiedo di guardare meglio.” Descrivo il suo aspetto, i capelli biondi, il tailleur blu scuro, quei tacchi che sembravano sfidare la gravità. “Non abbiamo nessuna assistente con quel nome qui.” L’uomo scuote la testa, allarga le braccia con un’espressione sconsolata. “Mi dispiace, signore. Non c’è nessuna Eglė tra il personale, né fisso né precario. Forse ha confuso il nome.”

Scendo di corsa le scale di pietra del Palais Granvelle, diretto verso l’uscita, il rumore dei miei passi rimbomba nel silenzio. Fuori, l’aria fresca di Besançon mi colpisce il viso, ma non riesce a schiarirmi le idee. È possibile che mi sia immaginato tutto? No, era reale, il suo profumo, il modo in cui ha pronunciato il suo nome, la sensazione che mi ha lasciato addosso. Eppure, il museo sembra averla inghiottita, come uno dei suoi orologi che segnano ore che non esistono.

Mi guardo intorno, la cerco tra i visi delle ragazze che escono dal museo. Niente, guardo verso la strada e finalmente la vedo. È seduta su una panchina fuori dal museo, sembra una farfalla. Mi avvicino a passo lento come se avessi timore che da un momento all’altro possa volare e sfuggirmi di nuovo. Lei però mi sorride e dice: “L’aspettavo…” Quella frase mi inorgoglisce, mi siedo accanto a lei. Le dico che ho chiesto di lei alla Direzione del museo, ma che nessuno la conosce. Lei fa un’espressione malinconica: “Sono una delle tante stagiste invisibili, ho solo un permesso di soggiorno per motivi di studio e non potrei lavorare qui e loro non vogliono grattacapi.”

Le chiedo da quanto tempo è qui in Francia. Lei risponde senza guardarmi negli occhi. “Sono qui da due settimane, ma il mio desiderio è rimanerci finché non imparo bene la lingua.” Mentre parla, la guardo, la sua dolcezza mi disarma. Poi tutto ad un tratto alza gli occhi e mi fissa, rimane un attimo in silenzio e poi dice: “Sai, adoro gli uomini come te!” Sorpreso chiedo sorridendo: “Cosa ho di speciale?” Lei abbassa di nuovo lo sguardo: “Sei un uomo adulto e gli uomini della tua età mi fanno sentire protetta, grande. Non ho mai amato i miei coetanei, sono troppo superficiali ed egoisti.”

Vorrei confermare ogni sua parola, ma mi trattengo: “Non ti senti amata?” Lei ci pensa un attimo e risponde: “Ti faccio una confidenza. Il mio ultimo fidanzato, un amico di famiglia, aveva più o meno la tua età. Con lui mi sentivo… viva.” Ogni parola di quella frase è un amo che mi cattura. Sono affascinato, quasi perso, pur sentendomi ridicolo per la tanta differenza. Faccio un rapido calcolo, di certo più di quaranta! Ma non riesco a smettere di guardarla: il modo in cui si sistema i capelli, il movimento delle sue gambe, la curva delle sue labbra con quel rossetto rosso ciliegia. È un colpo di fulmine, lo so, qualcosa che non provavo da decenni. Chiedo a raffica: “Lo hai amato? Sei delusa? Come ti ci sei trovata?” Lei scuote la testa e taglia corto: “Era una storia che non poteva continuare…”

Mi rendo conto che non ne vuole parlare, allora le chiedo del suo paese e lei mi parla della sua famiglia a Vilnius, mi racconta di sua nonna, che intreccia ghirlande di fiori selvatici, e di suo fratello, che suona il pianoforte in una piccola scuola di musica. Ogni parola sembra dipingere un quadro, e io, Alessandro, un giornalista attempato, con i capelli ormai grigi e una vita di storie scritte sulle spalle, mi scopro a pendere dalle sue labbra, come se fossi un ragazzo al primo batticuore.

Senza pensarci, spinto da un impulso che non so spiegare, decido di mettermi in gioco e le propongo di rivederci e cenare insieme, le parole che mi sfuggono come un respiro trattenuto troppo a lungo. Lei mi guarda, i suoi occhi verdi brillano di una luce antica, ma declina l’invito con un sorriso enigmatico, un sorriso che sembra custodire segreti più vecchi di lei. “Devo tornare a casa.” Dice, senza spiegare, come se “casa” fosse un luogo oltre la mia portata, un altro tempo, un altro mondo. Insisto, con una sfacciataggine che non riconosco in me stesso, e le chiedo se ci sia qualche possibilità di rivederci il giorno dopo o quando vuole lei. Eglė ci pensa, il suo sguardo si perde per un istante verso le vetrate del museo, poi si volta e, con un cenno quasi impercettibile, mi dà appuntamento per il giorno dopo, nel parco pubblico vicino al Doubs.

