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MUSICA PASSIONE

LUCIO BATTISTI
A portata di mano
Il brano è inserito nell’Lp L'apparenza, il 17º
album discografico di Lucio Battisti, pubblicato il
7 ottobre 1988 dall'etichetta discografica Numero
Uno....

È il 1987, Battisti ha
44 anni e vive come un eremita in Brianza, tra
sintetizzatori giapponesi e scatoloni di vinili mai
aperti. Dopo Don Giovanni, che ha venduto 350.000 copie
pur cantando frasi ermetiche, si mette all’opera e
registra in casa ” nel suo studio privato di Molteno
“L’apparenza, senza orchestra, senza session man: solo
lui, un tecnico del suono (Greg Walsh, inglese, reduce
dai Talk Talk) e Pasquale Panella che arriva con fogli
pieni di scarabocchi. Immagina di entrare in una
cucina deserta, la luce fredda di un neon che batte su
una credenza disegnata da un bambino cresciuto male: è
questa l’apparenza, il secondo atto di Battisti con
Panella, e “A portata di mano” è il suo battesimo
domestico, il primo respiro dopo il diluvio di Don
Giovanni. Il brano nasce in una notte di novembre,
mentre fuori piove a dirotto. Battisti ha appena
comprato una credenza bianca – la monta male, la smonta,
la disegna sulla copertina. Panella osserva e scrive:
«tutto il tempo è vicino / a portata di mano». Il brano
è il primo singolo, unico estratto, mandato in radio il
30 settembre del 1988. Nessun video, nessuna intervista.
Solo una foto di Battisti con occhiali da sole in
cucina. Eppure il disco sfonda, entra in classifica al
12 e poi piano verso il primo posto dove rimarrà per tre
settimane.
Il contesto è l’Italia del sorpasso:
Craxi, Milano da bere, yuppies con il telefono in
macchina. Battisti risponde con una canzone su una
credenza. È il suo modo di dire: il tempo non è vostro,
è mio, e lo metto in un ripiano. Il 7 ottobre esce
l’album. Copertina bianca, disegno infantile. Dentro,
otto tracce che sembrano arredamento mentale. «A portata
di mano» apre il lato A, come un mobile che si apre sul
nulla. Battisti non la suonerà mai dal vivo. Ma per
anni, in migliaia di case italiane, qualcuno aprirà la
credenza cercando il caffè e penserà: abbiamo tempo.
Solo che il tempo, in realtà, era già finito. Il
brano non comincia, gocciola. Una tastiera liquida, come
caffè versato su un piano di formica, accompagna la voce
di Battisti che non canta, sussurra un inventario:
vasetti, liquidi diluiti, ripiani, pensili, euforia da
giardino. È la casa come metafora del tempo: tutto è
vicino, tutto è a portata di mano, ma appena lo tocchi
si dissolve. Panella non scrive strofe, costruisce
mobili con le parole: “pianti rampicanti”, “anta che si
spalanca”, “scala che nel muro si avvita”. È
un’architettura verbale che sale a perpendicolo, umida
di acciughe e di assenza, dove il “contrario” di
“abbiamo tempo” è la consapevolezza che il tempo ci ha
già lasciati.
E poi, l’aroma di caffè. Non è un
finale romantico: è il profumo di una routine che non
esiste più, di un gesto quotidiano che Battisti non
compirà mai sul palco (non tornerà più live). Il synth
si spegne piano, come una lampadina che si brucia, e
resti lì, con la mano tesa verso un ripiano vuoto. A
portata di mano non è una canzone: è un mobile di Ikea
che si smonta da solo, un’illusione di solidità che si
rivela liquida. Nel 1988, mentre l’Italia ballava con
Sabrina Salerno, Battisti disegnava credenze bianche e
cantava il vuoto. E vendette comunque 17 settimane in
top ten. Perché anche quando non capisci, senti che
qualcosa manca. E quel qualcosa ha l’aroma di caffè.
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ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
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IMMAGINE GENERATA DA IA


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