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GIALLO PASSIONE 
Domenica Calvi, detta "Menicuccia"
La notte in cui il
peccato divenne luce
Nell’ottobre del 1604, Caravaggio
trovò rifugio nella casa di Menicuccia. Quella che iniziò come
una fuga si trasformò in un incontro dove il pittore non prese solo
il suo corpo, ma l’anima. E per la prima volta la cortigiana sentì
di essere guardata come una Maddalena senza tela: nuda, peccatrice,
immortale.

Roma,
estate del 1601. Il caldo è tale che l’aria sembrava
vetro fuso sopra i tetti di terracotta. Vicino al
Collegio dei Greci, in una strada stretta che da via del
Corso scendeva verso il Tevere, c’era una casa grande,
di tre piani, con balconi di ferro e un portone sempre
socchiuso. È lì che abitava Domenica Calvi, detta
Menicuccia.
Non era una cortigiana da piazza di
Spagna, di quelle che avevano voglia di apparire ad ogni
costo e si facevano ritrarre in seta e perle. Lei era
una donna più discreta, più romana, di quelle che i
cardinali e i gentiluomini andavano a trovare senza far
rumore.
La casa era in affitto, un contratto
rinnovato di mese in mese, e lei la divideva con una
serva, una vecchia madre mezza cieca e qualche amica che
passava la notte quando serviva. Dentro l’odore di cera,
di rose sempre fresche nei vasi e di vino greco che
arriva dal porto di Ripetta.
Menicuccia aveva
ventotto anni, forse trenta, nessuno glieli chiedeva
davvero perché Domenica era di una bellezza eterna che
mai sarebbe sfiorita. Aveva la pelle olivastra, gli
occhi neri come il carbone e vispi come se sapesse già
cosa dire prima di ascoltare la domanda. Parlava poco,
rideva di gola, e quando camminava sul selciato
sconnesso di via del Corso faceva tintinnare i
braccialetti d’argento che portava al polso sinistro, un
regalo di qualcuno che ormai non contava più.
******
Una sera di agosto, calda da morire,
Menicuccia uscì con due amiche, Lucrezia e Prudenza.
Avevano ricevuto nel pomeriggio un biglietto, piegato in
quattro, sigillato con cera verde: «Tre rose per il
giardino del Monte». Era il modo in cui certi signori
invitavano le prostitute. Menicuccia non sapeva chi le
aspettasse davvero. Forse il cugino del cardinal Del
Monte, quel giovane Farnese che aveva già speso una
fortuna per lei l’inverno prima; forse il figlio
bastardo di un monsignore spagnolo, uno che pagava in
Giuli d’oro e non chiedeva mai il nome. Non importava.
L’importante era che pagasse bene, e che la carrozza
fosse scoperta, così il vento almeno fingeva di
rinfrescare la notte romana.
Salirono ridendo, i
ventagli aperti, i capelli già umidi sulla nuca.
Lucrezia portava un abito color zafferano che le
lasciava le spalle nude, Prudenza uno scialle di pizzo
nero che non nascondeva niente. Menicuccia aveva scelto
il semplice: gonna di seta cremisi, corpetto slacciato
che metteva in mostra il suo seno generoso, e al collo
una catenina d’oro con una piccola croce per farsi
perdonare da Dio.
La carrozza prese via Paulina,
poi girò verso Porta Pinciana. Il cielo era viola,
pesante, senza una stella. L’odore di Roma d’estate col
suo inconfondibile piscio di cavallo e resina dei pini
entrava dentro le narici e ci restava. All’altezza della
vigna del cardinal Del Monte, proprio dove la strada si
stringe tra due muri alti, il cocchiere rallentò.
Qualcuno aveva detto di fermarsi lì. Menicuccia si
sporse.
Nel buio vide solo una sagoma: un uomo in
piedi, cappello abbassato, mantello scuro. Non era né
Farnese né lo spagnolo. Era più alto, più magro con un
fiasco di vino in mano. «Michelangelo?» Sussurrò
Lucrezia riconoscendolo per prima e gli porse il
biglietto dell’invito. Caravaggio fece un passo
avanti e lesse. «Non sono io quello che vi ha chiamate.»
Disse piano. «Ma visto che siete qui…» Menicuccia rise.
«Non sei tu che paghi, allora non conti.» «Posso
pagare in un altro modo.» Rispose lui alzando il fiasco.
Prudenza e Lucrezia si guardarono, Menicuccia invece
disse. «Vieni su.»
Lui salì con un balzo, si
sedette di fronte a lei, tra le due amiche che già lo
stuzzicavano. Il cocchiere frustò il cavallo senza
bisogno di ordini: sapeva dove andare. Iniziarono a bere
dal fiasco, passandoselo. Caravaggio guardava Menicuccia
senza parlare. Lei ricambiava lo sguardo, tranquilla,
come se lo stesse già spogliando con gli occhi.