Torno nella mia stanza d’albergo e passo la notte insonne, il cuore che batte come un orologio fuori tempo. Il profumo di Eglė mi perseguita. “Alessandro, cosa ti sta succedendo?” Mi chiedo, fissando il soffitto scuro, sapendo già la risposta, ma temendola allo stesso tempo. Ho più di sessant’anni, un’età in cui si dovrebbe aver imparato a domare i desideri, a guardare il mondo con la calma di chi ha già vissuto mille vite. Eppure, questa ragazza di vent’anni, con la sua grazia eterea e il suo nome che sa di leggenda, ha risvegliato in me qualcosa che credevo sepolto: un’urgenza, un’emozione, una fame di vita che non sentivo da decenni. È possibile innamorarsi così, a prima vista, quando gli anni pesano come libri su uno scaffale? È follia o è il tempo stesso che si prende gioco di me, qui, nel cuore di un museo che venera il suo scorrere?

Ripenso al suo volto, alla curva delicata delle sue labbra quando ha pronunciato il suo nome, Eglė, come se fosse un incantesimo. Non è solo la sua giovinezza a stregarmi. È qualcosa di più profondo, una sorta di connessione che non so spiegare, come se in lei vedessi un riflesso di ciò che ero, di ciò che avrei potuto essere.
Io, che ho passato la vita a inseguire storie, a catalogare momenti, mi ritrovo a desiderare di essere parte della sua, anche solo per un istante. Ma poi mi fermo, il peso della realtà mi schiaccia: cosa può vedere una ragazza come lei in un uomo come me, con le rughe che raccontano più storie di quante io abbia mai scritto? È un capriccio, mi dico, un’illusione nata dalla magia di questo luogo, dove il tempo sembra piegarsi e confondere i confini tra ciò che è possibile e ciò che è sogno.

La sua frase mi martella la mente: “Sai, adoro gli uomini come te!” Mi illudo. E se fosse vero? E se ci fosse la possibilità di una nuova vita? Non so se saprò in grado di proteggerla, sono sincero, non riuscirei a provare per lei un sentimento solo paterno. Lo sento, c’è qualcosa in me che mi sconvolge e allora mi dico di lasciar perdere. Eppure non riesco a smettere di pensare al nostro appuntamento. Il parco vicino al Doubs, con i suoi sentieri ombreggiati e il suono dell’acqua che scorre, mi sembra già un luogo fuori dal tempo, un posto dove forse, per un momento, potrò dimenticare gli anni che ci separano.

La mattina dopo mi vesto con cura, scegliendo una camicia che mi fa sentire meno fuori posto, meno intruso nel suo mondo. Ma dentro di me, la domanda continua a girare, come un ingranaggio inceppato: come è possibile innamorarsi così, a prima vista, di una ragazza che potrebbe essere mia nipote? Forse è proprio il contrasto tra la mia vita, ormai piena di ricordi, e la sua, che sembra ancora tutta da scrivere, a rendere questa attrazione così potente. O forse, come il Musée du Temps mi ha insegnato, l’amore non segue le regole degli orologi, ma si muove su un ritmo tutto suo, imprevedibile e inarrestabile.

Mentre esco dall’albergo, diretto verso il parco, porto con me la mia macchina fotografica, il taccuino, e un cuore che non sa se sperare o temere. Eglė, con il suo nome di regina serpente, è già un mistero che non sono sicuro di voler risolvere. Ma so che, qualunque cosa accada, questo incontro mi ha ricordato che il tempo, per quanto lo misuriamo, non smette mai di sorprenderci.

Mi inoltro nel parco pubblico vicino al Doubs, seguendo a memoria le indicazioni di Eglė, con il cuore che batte come un orologio fuori sincronia. I sentieri si snodano tra querce secolari. Mi guardo intorno, cercando la sua figura familiare, quei tacchi impossibili, i suoi capelli che ondeggiano come un pendolo. Ma Eglė non c’è. Mi fermo sotto un grande tiglio. Aspetto, un’ora, poi due, il tempo che si dilata come un’illusione in questo luogo che sembra sospeso tra realtà e fantasia. Impaziente mi alzo. Cammino avanti e indietro lungo il sentiero, i miei passi che scricchiolano sulla ghiaia, scrutando ogni angolo, ogni ombra, sperando di vederla apparire da dietro un albero o lungo il ponte che attraversa il Doubs.

