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GASLIGHTING
Storia di Ordinaria Follia
Leggendo il nostro articolo sulla manipolazione psicologica
https://www.liberaeva.com/2022/amarsi/Gaslighting/gas.htm una
lettrice, vittima di questa tecnica subdola, ci scrive qualche riga
sufficiente a imbastire una storia. (I nomi utilizzati sono di
fantasia)...

«Mi chiamo Sonia, e
questa è la mia storia. Non so nemmeno da dove
cominciare, perché a volte mi sembra che la mia mente
sia un puzzle con pezzi mancanti, pezzi che qualcuno ha
nascosto di proposito. Quel qualcuno è Pietro, l’uomo
che credevo fosse il mio porto sicuro, ma che invece ha
trasformato la mia vita in un labirinto di dubbi e
paure.
Ci siamo conosciuti nel Febbraio del 2014,
il caso ha voluto che capitassimo nello stesso ufficio.
Lui al tempo era divorziato, mentre io ero una single
con qualche fallimento sentimentale alle spalle. Siamo
usciti varie volte insieme, gite turistiche e cene
romantiche, lui era più grande di me, quasi 15 anni, ma
non sentivo affatto quella differenza. All’inizio,
Pietro era tutto ciò che potevo desiderare. Affettuoso,
attento, con quel sorriso che sembrava accendere ogni
angolo della nostra casa e del mio cuore. Mi ascoltava,
mi faceva sentire importante e una donna speciale, come
se fossi l’unica persona al mondo che contasse.
Mi ripeteva: "Sonia, sei la luce che illumina ogni mia
giornata, un'anima unica e preziosa che rende il mondo
più bello solo con la tua presenza. Non c'è nulla che
desideri di più che vederti brillare, perché tu sei il
cuore di tutto ciò che conta per me." E poi: “Ma dove ti
sei nascosta in questi anni? Più ti frequento e più mi
sembra di averti sempre conosciuta!” Felice per
quell’attenzione alla fine ho ceduto, ho venduto la mia
casa e sono andata a vivere da lui. Abbiamo vissuto
due anni interi meravigliosi, lui, avendo avuto già
un’esperienza di matrimonio, mi guidava ed io mi sentivo
protetta e felice. Non passava giorno che non mi faceva
regali, inviti a teatro o cene in splendidi ristoranti
ed io alle volte mi chiedevo: “Sarà un sogno?”
E
infatti col tempo mi sono accorta che qualcosa stava
cambiando. Non so nemmeno dire quando sia iniziato,
perché è stato così graduale e subdolo, ma ricordo la
sua reticenza quando gli chiedevo il motivo della fine
del suo matrimonio.
Ricordo la prima volta che
ho notato qualcosa di strano. Eravamo a casa, e la luce
del soggiorno sembrava più fioca del solito. L’ho detto
a Pietro, quasi scherzando: “Ehi, le lampadine si stanno
spegnendo o sono i miei occhi?”. Lui ha riso, ma c’era
qualcosa di tagliente nel suo tono quando ha risposto:
“Sonia, sei sempre così drammatica. La luce è normale,
sei tu che vedi cose che non esistono”. Mi sono sentita
sciocca, ma ho lasciato correre. Forse aveva ragione
lui.
Ma poi è successo di nuovo. Piccole cose,
all’inizio. Lasciavo le chiavi sul tavolo, e quando
tornavo non c’erano più. “Le hai messe da qualche parte
e te ne sei dimenticata, come al solito.” Mi diceva, con
quel tono paziente che però mi faceva sentire
inadeguata. “Hai proprio una cattiva memoria!” Io
ridevo, cercavo di scherzarci sopra, mi davo
immediatamente della stupida, ma poi ripensandoci dentro
di me cominciavo a dubitare. Possibile che fossi così
distratta? Possibile che ricordassi male? Possibile che
stessi invecchiando così precocemente?
Le sue
parole però erano come gocce di pioggia che cadevano una
dopo l’altra, lente, ma inesorabili. “Non ho mai detto
quella cosa, te la sei inventata. Stai reagendo in modo
esagerato, calmati”. Oppure: “Secondo me hai bisogno di
aiuto, Anna, dici cose strane”. Ogni volta che cercavo
di difendermi, di dire che ero sicura di quello che
avevo visto o sentito, lui mi guardava con
quell’espressione paternale di finta preoccupazione,
come se fossi fragile, instabile. “Stai bene? Sembri
confusa”. E io, piano piano, cominciavo a credergli.
