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GIALLO PASSIONE
 

Numa Pompilio ed Egeria
Quell’amore proibito
Questa è la storia di un vecchio re mortale e una ninfa che gli offrì passione e tormento e che quando lui morì pianse per amore fino a diventare sorgente...
 

 
 
Era l’anno in cui Roma, ancora piccolo borgo di capanne sul Palatino, piangeva Romolo scomparso nel temporale. I senatori avevano scelto Numa Pompilio, sabino di Curi, uomo già grigio alle tempie, famoso per la sua pietas e per la sua mente pacata. Lo avevano incoronato re contro la sua volontà, perché egli avrebbe preferito restare tra i monti di casa, a coltivare olivi e a interrogare il silenzio degli dèi.

Numa aveva sposato da giovane Tazia, figlia di un capo sabino. Lei era stata una sposa devota, forte come la quercia e tenera come un sambuco, e gli aveva dato molti figli: Pompilio, Pomponia, Pinus, Mamercus, e altri ancora che correvano scalzi per l’atrio della casa sul Quirinale.

Ma gli anni avevano spento il fuoco tra loro e la notte, quando lui si voltava verso di lei, trovava un corpo stanco che dormiva già. Il re sentiva dentro un vuoto che nessuna legge umana poteva colmare.
Così, quando il peso del regno gli schiacciava il petto, Numa scendeva di nascosto dal Palatino, avvolto in un mantello di lana grezza rossa, e si dirigeva lungo la via Appia, oltre la porta Capena, dove il piccolo fiume Almone scorreva lento tra i canneti e i salici piangenti.

Là, in una valletta nascosta, tra querce secolari e muschio che odorava di terra bagnata, c’era la grotta delle Camene. L’acqua vi sgorgava da una fenditura della roccia, chiara come cristallo. Intorno, il bosco era fitto e silenzioso; solo il vento faceva tremare le foglie come arpe lontane.

Una sera di primavera, quando la luna era piena e bassa sull’orizzonte, Numa arrivò più tardi del solito. Aveva passato il giorno a placare una lite tra pastori latini e sabini, e il cuore gli pesava come piombo. Si inginocchiò sulla riva, immerse le mani nell’acqua gelida e sussurrò: «Se davvero gli dèi parlano agli uomini, che parlino a me, ora, perché io non so più dove sia la giustizia».

L’acqua tremò e subito dopo spuntò da dietro una quercia una figura che a Numa sembrò solo un riflesso dell’acqua. Lentamente quel riflesso si fece materia e carne e poi capelli color alghe scure che galleggiavano come fili di notte liquida, spalle pallide che emergevano come luna dall’acqua.

Numa incantato da tanta bellezza non perse un solo istante. La donna si alzò. Era alta, più alta di qualunque donna mortale, e la sua pelle aveva il colore dell’opale: non bianca, ma traslucida, come se la luce vi passasse attraverso. Gli occhi erano verdi come il fondo di un pozzo antico, profondi, immobili, eppure pieni di stelle. Indossava una tunica di nebbia che si muoveva da sola, aderendo al corpo perfetto e svanendo dove non serviva coprire. Intorno al collo portava una collana di gocce d’acqua che non cadevano mai.

Numa rimase inginocchiato, incapace di respirare. Lei si avvicinò. «Alzati, figlio di Pompone.» Disse con una voce che assomigliava al suono stesso dell’acqua che scorreva sui ciottoli lisci, dolce e tagliente insieme. «Mi chiamo Egeria. Le Camene mi hanno mandato perché tu sei l’unico re che cerca la sapienza invece della spada».

Lui obbedì e si alzò lentamente. Quando i loro sguardi si incrociarono, sentì qualcosa spezzarsi dentro, come una diga troppo piena. Non era solo desiderio carnale, quello lo aveva conosciuto con Tazia, con altre donne nei campi di gioventù, era un amore più antico, più doloroso: il riconoscimento di un’anima che aveva sempre abitato i suoi sogni senza che lui lo sapesse.

«Io… non sono degno.» Balbettò. Egeria sorrise, e fu come se l’intera valle sorridesse con lei. «La dignità non c’entra. C’entra il vuoto che porti dentro. Io lo riempirò». Fece ancora qualche passo verso di lui, ma non sembrava camminare. Quasi scivolava, lasciando dietro di sé una scia di umidità che brillava al chiaro di luna. Al cospetto del re gli sfiorò la fronte con le dita fredde come neve di montagna, e Numa tremò dalla testa ai piedi.

