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Adamo Bencivenga
IL PARADISO TRA LE
TETTE DI STORYVILLE
Mi chiamo Elias Hawthorne, ho
32 anni e sono un capomastro edile qui a New
Orleans. Una sera d'autunno del 1908 entrai in un
locale. Ero stanco morto, ma con 50 centesimi avevo
in tasca la mia felicità e la vidi lì dietro il
bancone con due occhi verdi come il Mississippi

Mi chiamo Elias Hawthorne,
ho 32 anni e sono un capomastro edile qui a New Orleans.
Per il lavoro che faccio ho con le mani callose e il
sudore che mi bagna la camicia ogni santo giorno. Nel
1905, quando tutto è iniziato a ribollire in questa
città umida e peccaminosa, mi sono trasferito dal Nord,
da Chicago, inseguendo un grosso contratto: la
costruzione di cribs per i poveri e di ville di lusso
per i ricchi, le famose case di Storyville, il Distretto
che il sindaco Sidney Story ha tirato su per racchiudere
il vizio in un bel pacchetto ordinato, tra Iberville,
Basin Street, St. Louis e N. Robertson.
"Limita
la prostituzione, la controlla e la regola" Dicevano le
ordinanze comunali. A me non interessava un fico secco,
io volevo solo guadagnare tanti dollari per stare
tranquillo. E allora martellavo chiodi e tiravo su muri.
Del resto mi pagavano bene: 20 centesimi l'ora e i soldi
fioccavano come il jazz lungo le strade. Ero lì per
quello, per il pane in tavola e per una vita migliore
per la mia famiglia lontana. Storyville mi chiamava
come una sirena. Dopo una giornata a impilare mattoni
sotto il sole della Louisiana, con la polvere che ti
entra nei polmoni e il rumore dei martelli che ti ronza
in testa, finivo le mie serate sempre al Distretto. Era
legale, trasparente, un paradiso per tipi come me: 2.000
ragazze, 38 bordelli, musica ovunque – nei bar, nelle
strade, nei locali. Lungo il tragitto prendevo una di
quelle Blue Book, le guide azzurre con il motto "Honi
soit qui mal y pense!", e sfogliavo i nomi: prostitute
in ordine alfabetico, vergini a 200 dollari per la
deflorazione, bar e club per tutti i gusti. Bordelli per
bianchi, separati da quelli per neri. Per me, bianche o
nere, non facevano differenza, io cercavo la dolcezza.
Ero solo in quel posto e più che un bel culo cercavo due
occhi profondi e due tette materne per farmi sentire a
casa e dimenticare che ero solo un emigrante.
Una sera d'autunno del 1908, dopo aver finito di
innalzare un muro al 172 di Customhouse Street, quel
palazzo di lusso di Josie Arlington, la regina del
Distretto, che da puttanella povera era diventata la
donna più potente d'America, entrai barcollando in un
locale economico. Ero stanco morto, ma con 50 centesimi
avevo in tasca la mia felicità. L'aria era densa di
fumo, jazz che esplodeva da una band di neri in un
angolo, e donne in sete impalpabili, giarrettiere alla
moda, calze a rete e boa piumati che lasciavano
intravedere curve opulente e una notte da sogno.
"Ehi, forestiero." Miagolò una voce dal bancone. Mi
voltai: Clara Beaumont, 22 anni, occhi verdi come il
Mississippi all'alba, capelli neri sciolti su spalle
pallide, un sorriso che ti scioglieva le ginocchia. La
vidi e Dio mio, da quel momento non sono riuscito a
staccare gli occhi da quelle tette! Spiccavano come due
meloni maturi sotto la seta impalpabile del suo
corpetto, un tessuto francese tremendamente audace,
slacciato quel tanto che bastava per lasciare
intravedere la curva piena, pallida come crema fresca,
con l'orlo di pizzo che sfiorava il rosa dei suoi
capezzoli.
Si muoveva dietro il bancone da
esperta seduttrice, e ogni respiro lento e magnetico le
gonfiava il seno. Ogni onda mi inchiodava lì, con la
bocca asciutta e il cuore che martellava più forte del
mio trapano sul muro di Josie Arlington quel pomeriggio.
Non era una delle vergini da Blue Book, quelle innocenti
a 200 dollari per una deflorazione con fanfara, profumi
francesi alla violetta e lenzuola candide. Clara era una
delle dieci o dodici ragazze sempre pronte, quelle che
conoscevano ogni trucco del mestiere: a 5 dollari per
una notte intera, ma anche per un'ora nel retrobottega,
dove sarebbero bastati i miei 50 centesimi.
"Ti
piacciono, eh?" Ridacchiò lei, chinandosi un po' di più
sul bancone, e quel movimento – santo cielo! – fece
affiorare di più la carne morbida, un solco profondo tra
loro che invitava il mio sguardo come Basin Street
chiama i marinai. Profumava di gelsomino rubato e
whiskey versato, con un velo di sudore che le imperlava
la pelle, facendola luccicare sotto la lampada a gas.
