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STORIE VERE
 
Adamo Bencivenga
L'OMBRA LUNGA DI UN'OSSESSIONE
Mi chiamo Lavinia, ho 32 anni, sono sposata, ho una figlia di 5 anni e gestisco un’azienda farmaceutica. Tutto iniziò con un semplice messaggio sul telefono: “Buongiorno, oggi sei radiosa.” A scriverlo era Flavio, un dipendente del reparto marketing...



 
Mi chiamo Lavinia, ho trentadue anni, una figlia di cinque, un marito che mi guarda con occhi stanchi, e un’azienda farmaceutica che porto avanti con il peso di un’eredità che non ho scelto. Il mio matrimonio equilibrio fragile, un filo teso tra il dovere e il desiderio, e qualche mese fa quel filo si è spezzato. Non so dire esattamente quando sia iniziato, ma ricordo il momento in cui ho capito che stavo scivolando: un messaggio sul telefono aziendale, un semplice “Buongiorno, oggi sei radiosa”. Era lui, Flavio, un dipendente del reparto marketing, con quel sorriso disarmante e una leggerezza che mi faceva dimenticare il caos della mia vita.

Era un martedì di fine primavera, l’aria tiepida entrava dalle finestre dell’ufficio. Ero al telefono con un fornitore, cercando di mantenere la calma mentre mi spiegava un ritardo nella consegna. Flavio era entrato senza bussare, come faceva spesso da un po’ di tempo, con una cartellina in mano e quell’aria da uomo a cui è difficile dire di no.
“Lavinia ho bisogno della tua firma per il nuovo spot.” Disse, posando la cartellina con le foto del farmaco sulla scrivania. Ma lui non guardava quelle foto, fissava me, come faceva sempre, e per un attimo mi persi nei suoi occhi castani, caldi e amari come il caffè che bevevo ogni mattina dalla macchinetta dell’ufficio.
“Grazie, Flavio, lasciamela qui, poi le do un’occhiata”. Risposi a voce bassa, cercando di non farmi sentire dal mio interlocutore al telefono. Ma lui non si mosse. Si appoggiò alla scrivania, incrociando le braccia e aspettando che finissi.

Beh si se in quel momento fossi stata risoluta e gli avessi detto di andare forse non sarebbe successo nulla, ma lasciai correre e a telefonata conclusa lui mi disse: “Sai, dovresti prenderti una pausa ogni tanto. Sei sempre così… attiva. Non ti stanchi mai?” Risi guardando la mia agenda e pensando a tutte le cose che avevo da fare quel giorno. “Non ho scelta. Questa azienda non si gestisce da sola.” E per qualche secondo cercai di rilassarmi con la schiena appoggiata alla poltrona di pelle.
“Lo so, tu sei una donna speciale, ma ogni tanto devi respirare.” Disse lui con un tono deciso che non ammetteva repliche. Pensai a mio marito Renzo, ogni sua parola era una domanda o un dubbio ed io invece avevo bisogno di più certezze e alle volte di essere guidata.

Squillò ancora il telefono e Flavio allargando le braccia se ne andò sorridendomi, ma da quel giorno, i messaggi iniziarono a farsi più frequenti. “Hai un sorriso che illumina l’ufficio…” E poi: “Non so come fai a essere così perfetta anche sotto pressione…” E poi ancora: “Adoro il tono del tuo nuovo rossetto...” Beh sì lui oltre la madre e la manager vedeva in me una donna e forse qualcosa che gli altri non vedevano. Leggevo quei messaggi di nascosto tra un appuntamento e una riunione, e di solito rispondevo con faccine o frasi brevi, caute, ma che lasciavano intravedere un piccolo spiraglio. Beh sì, non era un’apertura, ma mi piaceva comunicargli che non disprezzavo i suoi modi.

Non so dire con certezza perché non lo fermai. Forse perché sotto il peso delle responsabilità sentivo che stavo perdendo qualcosa di me, la mia femminilità. A trentadue anni, ero la ‘dottoressa Lavinia’ per i dipendenti, la ‘mamma’ per Regina, la ‘moglie’ per Renzo, ma nessuno vedeva in me la donna che avrei desiderato essere. Quella che anni prima sognava di viaggiare, di ridere senza preoccupazioni, di sentirsi viva, ora si muoveva stretta da rigidi tailleur tra riunioni interminabili e notti in cui Renzo si addormentava senza nemmeno sfiorarmi. Flavio, con i suoi messaggi, colmava in parte quel vuoto e mi faceva sentire desiderata, non per quello che facevo, ma per chi ero. O almeno, per chi volevo tornare a essere.

Una sera, dopo una riunione interminabile, Flavio mi propose un caffè. “Solo cinque minuti di orologio, dai concediti uno svago… Mica ti sto chiedendo di sposarmi!” Disse ridendo, e io accettai.
Il bar sotto l’azienda era piccolo e noi ci accomodammo nell’unico tavolo vicino al bancone. All’inizio parlammo di tutto e di niente: dei film che ci piacevano, della musica che ascoltavamo da ragazzi. Poi lui aprendosi mi raccontò di un suo vecchio amore, folle e disperato, e di come ogni volta si lasciasse travolgere dalla passione quasi totalizzante. Beh sì da quelle parole avrei dovuto capire che tipo fosse, ma desiderosa di fargli conoscere il mio mondo fuori dal lavoro gli parlai di Regina, di come la sua risata fosse l’unica cosa che mi teneva in piedi nei giorni peggiori. “Sei incredibile, Lavinia.” Disse a un certo punto, posando la tazza sul tavolo. “Non capisco come fai a gestire tutto questo e rimanere così… bellissima, affascinante...” Arrossii, abbassando lo sguardo. “Non sono bellissima, Flavio. Io mi vedo solo stanca.” Mi guardò con i suoi occhi penetranti: “Ti sbagli. Sei una donna che sembra fragile, ma potrebbe spostare montagne.”