Mi siedo di nuovo su una panchina di legno, fredda e umida, fissando il punto dove il sentiero si perde nella foschia. Mi rialzo, incapace di stare fermo, il cuore che si stringe a ogni minuto che passa. Niente. Eglė non si c’è. Cerco di giustificare quell’assenza, di costruirle una storia che tenga a bada la delusione che mi cresce dentro. Forse un contrattempo, un imprevisto al museo, un impegno familiare che l’ha trattenuta. “Non poteva avvisarmi.” Mi dico, mentre controllo il telefono per la centesima volta, sapendo bene che non mi ha mai dato un numero, un contatto, nulla che mi permetta di raggiungerla. Solo quel nome, Eglė, e un appuntamento che ora sembra un miraggio.

Il lavoro al museo, penso, tornando con la mente al Palais Granvelle. “Ah, già, il museo…” Mormoro tra me, come se quella fosse la soluzione. Decido di tornare lì, spinto da un misto di speranza e ostinazione, come un detective che insegue un indizio sfuggente.
Attraverso la città con passo veloce, il taccuino che sbatte nella tasca del mio cappotto, la macchina fotografica che dondola al collo come un peso morto. Entro, mi avvicino al bancone, e chiedo di Eglė. La giovane donna dietro il banco, con un badge che recita “Claire”, mi guarda con un’espressione confusa. “Eglė? Non abbiamo nessuna Eglė qui, mi spiace signore.” Dice, controllando un computer. Insisto, descrivo di nuovo il suo aspetto. Chiedo di verificare ancora, ma lei scuote la testa. “Mi dispiace, signore, nessuno con quel nome lavora qui, né ora né mai. Forse si è confuso con un visitatore.”

Le sue parole mi colpiscono come un pugno. Confuso? Io, Alessandro, che ho passato una vita a ricostruire storie da frammenti, potrei essermi inventato tutto? Ripenso al nostro incontro, al suo viso, la sua espressione, a quando mi ha dato l’appuntamento. Tutto reale, cavolo! Ne sono certo, eppure il museo sembra negare la sua esistenza.

La cerco in giro per bistrot, torno al Doubs, la cerco il giorno dopo, folle di desiderio, frugando ogni angolo di Besançon: i vicoli di Saint Jean, i bistrot lungo il fiume, la Rodia, persino il club Famous. Alla fine disperato torno di nuovo al museo, chiedo di nuovo alla stessa impiegata, lei mi riconosce e mi consegna una bustina rosa. Leggo il biglietto: “Non cercarmi, né ora né mai. Eglė.” Un tonfo al cuore, ma cos’è tutto questo, mi sembra una caccia al tesoro, mi sento preso in giro, ma non demordo.
Sarei già dovuto ripartire per Roma, chiamo la redazione, mi invento una scusa, dico che c’è un evento importante, che bisogno ancora di qualche giorno per completare il reportage.

Inizia a piovere, forte, sembra che tutte le nubi d’Europa si siano concentrate qui, ma non rimango in albergo, la cerco senza uno straccio di indizio. Ripasso parola per parola i suoi discorsi alla ricerca di un frammento, niente, intanto giro finché due giorni dopo, sotto un cielo grigio che piange ancora pioggia insistente, la vedo. È seduta ai tavolini all’aperto di un bistrot proprio di fronte al mio hotel, un angolo di Besançon dove il profumo di caffè si mescola all’umidità dell’aria.
Eglė è lì, sola, avvolta in un impermeabile verde scuro, i capelli raccolti sotto il cappuccio. Sorseggia un caffè, lo sguardo perso, ma il mio dramma non è il suo. Lei è tranquilla, anzi mi vede e mi sorride con la sua aria eterea.