Io, Elias, capomastro con le mani nere di pece e i sogni
di Chicago ancora negli occhi, balbettai qualcosa di
stupido: "Sono... come il jazz, perfette…" Lei rise, una
risata che vibrò attraverso quel décolleté, facendole
sobbalzare di nuovo. "Bevi, forestiero, e poi dimmi se
hai ancora voglia. Per 50 centesimi puoi toccarle per
un’ora intera."
E tra un bicchiere di whiskey e
l’altro che versava ai clienti mi chiese: "Perché un
capomastro come te viene in un buco come questo?" Le
raccontai tutto: il viaggio da Chicago, i muri che
tiravo su per racchiudere il peccato, la solitudine che
mi mangiava vivo. Lei rise, una risata cristallina sopra
il sax melodioso. "Io sono qui da due anni. Mia madre
era una lavandaia, ma Storyville paga meglio. Niente
illusioni: entro e esco, con la musica e i clienti che
puzzano di lavoro e di soldi." Parlammo ancora, del
jazz che sua sorella suonava nei cabaret di Louis
Armstrong, di suo padre che era stato il suo primo uomo
e di sua madre che aveva smesso di fare la lavandaia e
le aveva insegnato il mestiere. Ma io continuavo a
guardarla, era un sogno. Lei se ne accorse e mi disse:
“Guarda che non sono la sola ad avere le tette belle,
anzi fatti un giro e se non trovi di meglio sarò tua per
un’ora.” Indicò con il dito la porta sul retro, dove le
altre ragazze sciamavano come api in un alveare di seta
e piume: curve che ondeggiavano, reggicalze che
impreziosivano il centro dei loro piaceri sempre
disponibili, risate che si mescolavano al fumo e al
lamento di un trombone.
Ma io con la gola secca e
i 50 centesimi in tasca, scossi la testa, incapace di
muovermi da lei. Non avevo bisogno di fare confronti:
lei era l'assoluto, il paradiso incarnato in quelle
tette che mi chiamavano come il richiamo del jazz nelle
strade di Storyville. "No, Clara." Le risposi, la voce
rauca come ghiaia del Mississippi, afferrandole la mano
e portandomela al petto. "Tu sei l'assoluto. Il
paradiso. Non c'è rossa, mulatta o vergine che tenga, le
altre sono note stonate in questa sinfonia. Le tue tette
sono il sole della Louisiana, morbide e bollenti, fatte
per le mie mani callose. Non mi serve un giro: voglio
te, ora... e per tutte le ore che verranno." Le parole
mi uscirono di getto, sincere come il sudore che mi
colava dalla fronte, e lei arrossì – sì, arrossì! – quel
rossore che le scese dal collo fino alla sommità rosea
dei capezzoli, facendoli inturgidire ancora di più sotto
i miei occhi affamati.
Mi tirò a sé con un gemito
soffocato, le sue labbra sulle mie, morbide come il
gelsomino, e le mie mani – finalmente! – si chiusero su
quel paradiso: pelle calda, vellutata, che si adattava
alle mie dita come argilla sotto il pollice del vasaio.
Le strizzai piano, sentendo il peso perfetto, i
capezzoli duri che premevano contro i palmi, e lei
inarcò la schiena con un sospiro che sovrastò il jazz.
"Allora prendimi, Elias." Sussurrò, guidandomi nel
retrobottega. Obbedii slacciandole il corpetto e
liberando quelle tette da sogno coi capezzoli duri come
perle di fiume. Impaziente non persi tempo e le mie
labbra si chiusero su di loro, succhiando avido come un
assetato. Prima il sinistro con la mia lingua che
roteava intorno all'areola e tirando piano con i denti
finché lei inarcò la schiena con un urlo soffocato che
sovrastò il clarinetto dal bar: "Sì, Elias, succhia il
mio paradiso!" Poi il destro, più profondo, la bocca
piena che la inghiottiva intera.
Lei gemette, le
unghie laccate che mi graffiavano la schiena, lasciando
solchi rossi come binari di treno del Nord, mentre le
sue mani scendevano a slacciarmi i pantaloni, liberando
il mio cazzo venoso, gonfio per lei, che s’indurì contro
il suo ventre nudo come una promessa. Le nostre lingue
duellarono: la sua, dolce come whiskey e miele, la mia,
ruvida di polvere e desiderio. "Sei mio." Ringhiò lei e
io risposi spingendo la lingua più a fondo, in gola,
mentre le mie dita esploravano più giù: fianchi larghi
come sponde di fiume, il suo sesso bagnato e rovente, le
labbra gonfie che pulsavano sotto le mie mani. Scivolai
dentro quell’umido con le mie dita croccanti di malta,
facendola cavalcare sulla mia mano.