Quelle parole mi entrarono dentro come un veleno dolce. Sapevo che era sbagliato, ma mi piaceva sentirmi desiderata e non solo per il mio aspetto fisico. Qualcuno, nonostante le giornate frenetiche di lavoro, si era accorto di me! Mio marito invece non mi vedeva più, per lui ero diventata un’abitudine, una parte del mobilio di casa. Con Flavio, invece, mi sentivo di nuovo importante, giovane, leggera. E così la mattina del giorno dopo mentre ero in bagno mi accorsi di fare più attenzione a cosa indossare. Certo sì da capa ero sempre stata impeccabile e mai un capello fuori posto, ma da quel giorno non disprezzai una punta sexy del mio abbigliamento e del mio trucco. Ovviamente la cosa non passò inosservata e i messaggi di Flavio si fecero più intimi: ‘Buongiorno, sei fantastica, quella gonna ti sta da Dio!”

Tutto ciò era una carezza che mi faceva arrossire, ma anche rabbrividire. Una parte di me voleva fermarlo, mettere un confine, ma un’altra parte – quella che si svegliava ogni mattina con il peso del mondo sulle spalle – non ci riusciva. Ogni tanto, rispondevo con un semplice ‘Grazie’, ma quel grazie era un filo teso che lo lasciava avvicinare. Quando mi invitò a cena, tre giorni dopo il nostro caffè al bar, esitai. Pensai a Renzo, a Regina, al rischio di oltrepassare una linea che non avrei potuto più cancellare. Ma poi guardai il mio viso riflesso sul monitor del pc, con le occhiaie di chi non dorme e il desiderio di sentirmi viva. ‘Solo una cena,’ mi dissi, come se potessi davvero controllare ciò che stava crescendo dentro di me.

Il suo invito era stato fermo, quasi autoritario, e io, invece di spaventarmi, mi sentii attratta da quella sicurezza che a Renzo mancava da tempo. Comunque esitai, tra l’altro era un mio dipendente e avevo sempre considerato sconveniente quel tipo di rapporto in azienda! Ma non fu questo che mi fermò. Pensai a Renzo, a Regina, alla mia figura di manager inflessibile. Lui era sempre lì con un’aria quasi strafottente pronto a cogliere la mia minima fragilità e allora pesando a un momento di evasione risposi: “Dammi un giorno per pensarci…” Lui disse semplicemente ok, ma si vedeva da mille miglia quanto fosse contrariato. Beh sì certo, lo capivo, ventiquattro ore avrebbero potuto cambiare tante cose e lui magari si era già pregustato una serata intima con la sua capa.

Quella notte, sdraiata accanto a Renzo, che dormiva già, non chiusi occhio. La mia mente vagava sballottata da un vortice di colpa, eccitazione e paura. Cosa stavo facendo? Avevo un marito, una figlia, un’azienda sulle spalle, ma ero anche una donna, affamata di qualcosa che mi facesse evadere dalla prigione di quei ruoli. Mi ripetevo è solo una cena, ma dentro di me sapevo che ci sarebbe stato inevitabilmente un dopo.

Il giorno dopo, mandai un messaggio a Flavio: “Va bene. Una cena. Solo una però...” Lui rispose all’istante, come se avesse già pianificato ogni cosa, proponendomi un piccolo ristorante in un paese vicino, lontano da occhi indiscreti. Il passo successivo fu quello di inventarmi una bugia e raccontarla a Renzo su un incontro fino a tardi per una fornitura importante.

Quella sera rimasi in azienda fino a tardi e dopo, senza alcuna esitazione, presi la macchina e andai. Il ristorante era un angolo suggestivo nascosto tra le stradine di un piccolo paesino che sembrava sospeso nel tempo. Flavio mi aspettava all’interno, in piedi, impeccabile in una camicia bianca che faceva risaltare la sua abbronzatura fuori stagione. “Sei arrivata.” Disse, facendomi i complimenti per l’abito nero e il trucco, poi scostò la sedia con una cortesia che mi fece sentire speciale.

Parlammo per ore, il vino rosso che scioglieva le mie difese. Lui mi raccontò di un suo viaggio in Grecia, mentre io gli confessai quanto mi sentissi schiacciata dal peso delle aspettative. A un certo punto, quando appoggiò la sua mano sulla mia, mi ritrassi d’istinto. Non ero ancora pronta. La sua espressione si incupì, come se non si aspettasse il mio timore. Mi sentii in difetto e, dandomi della stupida, cercai di rimediare: “In questo momento mi sento bene Flavio, ed è certamente merito tuo.” Poco dopo, fui io stessa a cercare il contatto, posando la mia mano sotto la sua. La sua presa decisa e calda mi fece sentire protetta e per la prima volta dopo tanto tempo sentii che avrei potuto lasciarmi andare.