In quel preciso istante lui si innamorò perdutamente, irrimediabilmente. Numa sentì una forza interiore a cui per nessuna ragione umana avrebbe potuto ribellarsi. Non ci fu gradualità, non ci fu lotta. Fu come cadere da una rupe dentro un lago senza fondo: un solo istante, e tutto ciò che era stato prima divenne cenere.

Egeria gli porse le sue labbra e lo baciò appena sulla bocca. Erano fredde come la fonte e dolci come il miele che stilla dalle querce sacre. Numa sentì il sapore dell’acqua più pura che avesse mai bevuto: un gusto di neve lontana, di muschio, di tempo prima del tempo.
Il bacio fu breve, quasi timido. Poi lei lasciò scivolare la tunica di nebbia. Non cadde: si dissolse, come brina al sole. Il suo corpo apparve intero, senza ombre e senza vergogna, illuminato dalla luna che filtrava tra le foglie. I seni erano piccoli e perfetti, i fianchi stretti come quelli di una fanciulla che non ha mai partorito, e tra le cosce un’ombra umida di peli biondi e rossicci che brillava come rugiada. Si inginocchiò sul letto di foglie di quercia e di alloro che il bosco stesso aveva preparato. Schiuse lentamente le gambe, mostrando la rosa pallida e lucente che vi si nascondeva e lo invitò nel suo Olimpo di nettare.

«Voi siete il re.» Sussurrò. «E il mio corpo non ha segreti per il re che gli dèi hanno scelto.» Numa si chinò su di lei tremando. Non era più il sabino di cinquant’anni, padre di molti figli, sposo stanco di Tazia: era un uomo alla sua prima volta, un adolescente che scopre il fuoco. Entrò in lei con un gemito che era quasi un pianto. Egeria lo accolse come la terra accoglie la pioggia dopo la siccità: con un sospiro lungo, profondo, che fece tremare le foglie intorno.

Si mossero piano, poi sempre più in fretta. Il corpo della ninfa era freddo fuori e ardente dentro, un paradosso che lo faceva impazzire. Ogni spinta era un giuramento, ogni contrarsi di lei una profezia. Quando Numa sentì arrivare l’onda, cercò di trattenersi, non voleva che finisse, non voleva tornare al mondo degli uomini, ma Egeria spalancò la sua femminilità divina e gli sussurrò nell’orecchio: «Lasciatevi andare, mio re. Il seme di un re giusto deve cadere nella terra sacra.»

Allora lui esplose, con un grido che spaventò le civette nel bosco. Venne dentro di lei in lunghi spasmi, e ogni goccia gli parve portasse via un pezzo della sua anima mortale. Rimase riverso sul suo petto, il cuore che batteva come tamburo di guerra. Sentì le dita di Egeria accarezzargli i capelli grigi.

«Mio re.» Disse lei con voce già lontana. «Voi avete da fare cose più importanti che baciare una ninfa. Roma vi aspetta. Le leggi che vi ho dato devono camminare sulle gambe degli uomini, non restare tra le mie cosce.» Numa chiuse gli occhi, esausto, felice, disperato.

Quando li riaprì, il letto di foglie era vuoto. Solo un velo di brina copriva l’erba, e nell’aria restava l’odore di fonte e di desiderio soddisfatto. Si alzò, raccolse il mantello, e si accorse che la sua tunica era asciutta: neppure una goccia d’acqua, neppure una foglia appiccicata. Come se nulla fosse accaduto. Eppure dentro di sé tutto era cambiato per sempre. Tornò verso Roma all’alba, con il passo di chi porta un segreto troppo grande per un solo cuore. Sentiva ancora sulle labbra il sapore di quella notte e nel petto il vuoto dolce di chi ha conosciuto l’amore degli dèi.

Da quella notte, ogni volta che Roma dormiva, Numa scendeva all’Almone. Tazia sua moglie si accorse che il marito non la cercava più; vedeva il suo sguardo perso, le mani che tremavano quando tornava all’alba con la tunica umida e l’odore di muschio femminile.