Mi avvicino, i passi incerti sul selciato bagnato. “Eglė.” Dico, la voce che trema come se pronunciassi un incantesimo. Lei continua a sorridere come se il mondo fuori non la riguardasse. Gira lentamente il suo cucchiaino che tintinna contro la tazza. “Tutto bene?” Mi dice, ma nei suoi occhi verdi, colgo un lampo di calcolo, un’ombra che scompare troppo in fretta per essere decifrata.
“Perché sei sparita? Perché quel biglietto? Perché sei qui ora?” Chiedo, il tono più implorante di quanto vorrei. Lei mi guarda, e il suo sorriso, lento e disarmante, è come una porta che si apre su un mistero ancora più grande. “Non pensavo mi trovassi.” Risponde. “Ero… confusa.” Quella parola, “confusa,” suona come un enigma avvolto in seta, e mi avvolge, mi cattura, come se ogni sillaba fosse scelta con cura per tenermi sospeso tra speranza e incertezza.

Mi siedo. Vorrei stringerla tra le mie braccia, ma lei è sfuggente, mi parla di una ragazza del Benin che ha conosciuto qui in città, di un amico lituano che è tornato a Vilnius, ma ogni dettaglio sembra un tassello di un puzzle che non riesco a comporre. Chi è veramente Eglė? Una semplice assistente di museo, come aveva detto, o qualcosa di più? Una figura sfuggente che gioca con il tempo come gli orologi del Palais Granvelle? E perché si è fatta ritrovare, proprio qui, proprio ora, davanti al mio hotel, come se sapesse che l’avrei vista? È stata una coincidenza, o un calcolo preciso, un invito a inseguirla ancora in questo gioco di ombre?

Ma davanti a lei mi accorgo di essere indifeso, non riesco a essere duro, a carpirle una verità che non conosco. Le chiedo se c’è la possibilità di passare una giornata insieme, non domani, ma oggi! Mi dice che ora non può, senza dirmi altro. Le chiedo un contatto, uno straccio di indirizzo dove rintracciarla, ma lei è sfuggente. Allora le propongo di vederci il pomeriggio stesso nella mia stanza d’albergo, spinto da un desiderio che non so più se appartiene al cuore, alla follia o a chissà cosa. Lei esita, il suo sguardo che si perde per un istante verso il bicchiere d’acqua sul tavolo, come se stesse soppesando un segreto che non può condividere. Poi, con un cenno quasi impercettibile, accetta. “Non sparire di nuovo.” Dico, cercando di scherzare, ma la mia voce tradisce un’urgenza che mi fa sentire vulnerabile. Lei sorride, quel sorriso pieno di mistero che sembra contenere mille risposte e nessuna, e si alza.

Torno in hotel, la mente che vortica di domande senza risposta. Chi è Eglė, davvero? Il suo accento lituano, il modo in cui parla della sua vita, sembra autentico, eppure ogni parola è come un velo che nasconde più di quanto riveli. Perché ha lasciato quel biglietto, “Non cercarmi più…” per poi farsi trovare qui, come se mi stesse attirando in un labirinto? È un gioco, una sfida, o forse una storia che lei stessa non controlla? Mentre la pioggia continua a cadere, mi preparo per il nostro incontro. Ma dentro di me, le domande si accumulano come granelli di sabbia in una clessidra. Cosa ha in mente Eglė? Vuole che la trovi, che continui a cercarla, o sta guidandomi verso una verità che non sono pronto ad affrontare? Non lo so, e forse non voglio saperlo. Perché in questo momento, con il suo nome che mi brucia nella mente, Eglė è l’unica storia che voglio continuare a scrivere.

Ma poi mi convinco che in effetti il suo comportamento sfuggente è normale, lei è una ragazzina che vuole vivere la sua vita nella propria dimensione. Non prova niente per me, non ha sentimento, nessuna ragione, ma solo la voglia di vivere la sua libertà. Sono io che sono strano, sono io che mi sono messo in testa qualcosa che tutti giudicherebbero perlomeno insensato. Mi faccio una doccia, mi preparo, ma dubito fortemente che venga.

E invece la piccola lituana mi sorprende ancora. Alle cinque in punto, entra nella mia suite. È un’apparizione, un’irruzione di pura seduzione, un sogno che si materializza sotto le luci soffuse della stanza. La sua gonnellina, scandalosamente corta, è un lembo di seta nera che danza appena sopra le cosce. Le calze autoreggenti gridano un peccato che non chiede perdono. I tacchi a spillo, tredici centimetri di audacia, risuonano sul parquet. La camicetta trasparente, un velo di chiffon che aderisce alla sua pelle come una carezza, lascia intravedere il suo meraviglioso seno.