Uscimmo dal locale a tarda ora, l’aria fresca della notte mi accarezzava il viso. Ci fermammo accanto alla mia macchina, per lunghi attimi non parlammo, poi Flavio si avvicinò ed io sentii il suo respiro caldo contro la mia guancia. “Lavinia.” Sussurrò, e prima che potessi rispondere, le sue labbra morbide trovarono le mie. Non posso dire che non me lo aspettassi, ma non avevo previsto la mia reazione. Mi aggrappai a lui e ci baciammo. Sentii dentro di me un’esplosione di desiderio represso, simile ad un bisogno che aspettavo da troppo tempo. Quel bacio era diverso dal solito, intenso e travolgente. Come se non fossi io a guidarlo, ma lui a condurlo, come se la sua volontà mi avvolgesse più delle sue labbra ed io dovessi solo obbedire. La sua passione mi penetrava, prendeva il controllo di me, dei miei sensi, e io mi abbandonai completamente al calore delle sue labbra. Le sue mani trovarono facilmente il mio seno, i miei fianchi, ma lui pur sapendo che sarebbe potuto andare oltre si staccò da me. Mi sorrise, ma senza dire nulla, poi salì nella sua macchina e lo vidi andare via.

Guidai verso casa con il suo sapore ancora sulle labbra. Sentivo l’eccitazione del mio corpo salire verso la mia testa attraverso i miei seni turgidi, ma allo stesso tempo ripensai a quello strano atteggiamento ringraziandolo comunque per non essere andato oltre. A casa Renzo dormiva, ignaro, e Regina era raggomitolata nel suo letto con un peluche stretto al petto. Non avevo voglia di dormire e mi sedetti sul divano, il viso tra le mani, i miei sensi in tumulto, il soffitto infinito come un cielo stellato. Cosa mi stava succedendo? Beh sì certo era stato solo un bacio, ma dentro di me sapevo che non sarebbe finita lì. La colpa mi stringeva lo stomaco, ma non ero pentita, il ricordo di quel bacio mi faceva tremare di desiderio. Mi chiesi bonariamente come fossi arrivata a quel punto, quale fosse la ragione e che, se avessi voluto, sarei stata ancora in tempo, ma in quel momento non avevo nessuna voglia di cercare una causa, darmi una giustificazione per assolvermi e tantomeno interrompere quel flusso di adrenalina che mi faceva sentire viva.

La mattina dopo, entrando in ufficio, trovai un mazzo di trentasei rose rosse a gambo lungo sulla sua scrivania, senza biglietto. Il cuore mi balzò in gola. Sapevo chi era stato. Con le mani tremanti e il fiato corto, presi il telefono e lo chiamai immediatamente. “So che sei stato tu…” Dissi con la voce rotta dall’emozione. Lui scherzando mi disse: “Sarà stato sicuramente qualche tuo ammiratore segreto…” Ma pochi minuti dopo era lì, davanti a me. Con fare deciso chiuse la porta dell’ufficio alle sue spalle. “Volevo che sapessi quanto sei importante.” Si avvicinò alla mia scrivania, e prima che potessi pensare, le sue labbra erano già sulle mie. Di nuovo quel bacio penetrante pieno di saliva e passione come se fosse lui il padrone della mia bocca ed io non dovessi far altro che allargare le labbra ed obbedirgli.

Cercai di oppormi rendendomi conto del rischio, ma lui non chiese permesso e le sue mani afferrarono decise il mio viso con una sicurezza che non ammetteva esitazioni. Le labbra si incontrarono con un’intensità che consumava ogni distanza, ogni pericolo, ogni dubbio. La lingua di lui mi esplorava decisa ed io mi lasciai andare, le mie labbra si schiusero per istinto e obbedienza. La sensazione fu quella di un’onda che mi travolse: il calore, il sapore leggermente salato, il ritmo che alternava urgenza e pause calcolate. Sentivo il mio corpo rispondere tra eccitazione e resa, come se in quel momento non esistesse altro, l’ufficio, la manager, ma solo la donna che reclamava quel bisogno. Era un bacio che non chiedeva, ma possedeva, dove lui era il maestro ed io la sua allieva. Mi slacciò la camicetta stringendomi il seno e nonostante il rischio non resistetti, mi sentivo attirata da lui, come se ogni barriera dentro di me fosse crollata.

Lui mi guardava soddisfatto, con un sorriso che tradiva una soddisfazione quasi predatoria, come se ogni mia resa fosse una vittoria che assaporava lentamente. I suoi occhi penetranti, sembravano leggermi dentro, scavando oltre le mie difese, oltre la facciata della manager impeccabile che avevo costruito con cura. Mi sentivo nuda, non solo per la camicetta slacciata, ma per quella fragilità che lui aveva saputo cogliere.
Con un gesto lento si allontanò appena: “Non sei solo importante. Sei mia Lavinia.” Quelle parole mi colpirono come un fulmine, un misto di eccitazione e paura che mi fece tremare. Sapevo che stavo giocando con il fuoco, che quel gioco pericoloso avrebbe potuto consumarmi, ma il suo magnetismo era una forza che non riuscivo a contrastare. Mi prese per la vita, attirandomi a sé e guardandomi compiaciuto, come se il suo vero piacere non fosse la mia intimità, ma l’aver spezzato le mie resistenze e il mio totale abbandono a lui. Mi sollevò leggermente, facendomi sedere sul bordo della scrivania. “Dimmi che mi vuoi.” Sussurrò, e io, nonostante il tumulto dentro di me, annuii, incapace di mentire a me stessa. “Ti voglio.” Risposi chiudendo gli occhi, come se ammettere quella verità mi costasse l’ultima briciola di controllo.