Quando la
sentii pronta, la sollevai per le natiche sode con le
gambe avvinghiate alla mia vita come edera su un
palazzo. La penetrai, un colpo profondo, fino in fondo
con il suo calore che mi avvolgeva come seta bollente. I
corpi si fusero al ritmo del Delta, nudi e selvaggi
contro quel muro: "Più forte, capomastro!" Gridò lei con
le tette che rimbalzavano contro il mio petto emettendo
un suono umido e peccaminoso, mentre io la sbattevo
contro il legno al ritmo del trombone che ululava dal
bar. E mentre lei si contraeva, io la riempivo del mio
piacere, spingendo più a fondo con le sue pareti che mi
mungevano come una marea e il solco delle sue meraviglie
che ballava sotto i miei occhi.
Venimmo insieme
e fu un'esplosione di seme e succo che inondò i nostri
corpi tremanti con le lingue ancora duellanti in un
bacio esausto. Crollammo l'uno sull'altra, ansimanti.
"Sei un uragano, Elias." Sussurrò lei con le tette
premute sul mio cuore. Poi tutto silenzio, increduli ci
guardammo intensamente, non avevamo fatto sesso, ma
l’amore! Le diedi i miei 50 centesimi e le promisi:
"Tornerò, Clara, tornerò per te."
Tornai ogni
sera per settimane portandole i fiori rubati dai
giardini del Quartiere Francese. Tornai per lei, per
Clara Beaumont, la mia ossessione con gli occhi verdi
come il Mississippi e non solo per quelle tette da sogno
che mi avevano inchiodato al bancone la prima sera.
Arrivavo barcollando e le porgevo i fiori: "Per te, mia
assoluta!" E lei li intrecciava nei capelli neri
sciolti, ridendo piano mentre il corpetto slacciato
lasciava intravedere quel paradiso che ormai conoscevo a
memoria.
Le raccontavo storie dei treni del
Nord. "Sai, Clara, a Chicago i convogli fischiano tutta
la notte, carichi di carbone e sogni." Mentre
accarezzavo le sue dita morbide. Alle volte pensavo
stupito come avessero fatto a mantenere tutta quella
delicatezza nonostante il mestiere e i tanti maschi che
lei stringeva ed appagava prima e dopo di me. Lei dopo
l’amore si rannicchiava, la testa sul mio petto e mi
rispondeva: "Sei il mio treno, Elias, e io la stazione
dove fermarti per sempre."
Una notte
dell’inverno del 1908 mi disse: “Non serve che mi paghi.
Per me questo con te non è più lavoro.” Capii in
quell'istante che la ragazza di Storyville che aveva
visto mille e più uomini si stava innamorando di me ed
io toccai il cielo con un dito. La strinsi forte, le mie
mani ruvide contro la sua seta, e sussurrai: "Allora sei
mia, Clara. Non per un'ora, ma per sempre." Quella sera
ci amammo più intensamente e fu un amore diverso dalle
altre volte mentre la pioggia fuori ci bagnava l'anima.
La sera stessa mi disse: "Se mi sposi Elias lascio
questo inferno." Nel 1910, con Storyville che
brulicava di sesso e jazz, prima che la guerra ci
rovinasse tutto, la sposai in una chiesetta di Basin
Street, con una band che suonava "When the Saints Go
Marching In". Lei smise di fare il mestiere e Josie
Arlington in persona, invitata al matrimonio, quando ci
vide fuori la chiesa, mi strizzò l'occhio e disse:
"Quella lì vale più di 200 vergini, capomastro.”
Clara divenne mia moglie, mia compagna. Io continuai
ad alzare muri per nuovi bordelli e lei aprì una piccola
pensione con i nostri risparmi. Lasciammo il Distretto
nel 1916, prima della chiusura del '17 e ci trasferimmo
a Chicago.
******
Oggi, a 50 anni, siedo
sulla veranda della nostra casa di mattoni, una tazza di
caffè amaro in mano, e guardo i nostri quattro figli.
Clara è ancora il mio sogno. Guardo loro, i nostri
frutti, e penso: Storyville mi ha dato lavoro e
benessere, muri tirati su 20 centesimi l'ora che mi
hanno portato qui. Ma Clara mi ha dato una vita vera.
Che pensino male i bigotti: io ho trovato il mio
paradiso rubando fiori... Ogni notte, contro il muro
della nostra camera, riviviamo quel Delta: lingue che
duellano, labbra che succhiano, corpi che fondono.
Storyville è polvere demolita negli anni '30, mentre il
nostro amore è ancora qui. "Honi soit qui mal y pense?”
No, io penso solo bene di lei, della mia Clara. "Sì
vabbè, ho sposato una puttana, ma con un cuore grande
come il cielo di Storyville!”
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Questo racconto è opera di pura
fantasia. Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e qualsiasi
somiglianza con fatti, scenari e persone è del
tutto casuale.
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