C’era qualcosa nei suoi silenzi che mi feriva ancora
di più delle parole. Se cercavo di affrontare un
problema, di parlargli di come mi sentivo, si chiudeva o
mi guardava con aria di sufficienza. Era come se io non
esistessi. Poi, quando decideva lui, tornava a essere
affettuoso, e io mi sentivo così sollevata, così grata,
che dimenticavo tutto il resto. Mi aggrappavo a quei
momenti, come se fossero la prova che mi sbagliavo, che
lui mi amava davvero.
Ma quei momenti diventavano
sempre più rari. Più dubitavo di me stessa, più lui
sembrava prendere il controllo. Decideva cosa dovevo
pensare, cosa dovevo sentire, come dovevo vestirmi. Se
provavo a contraddirlo, mi diceva che ero paranoica, che
stavo immaginando cose. “Non essere ridicola, non l’ho
mai detto”. E io, esausta, iniziavo a chiedermi se fosse
vero. Forse ero io il problema. Forse stavo davvero
perdendo la testa.
Mi guardavo allo specchio e
non riconoscevo più la persona che vedevo. Ero sempre
stata sicura di me, indipendente, ma ora mi sentivo
piccola, sbagliata. Mi scusavo per cose che non avevo
fatto. Cercavo la sua approvazione in tutto, anche nelle
scelte più banali, come cosa indossare o cosa cucinare.
Ogni volta che mi diceva “Brava, Anna, così mi piaci!”
Mi sentivo sollevata, come se avessi conquistato
qualcosa di prezioso. Ma quel sollievo durava poco,
perché poi arrivava un’altra critica, un altro silenzio,
un altro “Te lo stai inventando”.
Ogni sera,
quando il cielo si tingeva di un viola malato, il mio
cuore si stringeva in una morsa di terrore puro. La cena
era il mio campo di battaglia, un’arena dove mi gettavo
con una devozione febbrile, sperando di riconquistare
Pietro, l’uomo che una volta mi aveva fatto sentire come
se potessi toccare le stelle e che ora mi stava
trascinando in un abisso senza fondo. Prepararmi per lui
era un atto di sacrificio, un’offerta disperata
sull’altare della sua approvazione. Ma ogni tentativo,
ogni gesto, si sgretolava sotto il peso del suo
disprezzo, lasciandomi a raccogliere i frammenti di me
stessa con mani tremanti.
Passavo ore davanti
allo specchio, il volto rigato da lacrime che cercavo di
nascondere sotto strati di trucco. Il mascara mi
scivolava tra le dita, le mani che tremavano come se
fossero estranee al mio corpo. “Stasera sarà diverso…”
Mi ripetevo, ma la mia voce era un sussurro rotto,
un’eco di una speranza che si stava spegnendo. Indossavo
il mio vestito di seta nera, quello che un tempo mi
faceva sentire invincibile, ma ora sembrava un costume,
una maschera per nascondere la donna che ero diventata.
Mi guardavo allo specchio e vedevo solo un’estranea:
occhi spenti, labbra che non ricordavano più come
sorridere. “Chi sei, Sonia?” Mi chiedevo, e la risposta
era un silenzio che mi soffocava.
In cucina, ogni
gesto era un’ossessione, un tentativo di controllare
l’incontrollabile. Sistemavo la tovaglia di lino con una
precisione maniacale, come se un angolo storto potesse
scatenare la sua furia. Preparavo piatti che
richiedevano ore di lavoro: ravioli fatti a mano con
ripieno di zucca, brasato al Barolo, una torta al
cioccolato che profumava di casa e di sogni infranti.
Ogni cucchiaio di farina, ogni pizzico di sale, era un
atto di supplica. “Ti prego, Pietro. Amami.” Ma il mio
cuore sapeva che non sarebbe bastato. Non bastava mai.
Quando ci sedevamo a tavola, l’aria era densa di un
silenzio che mi schiacciava. Le candele tremolavano, ma
la loro luce non riusciva a scacciare il gelo nei suoi
occhi. Lui mangiava con una lentezza deliberata, ogni
boccone un giudizio. Io cercavo di parlare, di tessere
un filo di connessione, ma le parole mi si incastravano
in gola, soffocate dalla paura di sbagliare. Una sera,
mentre gli raccontavo di un tramonto che avevo visto
tornando a casa, lui posò la forchetta pesantemente sul
tavolo che mi fece sobbalzare.
“Sonia cazzo,
questi ravioli sono un disastro.” Disse, la voce
tagliente come una lama. “La pasta è troppo spessa, il
ripieno è insapore. Non capisco come tu possa pensare
che questo sia cibo per umani.” I suoi occhi mi
inchiodarono, freddi, implacabili. “Sei così… mediocre.
È imbarazzante, davvero.” Il mio cuore si fermò.