Le sue mani scivolarono lungo i miei fianchi, ogni suo tocco sembrava calcolato per spingermi oltre il confine della ragione. Mi abbandonai completamente, lasciando che il desiderio prendesse il sopravvento, consapevole che stavo cedendo non solo a lui, ma a una parte di me che avevo sempre tenuto a freno. Ma proprio mentre il calore tra noi cresceva, un colpo secco alla porta ci fece sobbalzare. Il mondo reale si insinuò come un intruso, riportandomi di colpo alla realtà. Lui, però, non si scompose. Con un sorriso sornione, mi disse: “Non abbiamo finito.” E quelle parole erano una promessa, un avvertimento, un destino che ormai sentivo inevitabile. Mi sistemai a fatica la camicetta con le mani tremanti, cercando di ritrovare un briciolo di compostezza, ma sapevo che qualcosa dentro di me era cambiato per sempre. Ero sua, e quella consapevolezza, dolce e pericolosa come un veleno dolce, mi rendeva fragile, incapace di oppormi al suo magnetismo e di certo mi avrebbe accompagnato ben oltre quel momento.

“Non abbiamo finito.” Quella frase mi ritornava in mente come un mantra quando, il pomeriggio stesso, lui entrò nella mia stanza con la solita sicurezza che non ammetteva rifiuti. Si sedette sulla mia scrivania. “Aspettami alle cinque all’uscita. Rimaniamo un po’ insieme, ok?” Disse, con un tono che non era una richiesta, ma un ordine mascherato da invito. Lo guardai sorpresa, mentre cercavo di guadagnare tempo. La mia mente corse subito a Regina che dovevo accompagnare dal dentista quel pomeriggio. “Non posso.” Risposi, ma il suo volto si incupì, un’ombra di disappunto gli attraversò gli occhi. Senza darmi il tempo di aggiungere altro, si alzò dalla scrivania, diretto verso l’uscita, e con un tono fermo disse: “Risolvi il problema. Ti aspetto alle cinque vicino alla mia macchina.” La porta si chiuse alle sue spalle, lasciandomi sola con il peso di quella frase.

Mentre chiamavo mio marito mi chiesi perché gli stessi obbedendo, perché non riuscissi a trovare la forza di oppormi. Un senso di colpa mi strinse lo stomaco, ma allo stesso tempo una parte di me, quella che aveva ceduto ai suoi baci, non voleva resistere. Con le mani tremanti, composi il numero e inventai l’ennesima scusa di lavoro con le parole che mi uscivano di bocca come un copione ormai logoro. “Va bene, tesoro, non preoccuparti.” Rispose lui con la sua solita calma: “Regina l’accompagno io.”

Quelle parole, così semplici e fiduciose, mi colpirono come un pugno. Eppure, invece di fermarmi, sentii la dolce sensazione di scivolare verso l’ignoto. Sapevo che accettare l’invito di Flavio significava attraversare un limite pericoloso e che non ci sarebbero stati colpi alla porta dell’ufficio per fermarmi, ma la mia volontà sembrava dissolversi e alle cinque mi ritrovai lì, seduta dentro la sua macchina, pronta a cedere al suo desiderio e alla mia stessa debolezza. Durante quel breve tragitto non parlammo. Sapevo dove mi stava portando…

Il motel che aveva scelto era un posto anonimo con le tende pesanti e lenzuola che odoravano di disinfettante. Flavio mi prese la mano, guidandomi nella stanza come se fosse la cosa più naturale del mondo. Vedendomi indecisa mi chiese: “Sei sicura?” Forse lui era già consapevole cosa ci sarebbe stato dopo quell’incontro, ma in quel momento risposi semplicemente: “Sono qui.” Lui mi baciò, e in quel momento tutto il resto sparì, c’era solo lui, il suo profumo, le sue mani decise che sapevano esattamente dove toccarmi. Ogni suo tocco, ogni suo movimento, era carico di una brama cruda, non c’era spazio per parole sussurrate come se fossi un territorio già conquistato. Lo percepivo nella pressione delle sue mani, nel ritmo incalzante dei suoi gesti, nella fame dei suoi baci. Mi dissi che del resto era quello che stavo cercando e mi abbandonai a quella frenesia, lasciandomi trascinare dalla pura fisicità del momento.

Il modo in cui le sue mani mi stringevano con una sicurezza che non ammetteva esitazioni accendeva in me un’eccitazione viscerale, un bisogno primordiale che soffocava ogni razionalità. Era come se il mio corpo rispondesse a un richiamo istintivo, obbedendo a un desiderio che non aveva bisogno di parole o promesse. In quel letto, sotto il peso di Flavio, non ero la manager, la madre, la moglie: era solo una donna, nuda di ogni ruolo, ridotta alla pura essenza. Ogni volta che le sue labbra cercavano le mie, ogni volta che il suo corpo mi reclamava con quella possessione spietata, una fitta di colpa mi stringeva il petto.

Lui non mi guardava, non c’era tenerezza nei suoi gesti, solo una determinazione di maschio, come se il suo unico scopo fosse marcarmi, possedermi, piegarmi al suo volere. Mi sentivo un trofeo da conquistare, un bisogno da saziare e pur sentendo il peso di quella verità, non riuscivo a fermarmi. Durante il rapporto mi disse: “La prossima volta ti lego e ti bendo!” Gemetti e lui lo prese come un sì. Beh si era un gioco di potere, di dominazione, ed io mi ero arresa, incapace di resistere a quella esuberanza che nonostante tutto mi faceva sentire femmina.

Non durò molto, la sua era un’urgenza che consumò in pochi minuti, come se il tempo stesso fosse un lusso che non potevamo permetterci. Quando tutto finì, con il respiro ancora affannoso mi rivestii con le mani che ancora mi tremavano, mi chiesi se fossi mai riuscita a ritrovare me stessa dopo aver accettato quel tipo di amore ed essermi persa così completamente in lui. Lui invece si accese una sigaretta e compiaciuto fissò il soffitto della stanza.