A 62 anni, credevo di aver visto tutto, amato e desiderato qualsiasi forma femminile, ma Eglė è qualcosa di celestiale. È una forza primordiale, che sfida il tempo e la logica. Si muove come su un palcoscenico, ogni passo un’esibizione, ogni gesto un invito. Si avvicina, il suo profumo è dolce e inebriante. Poi si allontana, girandosi appena, lasciando che il profilo del suo corpo si stagli contro la luce ambrata della lampada. “Guardami.” dice.

Inebetito la guardo, anzi la divoro: “Sei uno spettacolo.” Riesco a dire, la voce incrinata da un desiderio che mi strappa l’anima. Lei sorride. Sa di aver vinto. Sa di avermi in pugno. “Ora sono tutta per te.” Risponde, piegandosi appena verso di me. Ora tutto mi appare più chiaro, nei suoi movimenti c’è una strategia ben precisa, nulla è lasciato al caso, e tutti questi giorni ad inseguirla avevano un preciso scopo. Farsi desiderare!
“Mi volevi così, no? La tua bimba… la tua fantasia… eccomi qui.” Ogni parola è un colpo, un’onda che mi travolge. A 62 anni, il cuore batte come se ne avessi 20, e il mondo si riduce a lei, a questo momento, a questa stanza.

Mi alzo dal divano, le gambe pesanti non per l’età, ma per l’intensità di ciò che sento. Lei si avvicina di nuovo, i tacchi che affondano nella moquette. Le sue dita, lunghe e delicate, sfiorano il mio petto, un tocco leggero che brucia attraverso la camicia. “Non sei stanco di aspettarmi, vero?” Sussurra, il suo respiro caldo contro il mio collo.

È troppo perfetta, troppo eterea, come una musa scappata da un dipinto.
Ci baciamo, e il mondo svanisce. Le sue labbra sono morbide, calde, ma anche esperte. Il bacio è lento, quasi esitante all’inizio, come se stesse assaporando ogni secondo, poi si fa più intenso, più urgente. Le mie mani trovano la sua vita, la seta della gonna scivola sotto le dita. Lei preme contro di me, il suo corpo giovane e sodo contro il mio, e il contrasto mi fa quasi tremare: la sua giovinezza, la sua audacia, contro la mia esperienza, il mio desiderio che si è affinato con gli anni.

“Sei mio.” Il suo filo di fiato mi riempie la bocca. “E io sono tua.” Aggiunge, con una risata giocosa, che mi fa perdere ogni senso di controllo. La stanza si dissolve, il soffitto, le pareti, il tempo, tutto svanisce. C’è solo lei, il suo respiro, il suo profumo, il ritmo del suo corpo che si muove scivolando contro il mio, come una danza, un invito silenzioso a perdermi in lei.

Facciamo l’amore, e il suo corpo è un fuoco che mi consuma. Mi invita dentro di lei con gesti esperti, apre il suo paradiso senza alcun pudore, consapevole che nulla al mondo avrebbe più valore, neanche la vita, figuriamoci la morte. Come una regina che usa il suo suddito si mette sopra di me, pretendendo la sua dose di maschio e offrendomi la sua droga di femmina, ma l’emozione è troppa, la guardo, la stringo forte per i fianchi, lei si muove come una farfalla, cerco di resistere, ma in meno di due minuti, cedo al piacere, travolto. Lei ride, dolce, senza giudicarmi.

Dopo, mentre siamo ancora avvinghiati, mi guarda con gli occhi lucidi. Mi dice, quasi piangendo. “Ora posso spiegarti…” Le rispondo che non ho bisogno di alcuna spiegazione, mi basta solo che sia qui. Ma lei insiste: “Non sono una stagista, al museo, ero lì per caso, quando mi hai incontrata… Voglio dirti tutto di me.” La osservo, la sua tenerezza infantile mi commuove. Faccio per parlare, ma lei mi chiude delicatamente la bocca con la mano.
“Sono qui in Francia con mia madre, lei è molto malata e si deve operare urgentemente. Siamo in contatto con un medico famoso che potrebbe farla ricoverare.” Prende la sua borsa e mi fa vedere delle carte, poi mi mostra una foto sfocata di una donna malata. “Ho bisogno di un favore.” Sussurra. “Entro oggi devo mandargli mille euro, almeno per accelerare i tempi di accettazione.” Le sue mani tremano, la stringo a me. Le dico che non deve preoccuparsi, che ci sono io, che da ora in poi può fare affidamento su di me. Non esito, prendo il telefono, mi faccio dettare l’iban e faccio il bonifico. Lei mi riempie di baci e sussurra: “Ti amo…” E io sono al settimo cielo. Ora la vedo più calma, affettuosa si struscia a me come un gattino. Sono estasiato dalla sua dolcezza. Mi dice: “Non sai quanto mi hai fatto felice!” Ma la gioia è solo la mia penso, mai avrei potuto sperare di incontrare un angelo! Ringrazio il destino e penso se davvero meriti tutto questo! La coccolo rimaniamo ancora mezzora abbracciati e a quel punto le chiedo di restare la notte, ma lei rifiuta, senza spiegare. “Domani.” Promette. “Stiamo tutto il giorno insieme, te lo giuro!”
Ci diamo appuntamento nella suite.