Sentii il sangue defluire dal viso, la vergogna che mi
bruciava la pelle come acido. “Mi dispiace, Pietro…”
Balbettai. “Ho provato, ho seguito la ricetta… posso
rifarli, ci metto un attimo…” “Rifarli?” Rise, una
risata che era un coltello nel mio petto. “Non si tratta
dei ravioli. Si tratta di te. Sei un fallimento
ambulante. Non ti sforzi nemmeno, vero? O forse non sei
capace?”
Le lacrime mi pungevano gli occhi, ma le
ricacciai indietro, mordendomi il labbro fino a sentire
il sapore del sangue. “Volevo solo farti felice.”
Sussurrai, la voce così fragile che sembrava sul punto
di dissolversi. “Ci sto provando, te lo giuro…”
“Farmi felice?” Ripeté, con un sogghigno che mi fece
rabbrividire. “Smettila di piangerti addosso. Sei
patetica. Se non riesci a fare una cosa semplice come
cucinare, forse dovresti chiederti perché sono ancora
qui a sopportarti.”
Quelle parole mi spezzarono.
Mi sentii come se il pavimento si fosse aperto sotto di
me, lasciandomi cadere in un vuoto senza fine. Ero
niente. Ero sbagliata. Ogni sua critica era una frusta
che mi lacerava l’anima, lasciando cicatrici che non
vedevo ma sentivo in ogni respiro. Mentre sparecchiavo
da sola, piangevo in silenzio. Odiavo me stessa per non
essere ciò che lui voleva. Ma più di tutto, odiavo la
parte di me che ancora lo amava, che ancora cercava la
sua approvazione.
Ma il vero inferno arrivava nei
momenti intimi, quando il suo controllo si trasformava
in una violazione non solo della mia mente, ma del mio
corpo. All’inizio, il sesso era stato un rifugio, un
luogo dove i nostri corpi parlavano quando le parole
fallivano. Ora, era una prigione, un luogo dove lui mi
ricordava quanto fossi inadeguata, quanto fossi sua da
plasmare e distruggere. Ogni tocco era un atto di
dominio, ogni sguardo un promemoria della mia impotenza.
Era diventato un narcisista freddo, calcolatore e
molto intuitivo, era in grado di leggere anticipatamente
le mie mosse, le mie obiezioni innescando ogni qualvolta
il seme del dubbio. Viveva in uno stato di perenne
recitazione come se indossasse una maschera, e come un
tarlo scavava nella mia testa. Alternava silenzi ostili,
a parole pungenti, a verità negate. Un processo lungo e
lento con l’obiettivo del controllo totale anche a volte
quel controllo non era sufficiente e cercava di ottenere
il mio consenso attraverso la mia approvazione.
Una notte, dopo una cena mi prese per il polso e mi
trascinò in camera. Il suo tocco era duro, quasi
punitivo, e il mio cuore batteva così forte che pensavo
sarebbe esploso. Ero esausta, svuotata, ma volevo
disperatamente colmare l’abisso tra noi. Pensavo che,
forse, se gli avessi dato ciò che voleva, avrebbe smesso
di guardarmi come se fossi un errore. Mi spinse sul
letto, il suo peso che mi inchiodava come una sentenza.
Cercai di rispondere, di fingere un desiderio che non
sentivo, ma il mio corpo tremava, tradendo la mia paura.
“Rilassati. Perché sei sempre così tesa? Non ti fidi di
me? O ti sei dimenticata come si fa?” “Non è questo,
Pietro. È solo che… mi sento fragile. Ho bisogno di un
po’ di dolcezza.” “Dolcezza?” Rise, un suono che mi
fece gelare il sangue. “Sonia, sei ridicola. Sempre a
fare la vittima. Se non vuoi stare con me, dimmelo. Ma
non darmi la colpa se non sei capace di essere una
donna. Sei patetica, lo sai?”
Quelle parole mi
trafissero, scavando un buco nel mio cuore. Mi sentii
sporca, sbagliata, indegna della sua passione, come se
il mio stesso corpo fosse un tradimento. “Scusa…”
Singhiozzai, odiandomi per la mia debolezza. “Non
volevo… possiamo riprovare. Voglio essere ciò che
desideri, te lo giuro.” Lui mi guardò, un sorriso
crudele che gli increspava le labbra. “Essere ciò che
desidero? Sonia, non si tratta di quello che desidero.
Si tratta di quello che tu non sei. Ma vediamo se riesci
a fare almeno questo senza deludermi. Non farmelo
ripetere.”
Cedetti, non per amore, non per
desiderio, ma per terrore. Terrore di perderlo, di
confermare che ero il nulla che lui dipingeva. Ogni suo
tocco era un’invasione, ogni suo ordine un chiodo nella
mia anima. Non cercava il mio piacere, non cercava la
mia essenza. Cercava la mia distruzione, la mia completa
sottomissione. E io, intrappolata nel suo gioco crudele,
gliela concedevo, sentendo pezzi di me morire a ogni
istante. Il mio corpo non era più mio; era un oggetto,
un trofeo per la sua vittoria.