Dopo quell’incontro ce ne furono altri ed ogni volta sprofondavo in un vortice di emozioni che non riuscivo a controllare. Lui mi mandava messaggi appassionati, mi chiamava “la sua donna” mi ordinava come vestirmi spiegandomi in dettaglio come avrebbe sfogato la sua passione. Durante i nostri incontri comparvero corde e bende ed io mi sentivo sempre più legata a lui, nel vero senso della parola. Ovvio era un amore che non avevo mai provato, ma che appagava quella parte di me distante dalla manager austera. Con lui era semplicemente una donna che godeva nell’essere desiderata e dominata.

Mi diceva che non aveva mai conosciuto una donna come me o meglio che con me si sentiva se stesso come se io inconsapevolmente riuscissi a saziare la sua parte più morbosa e dominante. Ma poi arrivarono le prime crepe. Una sera, dopo uno dei nostri incontri, mi rivelò qualcosa che mi gelò il sangue. “Sai, Lavinia, a volte penso che io e te potremmo essere qualcosa di più. Ma… non voglio complicarti la vita. Hai una figlia, un marito.” Lo guardai, cercando di capire. Chiesi spiegazioni e lui candidamente disse: “Non fraintendermi… insomma vorrei che tu fossi ancora più mia e dedicassi più tempo a me e meno alla tua famiglia.” Mi affrettai a rispondere: “Ma io sono tua!” E lui fissandomi negli occhi: “Non mi basta, voglio che tu sia mia anche mentalmente e non solo quando facciamo sesso.” Ecco eravamo arrivati al dunque, pensai ai suoi tanti e precedenti rapporti falliti. La sua sete di potere desiderava altro e il sesso non gli bastava più. Non so perché, ma pensai subito a Regina col solo desiderio di proteggerla. Lui stava oltrepassando un confine che non potevo accettare. Il mio silenzio fu abbastanza eloquente e lui salutandomi mi disse: “Lavinia io ti voglio un bene dell’anima e non voglio farti del male.”

Quelle parole mi ronzavano ancora nella testa, quando guidai verso casa. “Non mi basta, voglio che tu sia mia anche mentalmente.” Non erano solo una richiesta, erano un ultimatum. Le luci della città sfrecciavano fuori dal finestrino, ma io vedevo solo il viso di Regina. Come avrei potuto anche solo pensare di mettere in discussione quel legame per un uomo che, pur con il suo fascino, mi stava chiedendo di tradire una parte di me e trascurare tutto il resto? Arrivata a casa, trovai mio marito seduto al tavolo della cucina. “Sei tornata tardi…” Disse senza alzare lo sguardo dal giornale. Non c’era sospetto nella sua voce, solo una stanchezza che conoscevo fin troppo bene. “Riunione lunga.” Mentii, pensando che tutto quelle bugie prima o poi mi avrebbero condannata per sempre. Mi sedetti di fronte a lui, cercando di trovare le parole per colmare il silenzio. Ma non ci riuscivo. La verità era che non sapevo più chi fossi e se confessare fosse una toppa peggiore del buco. Ero una donna che si era lasciata travolgere dalla passione, ma che ora se ne stavo pentendo. Forse sarebbe stata l’occasione giusta per parlare, confessare almeno una parte, ma lui guardandomi mi si alzò quasi sconsolato e disse: “Vado a letto.”

Quella notte non dormii. Sdraiata accanto a Regina mi chiesi, dopo il mio silenzio, se Flavio mi avesse ancora cercata: una parte di me sperava di sì, un’altra pregava di no. Ma una cosa era chiara: non potevo essere “sua” come lui voleva. Non potevo smettere di essere la madre di Regina, la moglie e la manager, ma non potevo ignorare il vuoto che si era aperto dentro di me e che Flavio col suo impeto di maschio era riuscito sapientemente a colmare. Forse, pensai, la vera forza non stava nello scegliere tra l’una o l’altra Lavinia, ma nel trovare un modo per essere tutte quelle donne insieme, senza perdersi.

Il giorno dopo, con il cuore pesante e un groviglio di emozioni che mi stringeva il petto, decisi di affrontare Flavio. Non potevo più ignorare il tumulto dentro di me. Lo contattai, e lui propose di vederci nel solito motel, quel luogo che ormai era diventato il nostro rifugio e la mia prigione. Gli chiesi di andare separati e lui seppur a malincuore accettò. Arrivai con le mani che tremavano, il respiro corto, come se stessi camminando verso un precipizio. La stanza era la stessa di sempre: tende pesanti che bloccavano il mondo esterno, l’odore di disinfettante che pizzicava le narici, il letto che sembrava aspettare il nostro inevitabile abbandono.

Flavio era già lì, seduto sul bordo del letto, con quello sguardo che mi trafiggeva. Non persi tempo. Dopo i nostri momenti di passione, quando il silenzio si fece denso, trovai il coraggio di parlare. “Flavio, questo… questo è il massimo che posso darti. Non posso essere solo tua. Ho una figlia, un marito, un lavoro. Non posso smettere di essere chi sono.” Le parole mi uscirono come un fiume in piena, cariche di tutto il peso che avevo portato dentro per troppo tempo.

Lui mi fissò, il volto immobile, ma i suoi occhi si scurirono, come se una tempesta si stesse formando dietro di loro. Poi iniziò a parlare con una calma che mi fece rabbrividire: “Il mio amore per te è infinito e incondizionato, vorrei che anche tu provassi le stesse cose. Non posso condividerti con loro, con i tuoi impegni, con la tua vita. Voglio tutto di te.” Ogni sua parola era un colpo, un tentativo di scavare più a fondo nella mia anima. Mi sentii soffocare. “Non posso.” Risposi, quasi implorando. “Non posso smettere di essere una madre, una moglie. Non posso essere solo la tua donna.”