A
un tratto lui le prese la mano, quella con i
braccialetti d’argento, e gliela girò in su. Con il dito
tracciò una linea lenta, dal polso al centro della mano.
«Qui ci passa la tua fortuna ed io posso renderti
famosa.» Disse. Ma proprio in quel momento la carrozza
si fermò di colpo. Voci, lanterne. Il Bargello. Gli
sbirri circondarono la vettura, spade sguainate.
«Scendete, puttane!» Caravaggio imprecò sottovoce, ma
non si mosse. Menicuccia invece scese per prima, a testa
alta, la gonna che strisciava nella polvere. «Siamo
state invitate.» Disse al capitano, con la voce più
dolce che aveva. «Chiedete al cardinal Del Monte.» Il
capitano la squadrò, poi squadrò Caravaggio che nel
frattempo era sceso anche lui, le mani in tasca, l’aria
strafottente. «Il pittore.» Ringhiò uno sbirro
riconoscendolo. «Sempre in cerca di guai.»
Ma
quello era un posto proibito alle puttane per cui quella
notte finirono tutti dentro a Tor di Nona: le tre donne
in una cella, Caravaggio in un’altra. Ma mentre le porte
si chiudevano, Menicuccia riuscì a voltarsi un’ultima
volta. Lui era lì, dall’altra parte del corridoio, le
mani aggrappate alle sbarre. Si guardarono. E in quel
momento, tra il puzzo di umido e la paura, capirono
tutti e due che non era finita lì. Non era per denaro,
era già per altro. Il capitano intanto scriveva qualcosa
su un registro e dopo li lasciò andare. Lei tornò a casa
all’alba, scalza, i capelli sciolti, e rise pensando a
quella frase di Caravaggio: “Ti renderò famosa!”
******
Da quell’incontro passarono circa tre
anni. Era l’ottobre del 1604. Caravaggio aveva cenato
all’osteria della Torretta con Onorio Longhi e Spaventa,
il corriere del cardinal Aldobrandini. Avevano bevuto
troppo, come sempre. Uscirono dalla locanda, girarono
per il Popolo, poi presero la strada verso i Greci. Lì,
davanti alla casa di Menicuccia, iniziarono a tirare
sassi contro le imposte chiuse di Ranuccio Tommasoni,
loro nemico e rivale. Volarono schegge, grida,
arrivarono gli sbirri e Caravaggio si riparò dentro il
portone. Qualcuno gli aveva aperto la porta e quel
qualcuno era Menicuccia con una candela in mano che lo
aveva fatto entrare in silenzio.
A piedi nudi,
indossava solo una camicia di lino leggera in cui
traspariva un seno generoso e maledettamente sensuale.
Lui aveva ancora il mantello addosso, il fiato che
sapeva di vino e di rabbia. «Sei matto!» Gli sussurrò
lei. «Lo sai che quelli sono imparentati con il papa?»
Lui, colpito da quella bellezza, non rispose, la strinse
e la baciò contro il muro, come se si conoscessero da
sempre.
******
La prima volta successe
lì, in quella casa, senza fretta e senza testimoni. Lui
le passò le sue mani tra i capelli, le tirò indietro la
testa, le baciò avidamente il collo. «Non qui.» Disse
lei. Salirono le scale al buio come due ladri,
ridendo piano per non svegliare la vecchia madre. Nella
camera di Menicuccia c’era un letto grande, con tende di
damasco rosso sbiadito e un crocifisso d’avorio sopra la
testata. Lei chiuse la porta, posò la candela sul
comodino, la luce tremava sulle pareti e il cuore le
batteva nelle tempie più forte delle pietre che ancora
rimbalzavano sulla strada.
Lo guardò:
Caravaggio, il pittore maledetto, con il mantello
impolverato, gli occhi neri che brillavano di una furia
appena domata. Era bello in modo brutale, come un angelo
caduto che non chiedeva perdono. «Sei matto!» Ripeté, ma
questa volta la voce le uscì più bassa, quasi un
sospiro. Lui non parlò. La prese per la vita, la spinse
verso il letto e la baciò con una violenza che non era
solo desiderio: era gratitudine, era rabbia, era la
certezza che quella notte poteva finire con un coltello
nella pancia e invece finiva tra le sue braccia.
Lei si voltò verso di lui e lasciò cadere la camicia.
Rimase nuda, i capelli neri sciolti sulle spalle, il
seno pieno che si alzava e abbassava rapidamente. Non
era più la cortigiana che sorrideva per mestiere. Era
solo una donna! Caravaggio la guardò a lungo, senza
toccarla. I suoi occhi percorrevano il corpo di lei come
se stesse già dipingendo: la curva del collo, la linea
scura tra i seni, il triangolo nero tra le cosce, la
pelle dorata dalla fiamma. Poi si inginocchiò leccandola
e baciandola con una tenerezza che contrastava con la
furia di poco prima. Le labbra di lui sapevano di
Malvasia e di sangue e quelle di lei di nettare d’api.