Lei aveva cresciuto cinque figli, aveva visto il marito piangere per la morte del padre, aveva contato le pecore durante le carestie, aveva tenuto la casa in piedi. Conosceva ogni piega del suo corpo, ogni sospiro, ogni odore. Quando Numa tornava che il cielo imbiancava a oriente, lei era già sveglia. Stava seduta sul bordo del letto, le mani intrecciate in grembo, la schiena dritta come sempre. Lui entrava in silenzio, si toglieva il mantello, cercava di evitare il suo sguardo.

Ma Tazia sentiva l’odore prima ancora di vederlo. Non era un profumo di donna mortale. Non era sudore di schiava, né olio di cortigiana, né il sentore acre delle matrone che talvolta consolavano i potenti. Era un odore di grotta profonda, di foglie marce e di acqua che non aveva mai visto il sole; era l’odore di una cosa che non appartiene al mondo degli uomini. E sotto, appena percettibile, il sale dolce di un amplesso che non lascia tracce sulla pelle.

Numa si lavava in fretta nel catino di bronzo, ma l’odore restava. Restava nei capelli, dietro le orecchie, tra le dita. Restava negli occhi, soprattutto: quegli occhi che una volta, quando erano giovani, la cercavano nel buio e ora guardavano oltre lei, come se lei fosse già diventata un’ombra.

Quando Numa usciva dopo la cena, con la scusa di sacrifici notturni o di colloqui con i sacerdoti, lei restava sveglia, ascoltando i passi di lui che si allontanavano sul selciato del Quirinale. Poi si alzava, andava alla finestra, e guardava la città addormentata: le luci dei fuochi che si spegnevano una a una, i cani che latravano lontano, il Tevere che brillava come una lama sotto la luna. E si chiedeva, stringendosi le braccia al petto: «Come si combatte contro una dea?»

Non era gelosia, era qualcosa di più profondo, di più umile. Si sentiva piccola, terrena, impotente. Lei aveva dato a Numa figli robusti, una casa ordinata, un nome rispettato. Aveva sopportato i dolori del parto, le febbri dei bambini, le guerre di Romolo che portavano via gli uomini. Aveva tenuto duro. Ma quella… quella cosa non aveva bisogno di tenere duro. Non sanguinava, non invecchiava, non aveva rughe intorno agli occhi né seni svuotati dalle poppate.

Una notte, dopo che Numa era rientrato più tardi del solito, con la barba umida e le labbra gonfie di baci, Tazia non riuscì più a tacere. «Chi è lei?» Chiese piano, senza alzare la voce. Numa si fermò sulla soglia della camera. Non finse di non capire. «Non è una donna, Tazia.»
«Lo so.» La voce di lei tremò appena. «L’ho sentito. Sa di acqua eterna e miele di quercia secolare. Dimmi solo il nome.» Lui abbassò lo sguardo. «Egeria.» Il nome cadde tra loro come una pietra in uno stagno. Tazia annuì lentamente. Aveva sentito raccontare delle Camene, da bambina, dalle vecchie sabine. Sapeva che non si poteva odiare una ninfa più di quanto si odia il vento che piega le spighe. «Tornerà a prenderti del tutto, un giorno.» Disse, con una calma che la sorprese. «E io non potrò fare nulla.»

Numa fece per avvicinarsi, per toccarle la spalla, ma lei si ritrasse di un passo. Non per disprezzo, ma per pudore. Non voleva che lui la toccasse con le mani ancora impregnate del nettare della ninfa. «Io ti ho dato quello che potevo dare.» Sussurrò Tazia. «Figli, pace, una casa. Lei ti sta dando… altro, ciò che io mai potrei offrirti. Non sono così stolta da credere di poter competere.» Poi si voltò, tornò a letto, si girò verso il muro. Numa restò lì, in piedi, fino all’alba. Da quella notte non parlarono più dell’argomento.

Tazia continuò a governare la casa, a crescere i figli, a ricevere le matrone. Sorrideva quando serviva, ma nei suoi occhi era apparsa una tristezza antica, la stessa che hanno le querce quando sanno che verranno abbattute per diventare navi. E ogni volta che Numa usciva, lei si sedeva accanto al focolare e ripeteva dentro di sé la domanda che non avrebbe mai avuto risposta: «Come si combatte contro una dea?» Non si combatte, concluse alla fine. Si sopravvive. E si aspetta che il tempo, almeno lui, sia pietoso con i mortali.