Il silenzio che seguì fu assordante. Già nei giorni precedenti, avevo notato qualcosa di diverso in lui. Piccoli segnali che avevo ignorato: il modo in cui stringeva il bicchiere un po’ troppo forte quando parlavo di Regina, o come i suoi sorrisi si trasformavano in smorfie quando dicevo che dovevo tornare a casa. Ma quella sera, quando gli dissi che non potevo essere solo sua, il suo volto cambiò. La calma che aveva sempre ostentato si frantumò, sostituita da un’ira che mi fece gelare. I suoi occhi, che un tempo mi sembravano caldi come il caffè, ora bruciavano di una furia possessiva. “Tu non capisci quanto ti amo, cazzo!” Gridò, alzandosi di scatto. Ogni parola era un’accusa, come se il mio rifiuto fosse un tradimento imperdonabile. Quando mi strinse i fianchi con forza, sentii per la prima volta non il desiderio, ma la paura. Era come se il Flavio che conoscevo fosse sparito, lasciando spazio a un uomo che non riconoscevo più.

“Tu non capisci quanto il io amore sia assoluto!” Gridò come se fossi io la colpevole per aver acceso in lui quel fuoco. Si avvicinò, troppo vicino, mi strinse forte il seno e il dolore fu immediato, lancinante. “Flavio, mi fai male!” Lo implorai, ma la mia voce sembrava non raggiungerlo. Poi, senza preavviso, la sua mano si alzò e mi colpì in viso con uno schiaffo secco, deciso, che mi fece barcollare. “Forse non hai ancora capito che sei mia!” Ruggì, la voce carica di una possessività che mi gelò il sangue. Il bruciore sulla guancia era nulla rispetto al tumulto che mi esplose dentro. Paura, e rabbia si mescolarono, ma fu la chiarezza a prevalere. Non ero un oggetto, non ero una preda. Con le mani che tremavano, mi avvicinai allo specchio, controllando il mio viso, pregando che non ci fosse un segno visibile. Non dissi nulla. Raccolsi le mie cose, il cuore che batteva all’impazzata, e mi voltai verso di lui. “Flavio, è finita. Fattene una ragione.” Non aspettai la sua risposta. Uscii dalla stanza, lasciando la porta sbattere alle mie spalle, un suono che sanciva la fine di qualcosa che non avrei mai dovuto permettere.

Da quella sera lui iniziò a tempestarmi di messaggi sia al telefono aziendale che in quello personale. Alternava frasi dolci a vere, richieste d’amore disperato e proprie accuse. Mi mandava cuori infranti, frasi prese da poesie di Neruda, ma nel contempo mi accusava di essere un’ingrata, di essermi presa gioco di lui e che lo avevo usato e poi buttato via quando mi ero stancata di giocare. Percepivo quanto quel mio rifiuto lo avesse reso instabile e allora decisi di non rispondere nella speranza che si fosse calmato.

Poi però arrivarono le minacce. Non da lui direttamente, ma messaggi anonimi sul telefono aziendale: “Attenta a quello che fai”, “Qualcuno sa tutto”. Mi sentivo osservata, vulnerabile. Ogni volta che entravo in ufficio, mi sembrava che tutti sapessero, che mi giudicassero. Una sera, dopo l’ennesimo messaggio anonimo, lo affrontai. Eravamo nel parcheggio dell’azienda, al buio, lontani dalle telecamere. “Flavio, dimmi la verità. Sei tu? Sei tu che mi stai minacciando?” Lui spalancò gli occhi, come se lo avessi schiaffeggiato. “Cosa? Lavinia, sei seria? Perché dovrei fare una cosa del genere?” “Non lo so! Ma questi messaggi… qualcuno sa di noi. E se non sei tu, chi è?” “Calmati, okay? Non sono io. Forse è solo uno scherzo, o qualcuno che vuole spaventarti. Ma non sono io, te lo giuro.”

Ormai non gli credevo più. Lui tentò di nuovo un approccio dicendomi che non mi avrebbe mai dimenticata accusandomi di nuovo di averlo deluso e addirittura minacciando che si sarebbe suicidato. Tentò anche di baciarmi, lì, davanti a tutti! E fu lì che pensai quanto fosse fuori di testa e quindi ebbi la conferma di chi fosse il mittente di quei messaggi.

Quella notte, tornando a casa, mi guardai allo specchio e non riconobbi la donna che mi fissava. Avevo le occhiaie, i capelli disordinati, il peso della colpa che mi schiacciava e soprattutto il terrore che quella situazione mi potesse sfuggire di mano. Cosa avrei detto a mio marito? Mi sentivo sbagliata, sporca. Io, una madre, una moglie, avevo lasciato che tutto questo accadesse. Mi ero concessa a lui decine di volte in uno squallido motel ed avevo permesso che mi legasse, bendasse e considerasse il mio corpo un mero oggetto di desiderio di sua proprietà. Avevo indossato gonne corte, tacchi alti, la lingerie da sogno che avevo comprato solo per lui ed avevo riso alle sue battute, accettato i suoi complimenti, il suo amore rude e maschio. Lo avevo invogliato, no? Era colpa mia.

Decisa a chiudere definitivamente quella storia, cancellai i suoi messaggi sul telefono personale, cambiai il numero del telefono aziendale. Ma la colpa non se ne andava. Ogni volta che guardavo Regina, con i suoi occhi grandi e innocenti, sentivo un nodo allo stomaco. Ogni volta che Renzo mi sfiorava, mi ritraevo, come se non meritassi il suo tocco. E se lui avesse saputo? E se mi avesse chiesto il divorzio per infedeltà e l’affidamento di Regina? Vivevo nel terrore!