Quando la spinse sul letto, Menicuccia sentì solo il
peso di lui sopra di sé, il calore, la forza trattenuta.
Lei lo lasciò fare. Anzi, lo ricambiò. Da anni
riceveva uomini per mestiere, nobili, soldati, preti,
mercanti e farabutti, e aveva imparato a spegnere la
mente mentre il corpo lavorava. Ma con lui fu diverso
fin dal primo tocco. Le sue mani non cercavano solo
carne: cercavano qualcosa da dipingere, da capire, da
possedere per sempre. Quando le sfiorò il seno con
le labbra, Menicuccia sentì un brivido che non era paura
né piacere meccanico. Era come se qualcuno, per la prima
volta, l’amasse davvero.
Lui entrò piano, quasi
con reverenza, e in quel momento lei capì cosa
significava essere desiderata non come corpo da usare,
ma come mistero da svelare. Le sue mani le stringevano i
fianchi, ma non con avidità: con stupore. Ogni affondo
era una domanda, ogni sospiro una risposta. Lei gli
cinse il collo con le braccia, gli affondò le unghie
nella schiena, lo tenne stretto come se temesse che
sparisse.
Lo guardava negli occhi e vi vedeva
riflessa la propria anima, per la prima volta messa a
nudo. Non era più Menicuccia la puttana: era una Madonna
peccatrice che qualcuno finalmente dipingeva con amore.
Lui, dentro di lei, la guardava come se volesse
ricordarsela per sempre, lei gli teneva il viso tra le
mani, costringendolo a guardarla negli occhi. Non
parlarono. Solo respiri, gemiti bassi, il rumore del
letto che cigolava.
Quando lui accelerò, lei si
abbandonò completamente. Il piacere arrivò come una luce
violenta, improvvisa, quasi dolorosa. Gridò piano contro
la sua spalla, morse il lenzuolo per non svegliare la
madre. Sentì il corpo di lui tremare, irrigidirsi, poi
esplodere e crollare su di lei con un gemito rauco,
profondo, quasi un singhiozzo.
Rimasero così,
avvinghiati, sudati, con il cuore che batteva
all’unisono. La candela si era consumata quasi del
tutto, la stanza era piena di ombre rosse. Menicuccia
gli accarezzò i capelli umidi, gli baciò la tempia. Non
disse nulla, ma pensò: Ecco, questo è ciò che lui
dipinge. Non santi, non madonne finte. Questo. Carne che
brucia, anime che si riconoscono nel buio. Per la
prima volta dopo anni, si sentì bella davvero. Non
perché lui l’aveva pagata, non perché era giovane e
desiderata. Ma perché qualcuno, in quella notte di
ottobre del 1604, l’aveva guardata come si guarda
un’opera d’arte che ancora non esiste, ma che deve
esistere a tutti i costi. E lei, per la prima volta,
desiderò essere immortale. Non per vanità. Per restare
per sempre dentro quegli occhi neri, dentro quelle mani
che sapevano trasformare il peccato in luce.
Quando finirono rimasero abbracciati, sudati. Lui le
accarezzava la schiena, le dita che seguivano la linea
della spina dorsale. «Domani ti dipingerò!» Le disse a
un certo punto, con la voce rauca. «Michelangero non
promettermi ritratti, so che non lo farai, ma promettimi
solo che tornerai.»
Di sotto, gli sbirri stavano
portando via Onorio e Ottaviano. Le pietre avevano fatto
rumore e qualcuno aveva chiamato la ronda. Caravaggio
senti le voci, si alzò, si rivestì in fretta. Ma prima
di uscire si chinò su di lei, le diede un ultimo bacio
sulla bocca. «Se mi prendono, di’ che sono sempre stato
qui con te.» Le sussurrò. Lei sorrise nel buio. «Dirò la
verità, ossia che sei un ottimo amante!» Lui uscì, ma
venne subito fermato.
In questura negò tutto,
disse di non conoscere Ranuccio e che aveva passato
tutta la serata con Menicuccia. Il bargello sorrise:
«Pittore andare a zoccole non è meno grave che tirare
sassi alla finestra di un uomo rispettabile!» Caravaggio
rispose che non conosceva il mestiere di quella donna,
ma che era stato colpito dalla sua bellezza e che il suo
unico desiderio era farle un ritratto.
Ma la
storia andrà diversamente perché nessuno troverà mai il
volto di Domenica Calvi su una tela di Caravaggio. Forse
perché era troppo viva per stare dentro un quadro. Forse
perché era troppo bella e il tempo con lei si consumava
facendo altro. Forse perché lui la voleva tenere tutta
per sé, senza condividerla con il mondo.
A
via dei Greci, la casa è rimasta lì ancora per anni.
Ogni tanto, di notte, qualcuno giurava di sentire i
gemiti di una donna dietro le imposte chiuse. Ma erano
solo voci di Roma, che tutto mescola: sassi, baci,
arresti, cardinali, pittori, amanti e puttane.
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IMMAGINE GENERATA DA IA ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA


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