E intanto Numa tutte le notti si recava lungo la via Appia e nella grotta, sotto la volta di edera, Egeria gli parlava. Gli dettava le leggi sul calendario, sui sacerdoti, sui riti che avrebbero reso Roma eterna. Gli insegnava il nome segreto degli dèi, il modo di placare la collera di Marte, il significato del fuoco che non deve mai spegnersi. Lui le accarezzava il seno e lei si faceva accarezzare. E tra una parola sacra e l’altra, lo baciava. E più lo baciava e più Numa si rendeva conto che quei baci di ninfa non erano come quelli delle donne mortali: lasciavano dentro un freddo che bruciava, un desiderio incolmabile che mai si sarebbe consumato.

Numa tornava al Palatino con gli occhi luminosi e la morte nel cuore, perché sapeva che ogni volta che lasciava la grotta, una parte di sé restava lì, intrappolata nell’acqua.

Poi passarono gli anni. I figli crebbero, il re diventò sempre più pallido, sempre più distante. Tazia invecchiò in silenzio, ma non si lamentava. Non piangeva mai davanti a lui. Solo, nelle notti d’inverno, quando il vento fischiava tra le tegole, si stringeva lo scialle al petto e mormorava: «Almeno io ho avuto i suoi figli. Lei no.» Era la sua piccola vittoria, l’unica che gli dèi le avessero lasciato.

Egeria invece non invecchiava. Ogni volta che Numa scendeva all’Almone la trovava identica a quella prima notte. Gli stessi capelli di alghe liquide, la stessa pelle che rifletteva la luna, gli stessi occhi verdi e immobili. Il tempo non la toccava. Non aveva rughe, né vene blu sulle mani. Il suo corpo era sempre pronto, sempre aperto, sempre giovane.

«Vieni, mio re.» Gli diceva, accarezzandogli le tempie bianche. «Il tuo popolo ha bisogno di un uomo saggio, ma io ho bisogno di un uomo vivo.» E Numa, anche se ogni passo gli costava dolore, si sdraiava ancora sul letto di foglie che il bosco rinnovava per loro. Facevano l’amore lentamente, ormai; non più con la furia dei primi tempi, ma con la tenerezza di chi sa che ogni abbraccio potrebbe essere l’ultimo. Lui affondava il viso nel collo di lei, aspirava quell’odore di fonte e di eternità, e per qualche istante tornava giovane.

Poi si alzava, si rivestiva, e risaliva verso Roma con il cuore più pesante di prima. Una sera d’autunno, quando le foglie erano rosse come il sangue di un sacrificio, Numa arrivò alla grotta barcollando. Era debole: da giorni mangiava poco, dormiva meno. Egeria lo accolse come sempre, ma stavolta nei suoi occhi c’era qualcosa di diverso: una tristezza antica, la stessa che Tazia portava dentro da anni.

«Sei stanco, mio re.» Gli disse, baciandogli le palpebre. «Il tuo corpo mortale si sta spegnendo.» Numa annuì. «Lo so. Ma non voglio morire senza averti vista un’ultima volta.» Lei lo strinse forte, più forte di quanto avesse mai fatto. «Non sarai mai senza di me. Quando chiuderai gli occhi, io sarò lì. L’acqua ricorderà.»

Quella notte non parlarono di leggi né di calendari. Rimasero abbracciati in silenzio, mentre la luna calava e le prime luci dell’alba tingevano di rosa il cielo. Numa pianse piano, come un bambino. Quando il sole spuntò, lui si alzò per l’ultima volta. Le baciò le mani, poi le labbra fredde. «Addio, amore mio» Disse. «Nessun addio!» Rispose lei. «Solo un arrivederci nell’acqua.» Numa tornò a Roma. Tre giorni dopo, si coricò e non si alzò più. Tazia era accanto a lui quando spirò. Gli tenne la mano fino all’ultimo, senza una parola. Solo, quando il respiro si fermò, gli chiuse gli occhi e sussurrò: «Adesso è tutta tua.» Non era rancore. Era resa.

Egeria, invece, quella stessa notte scese alla fonte presso porta Capena e pianse così tanto che le sue lacrime non si fermarono più. Si sciolse, goccia dopo goccia, finché del suo corpo non rimase nulla. Diana, impietosita, la trasformò in una sorgente perenne.

Da allora, chi passa di lì, nelle notti senza luna, giura di sentire tra il fruscio dei salici e il gorgoglio dolce dell’acqua, il singhiozzo di una donna che non smette mai di piangere.


 

 


 
IMMAGINE GENERATA DA IA
ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA

 






 
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