Passai giorni di inferno e una mattina, alzandomi all’alba, lasciai la macchina nel solito parcheggio dell’ufficio, l’aria era fresca e il silenzio del piazzale era rotto solo dal rumore dei miei tacchi sull’asfalto. Volevo essere nuova, bella, ma non per lui! Mentre percorrevo il vialetto alzai lo sguardo verso l’ingresso e il cuore mi si fermò. Sul muro in bella vista c’era una scritta tracciata con una vernice rossa. “Lavinia per sempre”. Mi avvicinai, il respiro corto, e passai un dito sul muro. Era appiccicoso, metallico. Sangue. Mi ritrassi, lo stomaco che si contorceva. La scritta era fresca per cui sperai che nessuno l’avesse ancora notata. Chiamai un inserviente della ditta esterna e gli chiesi di pulire immediatamente.

Era lui. Lo sapevo. Non avevo bisogno di prove. Ormai era diventato un’ombra, un predatore. La storia delle minacce da parte di un anonimo non aveva funzionato e allora si era mosso in prima persona. Oltre a quella scritta iniziarono ad arrivare tempeste di messaggi insistenti. “Perché non rispondi, Lavinia? Ho bisogno di te.” Poi sono diventati più cupi. “Non puoi lasciarmi. Non lo accetto.” Per il timore che mio marito vedesse bloccai il suo numero, ma lui ne iniziò ad usare altri. Appena arrivavo a casa spegnavo il telefono e ogni mattina mi ritrovavo con cento telefonate. Cominciai a pensare ad un suo licenziamento. Ma cosa sarebbe successo?

Lui continuava anche sull’email aziendale: “Ti taglio le mani, Lavinia. Ti brucio viva. Non sarai di nessun altro.” Provavo a convincermi che fosse solo rabbia, che presto sarebbe passato. Ma poi arrivarono bigliettini infilati sotto la porta dell’ufficio, con frasi come: “Sei mia, sempre” o “Non puoi scappare”. Ogni volta che li trovavo, il terrore mi stringeva la gola. Sapevo di essere sull’orlo di un tracollo fisico ed emotivo.

Una sera, mentre parcheggiavo la macchina, lo vidi sotto casa mia. Era lì, appoggiato al muro, con una sigaretta tra le labbra e uno sguardo che mi fece gelare il sangue. Scesi dall’auto, il fiato corto. “Flavio, vattene!” Dissi, cercando di mantenere la voce ferma. “È finita. Fattene una ragione! Non voglio più vederti.” Si avvicinò. “Finita? Non decidi tu quando finisce.” La sua voce era bassa, minacciosa. “Tu sei mia. Lo sai.” “Lasciami in pace!” Gridai, indietreggiando verso il portone. Ma lui fu più veloce. Mi afferrò per un braccio, il suo respiro minaccioso sul mio viso. “Non urlare, o sarà peggio.” Mi spinse contro il muro, le sue mani che cercavano di strapparmi il cappotto. Mi divincolai colpendolo e corsi dentro, chiudendo il portone alle mie spalle. Sentii i suoi pugni contro il legno, le sue urla. “Tornerò, Lavinia! Non finisce qui!” Per fortuna mio marito era con Regina da sua madre. Rimasi seduta in cucina. Mi dissi che era giunta l’ora di reagire. Vagliai l’ipotesi di una denuncia alla polizia. Ma poi non lo feci sperando che la volta dopo non fosse stato troppo tardi.

La mattina dopo trovai la mia macchina distrutta: i finestrini rotti, le gomme tagliate, la vernice graffiata con una chiave. Sul parabrezza, un altro biglietto: “Non mi sfuggi”. La mia vita orami era un vero incubo. Decisi di prendermi un mese di ferie e non uscii più di casa se non con mio marito. A lui inventai una specie di depressione, che mi sentivo stanca e priva di forze. Quando uscivo mi guardavo le spalle, ogni ombra, ogni passo dietro di me, mi faceva sobbalzare. Avevo smesso di indossare gonne corte, tacchi alti, trucco. Volevo essere invisibile e anonima. Alla fine presi tutto il coraggio a mia disposizione e parlai di Flavio a mio marito edulcorando la storia e dicendo della sua ossessione, senza approfondire i dettagli, ma poi di fronte alle insistenze di Renzo ammisi che c’era stato qualcosa. Il suo viso si irrigidì. Non urlò, non mi fece una scenata, ma i suoi occhi si velarono di un dolore che non aveva bisogno di parole.

“Perché non me l’hai detto prima?” Chiese, la voce bassa, come se stesse cercando di tenere insieme i pezzi di qualcosa che si era rotto. Gli spiegai delle minacce, che avrei voluto difendere la sua tranquillità e quella di nostra figlia, ma non ebbi il coraggio di confessare tutto: le corde, le bende, il sesso rude, l’abbandono totale. “Ti proteggerò.” Disse infine Renzo, posando una mano sulla mia, ma il suo tocco era freddo, distante. Non era rabbia, ma una ferita che sapevo non si sarebbe rimarginata facilmente. Mi promise che avrebbe accompagnato Regina ovunque, che non mi avrebbe lasciata sola, ma ogni sua parola era un promemoria del mio tradimento. Mi guardava come se fossi un’estranea, e io non potevo biasimarlo. Le minacce continuarono sempre più insistenti e alla fine sotto pressione di mio marito lo denunciai alla polizia fornendo tutti gli elementi in mio possesso.