Ma il giorno dopo, Eglė non viene. Aspetto ore, invano. Aspetto per tre giorni. Quando finalmente ho deciso di ripartire per Roma, la vedo dalla mia finestra in albergo seduta nello stesso bistrot. Con il cuore gonfio scendo di corsa. Sta piangendo. Appena mi vede si alza e mi abbraccia forte. “Mia madre è morta durante l’intervento.” Singhiozza. “Non ce l’ha fatta! Sono disperata…” Si lascia andare, la stringo a me e la faccio sedere. “Amore calmati, è la vita, dimmi solo se ha sofferto.” Le chiedo, ma lei è già oltre. “Devo organizzarmi per rispedire la salma a Vilnius. Ho bisogno di soldi.” Le dico che non ci sono problemi. Lei mi fissa con i suoi occhioni piangenti: “Davvero mi aiuteresti ancora?” Annuisco. E lei: “Ti prometto che da domani staremo insieme e se vuoi per sempre, ti seguirò ovunque amore mio. Io non torno a Vilnius, lì non ho più niente che mi trattiene, voglio dimenticare, vengo con te in Italia.” Prendo il portafogli e le do tutti i contatti che posseggo, circa duemila euro, poi col telefono le faccio un bonifico di altri duemila euro sullo stesso iban.

Mi dispiace per sua madre, ma dentro sento una gioia incredibile. Poi si alza e mi bacia. È un bacio lungo, intenso e interminabile. Lì davanti a tutti, tra un sessantaduenne ed una ragazzina! Ma Eglė non è una ragazzina, lei è la mia donna, la mia vita! “Aspettami tesoro.” Mi dice. “Dammi solo ventiquattro ore e sarò tua per sempre.” La guardo allontanarsi con il cuore leggero e pieno di speranza.

Ma Eglė non torna, né il giorno dopo, né mai. Aspetto giorni e per una settimana il suo telefono risulta spento, il museo non la conosce, tutta Besançon non ha traccia di lei e la mia Eglė, giorno dopo giorno, diventa un fantasma…

Sul treno di ritorno per Roma, sto fissando il paesaggio che scorre, ma io sono rimasto lì, ancorato al quel sogno che non poteva essere diverso da un sogno. Lo so, quasi rido di me stesso, oh sì certo lo so come è andata. È tutto chiaro, così dannatamente chiaro fin dall’inizio. Non poteva che andare così. E quel sorriso... Dio, quel sorriso. Era come se mi dicesse: “Lo sai che non è vero, ma vuoi crederci, no?”. E io ci ho creduto. O almeno, ho voluto crederci. Che stupido! Eppure, non riesco a provare rimpianto.

Anche se ora, mentre il treno sferraglia verso Roma, sento il peso della delusione, ma non è lei, non proprio. È il sogno. Il sogno di essere qualcun altro, di essere desiderato, di essere importante, anche solo per un istante. Ho sperato che dietro quel sorriso ci fosse qualcosa di vero, qualcosa che non si compra con cinquemila euro. Ma non è colpa sua, no. È il destino, il mio destino. Era scritto che dovesse andare così, che mi lasciassi incantare, che mi lasciassi consumare. Lo sapevo, fin dall’inizio, e sono andato avanti lo stesso.

Ogni tanto, chiudo gli occhi, ripenso a quei due minuti dentro il suo corpo giovane che si muoveva sopra il mio, e rivedo il suo viso, il suo seno che mi reclamava, il suo profumo che mi avvolgeva e mi ripeto che ne è valsa la pena, anche solo per quel frammento di eternità.

Durante il viaggio scrivo il reportage su Besançon, la capitale del tempo. Parlo delle sue mura, del Doubs, del Comté, della Cittadella. Ma tra le righe, c’è lei, Eglė. Un orologio che ha fermato il mio tempo, per sempre.










Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.


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