Dopo, mentre lui
dormiva, restavo sveglia, il corpo intorpidito, la mente
un vortice di dolore. Mi stringevo le braccia al petto,
come per tenere insieme i frammenti di me stessa che si
stavano sgretolando. I sensi di colpa mi divoravano come
un incendio. “Perché non riesci a renderlo felice?
Perché sei così sbagliata?” Mi scusavo con lui nella mia
mente, promettendomi di essere migliore, di non
deluderlo ancora. Ma ogni promessa era una catena che mi
legava più stretta alla mia prigione.
Le cene
continuavano, un ciclo infinito di agonia. Mi facevo
bella, mettevo il mio rossetto scarlatto, sistemavo i
capelli in onde che un tempo mi facevano sentire una
regina. Indossavo la sua lingerie preferita, le calze
nere a rete, perfino una giarrettiera rossa che un tempo
lo faceva impazzire. Ma lui non vedeva il mio desiderio
di piacergli. I suoi occhi mi attraversavano come se
fossi un fantasma. “Quel rossetto è volgare, con quella
lingerie sembri una puttana!” Diceva, con un sospiro che
era una sentenza di morte. “Sembri una da marciapiede
che cerca di farsi notare. Non hai bisogno di tutto
questo per essere te stessa, no?”
Quelle parole
erano un veleno che si insinuava nelle mie vene,
corrodeva ogni traccia di me stessa. Non sapevo più chi
fossi. La Sonia che danzava sotto la pioggia, che rideva
fino alle lacrime, che sognava un futuro luminoso era
stata sepolta viva, sostituita da una creatura che
viveva per compiacere, per evitare il prossimo colpo, la
prossima ferita. Ogni suo gesto, ogni silenzio, ogni
parola, era un filo di marionetta che mi teneva in suo
potere, facendomi dubitare della mia memoria, dei miei
sentimenti, della mia sanità mentale.
A volte
piangevo fino a non avere più lacrime. Piangevo per la
donna che ero stata, per la libertà che avevo perso, per
l’amore che avevo creduto vero. Ma i sensi di colpa mi
inseguivano anche lì, sussurrando che era tutta colpa
mia. “Se fossi più forte, più intelligente, più giovane,
più bella, meno impacciata, lui ti amerebbe.” Dicevano.
“Se fossi migliore, non ti farebbe questo.” E io ci
credevo, ci credevo con ogni fibra del mio essere
spezzato.
Mi chiedevo spesso perché lo fa? Alle
volte pensavo che volesse troncare, lasciarmi, che
avesse un’altra donna, ma non era così, lui voleva me,
solo me, sottomessa al suo narcisismo universale. Giorno
dopo giorno ho iniziato a vederci più chiaro, ma
nonostante quella consapevolezza mi sentivo sempre più
disorientata, confusa fino a dubitare della mia
percezione, perché alle volte la sua strategia lo
portava a ignorarmi completamente per poi riconsiderarmi
fortemente.
Non so come sia arrivata a questo
punto. Mi sento intrappolata in una nebbia, dove non so
più cosa sia reale e cosa no. A volte mi chiedo se sono
pazza, se tutto questo è solo nella mia testa. Ma poi
ricordo quella luce fioca, le chiavi scomparse, le sue
parole che scavano come tarli nella mia mente. E una
parte di me, piccola, ma ancora viva, si chiede: e se
non fossi io quella sbagliata? E se fosse lui a volerlo,
questo mio crollo?
Una voce dentro di me grida:
“Non meriti questo. Tu sei abbastanza. Tu sei viva.” È
così debole, così facile da ignorare sotto il peso delle
sue parole, delle sue mani, del suo controllo. Eppure,
non si spegne. E in queste notti, mentre il mondo dorme
e io mi aggrappo a quel minuscolo frammento di me
stessa, oso sognare. Sogno un giorno in cui guarderò
nello specchio e vedo Sonia, non la sua vittima. Sogno
un giorno in cui spezzerò le catene e corro verso la
luce, anche se significa cadere. Perché anche cadere
sarà meglio di questa lenta, agonizzante morte.
Non so quando quel giorno arriverà. Non so se troverò
mai il coraggio di uscire da questa gabbia, la forza di
alzarmi, di gridare, di essere di nuovo me stessa. Ma
quella scintilla, quella voce, è ancora lì. E finché
respira, io respiro con lei. E scrivo queste parole per
ricordarmi che esisto, che la mia voce, anche se trema,
è ancora qui. E forse, un giorno, riuscirò a crederci di
nuovo, a credere in Me stessa.» .
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ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
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