******

Ora sono passati circa tre mesi da quando Flavio è stato fermato e poi rilasciato con il divieto di avvicinarmi e l’aggiunta di un percorso di rieducazione che suona come una beffa. Come se qualche ora di terapia potesse spegnere il fuoco ossessivo che lo consuma.

Lui è libero mentre io qui sono prigioniera. Ogni sera, tornando a casa, controllo i muri, il portone, il vialetto. Ogni scricchiolio mi fa pensare che sia lui, nascosto nell’ombra, pronto a mantenere le sue promesse. Ieri sera, mentre mettevo Regina a letto, lei mi ha guardato con quei suoi occhi grandi e ha chiesto: «Mamma, perché hai paura?» Non ho saputo risponderle e l’ho solo abbracciata forte. Renzo non sa tutto, non ancora. Non riesco a dirgli tutta la verità, ossia che mi sono abbandonata a Flavio totalmente perché cercavo un uomo diverso da lui, che l’amore con Flavio era sublime perché mi faceva sentire importante! No, no non gliel’ho detto. Ogni tanto ripenso ai suoi primi messaggi, quelli di quando tutto sembrava innocente. “Sei bellissima, Lavinia. Sei una stella e non smettere mai di brillare.” Ma io non brillo più. Sono un’ombra, intrappolata in una storia che non avrei mai dovuto iniziare. E mentre scruto le ombre che passano in strada dalla finestra, con il telefono che vibra per l’ennesima chiamata da un numero sconosciuto, mi chiedo se troverò mai la forza di spezzare questa catena. O se, come ha promesso lui, sarà troppo tardi.

Credevo che con la denuncia sarebbe finito tutto, che avrei potuto finalmente respirare, liberarmi da questa prigione invisibile. E invece no. Lui non si è fermato. Migliaia di chiamate, messaggi che mi colpiscono come pugnalate: “Non è finita, Lavinia. Non finirà mai.” Ho perso il conto di quante volte ho bloccato i suoi numeri, di quante volte ho cambiato il mio. Ma lui trova sempre un modo per raggiungermi, come un’ombra che si infiltra nelle crepe della mia vita.

Annoto ogni messaggio, archivio ogni minaccia, denuncio tutto alla polizia, ma è come urlare nel vuoto. A che serve? Due giorni fa, un’altra minaccia: “Tornerò da te… Lo sai che tornerò.” E lo ha fatto. Gli agenti lo hanno fermato a pochi passi da casa mia, nascosto nell’oscurità, con quello sguardo che mi perseguita nei sogni. Lo hanno fermato di nuovo, ma so che non durerà. È una danza infinita, un incubo che si ripete. Non c’è nulla che lo fermi, lo sento nelle ossa.

La società mi ha voltato le spalle, come se fossi io la colpevole, come se meritassi questo inferno per essermi lasciata travolgere da un errore. Mi sento sporca, sbagliata, come se fossi io la criminale. Il mio corpo è un’ombra di ciò che era: sono dimagrita, svuotata, fragile come carta velina. L’ansia mi serra lo stomaco, mi ruba il sonno, mi spezza. Non sono più la donna che guidava un’azienda con mano ferma, che affrontava il mondo con sicurezza. Sono solo un riflesso, una sopravvissuta che si aggrappa a brandelli di speranza, chiedendosi se valga ancora la pena lottare.
Non sono più la madre che rideva con Regina, sono solo una sopravvissuta, e a volte mi chiedo se valga la pena continuare a combattere. Evito i giardini dove portavo Regina a giocare, evito persino di guardare fuori dalla finestra, perché so che potrebbe essere lì, con quel sorriso che è più di una minaccia.

Oggi, mentre scrivo queste parole, sono seduta in cucina, con le tende tirate giù e la porta chiusa a chiave. Regina dorme, Renzo è al lavoro, ignaro di quanto sia profondo il baratro in cui sono caduta. Ho provato di nuovo a parlargli, a confessare, ma ogni volta le parole mi si bloccano in gola. Lui non se la merita una donna come me. Come posso dirgli che mi odio per aver creduto a un’illusione?

Ho preso consapevolezza, con fatica, che sono io la vittima. Non è stato facile. Per mesi ho pensato che fosse colpa mia, che avessi meritato tutto questo per aver indossato una gonna troppo corta, i tacchi troppo alti, per aver riso alle sue battute, per aver voluto sentirmi desiderata. Ma ora lo so: non è stata la mia gonna a scatenare la sua follia. Non è stato il mio sorriso. È lui. È sempre stato lui. La sua malattia di predatore. Mi dico che sarebbe comunque successo, anche con i tacchi bassi, anche con una gonna lunga.

La mia storia non ha una conclusione. Forse non l’avrà mai. Ma oggi ho fatto una promessa a me stessa: non smetterò di combattere. Per Regina, per Renzo, per la donna che ero e che voglio tornare a essere. Ho contattato un’associazione che aiuta le vittime di stalking, ho parlato con alcune di loro, ho assunto un nuovo avvocato, sto cercando di ricostruire i pezzi di me che Flavio ha cercato di distruggere. Non so se ci riuscirò, non so se un giorno potrò camminare per strada senza guardarmi le spalle. Ma so che non gli permetterò di vincere.

Mentre spengo la luce e mi preparo per un’altra notte insonne, ripenso a quel primo messaggio, a quel “Buongiorno, oggi sei radiosa”. Vorrei tornare indietro, cancellarlo, cancellare tutto. Ma non posso. Posso solo andare avanti, un passo alla volta, anche se il terrore mi accompagna. Perché, nonostante tutto, sono ancora qui. E questo, per ora, è abbastanza.






Questo racconto pur basato su fatti
di cronaca ricorrenti è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e
qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.

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